Chi ricorda il Monte Toc, la diga del Vajont, Erto, Casso, Longarone?
Sessant’anni fa la morte arrivava dalla montagna, ma la colpa era dell'uomo. Un libro“Crolla la diga dl Vajont a Belluno, Migliaia di Morti” (Prima pagina del Quotidiano romano “Paese Sera”, del 10 Ottobre 1963).
Prima di Internet e della Rete, quando si volevano cercare notizie di un fatto di cronaca non recente si andava in una Biblioteca pubblica, dotata di una Emeroteca o in una Redazione di un Quotidiano e si consultavano i giornali del tempo. Il titolo che avete letto all’inizio di queste righe è di un Giornale che a Roma, molti anni fa, usciva tutti i pomeriggi e riguarda un disastro ambientale tra i più tragici della nostra Storia. Mi riferisco al disastro del Vajont, del 9 Ottobre 1963, un Mercoledì (un’altra data per il nostro Calendario Civile), che possiamo, tranquillamente, chiamare strage.
Nota: il 14 Luglio di quell’anno, il 1963, il pulcino nero Calimero esordisce in TV. «Tutti se la prendono con me perché sono piccolo e nero. E’ un’ingiustizia, però!» è l’indimenticabile frase che accompagnava ogni apparizione di quel pulcino a Carosello. Il 28 Agosto di quell’anno, il 1963, Martin Luther King pronuncia, a New York, il suo celebre “I have a dream”: “Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: “Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”.
Tra pochi giorni saranno trascorsi 60 anni da quel drammatico Mercoledì in cui un pezzo gigantesco del Monte Toc si staccò dalla montagna precipitando sulla diga sottostante del bacino idroelettrico del lago Vajont, situato al confine tra Friuli e Veneto creando un’onda gigantesca, alta oltre 260 metri che travolse alla velocità di oltre 100 chilometri orari, i paesi di Erto, Casso e Longarone, portandosi via 1917 vite (stima ufficiale, probabilmente assai per difetto) tra cui 487 bambini.
Nota: mai nome dato ad una Montagna fu più azzeccato. “Toc” in dialetto bellunese significa “Pezzo” e vuol dire, a chi sa capire il significato nascosto delle parole, che quella Montagna è pericolosa, perché “cade a pezzi”, “si sbriciola”. Altre fonti segnalano che il nome dato a quel Monte delle Prealpi bellunesi starebbe ad indicare che “un toc sovrasta Casso e un toc Erto”, nomi di paesi che, con Longarone, proprio un “pezzo” di quella Montagna (corrispondente a 263 metri cubi di roccia) precipitato sulla sottostante diga del Vajont, li farà sparire dalla faccia della terra con quasi 2mila persone che in quei paesi vivevano. Fu così, il Monte Toc si prese, quel giorno, gioco degli uomini che lo avevano sottovalutato, pretendendo un pagamento in vite umane.
A distanza di tanti anni certo la Memoria di quel fatto, soprattutto fuori del territorio del Bellunese che ne fu teatro, si è affievolita e molti, al tempo ancora non presenti in questo mondo, non sanno nulla di questa storiaccia. Per questo ho pensato utile spendere qualche riga per ricordarla, spinto anche dall’uscita del Romanzo di Mauro Corona, esperto alpinista e Maestro intagliatore del legno, intitolato “Le Altalene” mandato in Libreria dalla Casa Editrice Mondadori, che di quella tragedia racconta.
Il libro di cui oggi vi propongo la lettura, è ancora una scoperta della faciloneria con cui, spesso, in questo Paese si procede e un atto di Memoria per migliaia di innocenti a cui quella faciloneria è costata la vita.
Mauro Corona, “Le Altalene”, il libro
Un racconto poetico e sentitissimo, in cui Corona lascia libero il flusso dei ricordi e si concede ai suoi lettori con assoluta e generosa sincerità. I suoi luoghi, Erto, la diga, la montagna, così come le persone della sua vita, vengono filtrati dal tempo passato, e forse perduto, in un romanzo-monologo dove la profondità e il fascino del racconto sono impreziositi da una voce narrante sempre più risolta e convincente. Dal giorno in cui, sessant’anni fa, piovve terra sulla terra e terra nell’acqua, terra su duemila anime morte, di cui quattrocentottantasette bambini … a Erto il tempo ha continuato a oscillare tra dolore e speranza di rinascita, ricordi tragici e difficili presenti, memoria di una povertà aspra e dura ma viva e vitale che si riflette nel benessere vuoto e triste dell’oggi.
La voce narrante di questo romanzo lirico, struggente, ferocemente intimo, conduce il lettore in un continuo andare e venire su e giù nel tempo: il vecchio ricorda e racconta il suo mondo com’era, prima che la cieca avidità dell’uomo lo distruggesse, insieme racconta la sua vita, l’infanzia e la prima adolescenza, la spensieratezza di tre fratelli che si alterna alla incomprensibile violenza della vita famigliare,quando si deve misurare con il tormento di una comunità stravolta dal dolore. E poi la maturità e la vecchiaia, il presente che porta su di sé il peso di una vita intera: il simbolo di tutto questo sono le altalene del paese, che il narratore ricorda nel loro oscillare gioioso tra le grida felici dei bambini, e che vede oggi ferme, vuote, arrugginite.
Fonte: https://www.ibs.it/altalene-libro-mauro-corona/e/9788804761327
Prima del Romanzo di Corona, diversi Saggi e Volumi di denuncia (oggi li chiamano “istant boock”) hanno raccontato quella tragedia, dovuta non ad una montagna impazzita, ma ancora una volta all’uomo che – incurante delle regole della natura, costruisce una diga sotto ad una Montagna chiamata Toc, perché si sa che, di tanto in tanto, perde i suoi pezzi (la saggezza popolare sempre inascoltata) convinto della perfezione del suo lavoro e del fatto che la natura non potrà assolutamente distruggerlo. In effetti, la storia di quel Mercoledì 9 Ottobre 1963 ci dice che la Diga resse, ma non evitò la tragedia.
Oggi quella diga, da tempo abbandonata e coperta di vegetazione, è meta e di turisti ma anche di chi vi si reca per ricordare quei morti innocenti. La diga, anche se abbandonata, è dunque ancora là, così come è ancora visibile, su di un fianco della montagna, la “ferita” lasciata da quel toc di roccia assassina.
La Memoria di quel disastro è stata anche raccontata in una Mostra, organizzata utilizzando le prime pagine dei Quotidiani dell’epoca. La Mostra – presentata sul finire del 2014 (51° Anniversario o quella tragedia) – era intitolata “I Giornali del Vajont” e venne curata da Mario Battiston di Trichiana con la collaborazione dell’Associazione Culturale “Tina Merlin”, a cui quella Mostra era dedicata.
Nota: alla strage del Vajont saranno anche dedicati, nel 2000 uno Spettacolo di Marco Paolini e l’anno dopo, un Film del regista Renzo Martinelli, come leggerete dopo queste mie righe.
A questo punto, occorre aprire una parentesi perché su questa storiaccia di morte, se ne innesta un’altra che riguarda proprio Tina Merlin, una donna coraggiosa e risoluta la cui vita, non solo professionale, è stata molto legata a quella tragedia. Clementina (Tina) Merlin nasce a Trichiana, Provincia di Belluno, nel 1926 ed è la più giovane di otto fratelli. Nel 1943, a diciassette anni, come il fratello Toni, Tina entra nella Resistenza come Staffetta Partigiana nella 7^ Brigata Alpini, (anche nota come Brigata Partigiana “Matteotti Montagna”) con il nome di battaglia di Joe. Dopo la guerra, Tina Merlin partecipa ad un concorso giornalistico per il Quotidiano l’Unità e lo vince, cominciando così la sua carriera di giornalista che la porterà – da bellunese – ad occuparsi proprio della tragedia del Vajont, scrivendo duri articoli di denuncia, già diversi anni prima che quella tragedia avesse luogo. Infatti, per quei suoi articoli in cui denunciava la situazione pericolosa connessa all’avanzamento dei lavori di costruzione della diga sul Vajont, la Merlin, nel 1959, viene denunciata, processata e poi assolta dal Tribunale di Milano, per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico».
Per chi volesse conoscere meglio questa donna coraggiosa, ricordo due suoi libri. Il primo s’intitola “Menica e le altre, racconti Partigiani” (Cierre Edizioni, Edizione ampliata, 2023) e racconta, in forma romanzata, la sua esperienza partigiana. L’altro, pubblicato postumo nel 1993, s’intitola “La Casa sulla Marteniga” (Cierre Edizioni, 1993) e si tratta della sua autobiografia.
Il resoconto di Luigi Pellizzoni
Sotto trovate un resoconto della tragedia del Vajont scritto il 9 Ottobre del 2019, 56° Anniversario di quella strage, da Luigi Pellizzoni e pubblicato sul Sito Web del Il Mulino.
La sera del 9 ottobre 1963, alle ore 22 e 39, una massa di oltre 250 milioni di metri cubi di roccia e terra si stacca dal Monte Toc, precipitando nel sottostante bacino idroelettrico del Vajont, al confine tra Friuli e Veneto
di Luigi Pellizzoni
- La sera del 9 ottobre 1963, alle ore 22 e 39, una massa di oltre 250 milioni di metri cubi di roccia e terra si stacca dal Monte Toc, precipitando in poche decine di secondi a una velocità superiore ai 100 chilometri orari nel sottostante bacino idroelettrico del Vajont, al confine tra Friuli e Veneto. Un’enorme massa d’acqua si solleva. L’onda in parte colpisce la sponda opposta del lago, investendo i paesi di Erto e Casso e inghiottendo alcune frazioni; in parte scavalca la diga precipitando verso la valle del Piave, dove distrugge Longarone e altri abitati. Le stime ufficiali parleranno di 1917 vittime, ma il numero esatto rimane imprecisato. Molti dispersi non sono mai stati trovati; molti corpi, recuperati a brandelli, mai identificati.
La diga del Vajont era ed è considerata un capolavoro di ingegneria. Al tempo la più alta del mondo (oltre 260 metri) e tuttora fra le più alte mai realizzate, resse all’impatto dell’onda e oggi suscita ammirazione e stordimento nei turisti che, reso il manufatto visitabile, si affacciano sull’abisso sottostante. Sul lato interno, la frana ha riempito gran parte del bacino. Su di essa è cresciuta la vegetazione. Lo squarcio nel monte Toc è ancora perfettamente identificabile, impressionante.
Il Vajont è indicato come caso esemplare di disastro evitabile; il peggiore del genere verificatosi in Europa e uno dei più gravi al mondo. L’idea di realizzare un bacino idroelettrico nella valle del Vajont risale agli anni Venti e riprende vigore alla fine della Seconda guerra mondiale. Promotore è la Sade (Società adriatica di elettricità), azienda al vertice del settore e provvista di ottime entrature politiche. La diga viene completata nel 1961. Già nel 1959, tuttavia, il geologo Edoardo Semenza (figlio di Carlo, progettista della diga) aveva rilevato la presenza di una vasta e profonda zona instabile. Ma i pareri erano discordi e soprattutto erano troppi gli interessi in gioco per dare il giusto peso all’avvertimento, inclusa l’imminente acquisizione dell’impianto da parte dell’Enel, il nuovo ente nazionale per l’energia elettrica. L’invaso fu riempito e il tardivo tentativo di svuotamento, una volta ammesso il pericolo della frana, diede probabilmente la scossa fatale al fragile equilibrio.
Ad approfondire gli aspetti geofisici del disastro sono stati più gli stranieri che gli italiani (così emerge da un convegno svoltosi nel 2013 presso l’Università di Firenze), a conferma di una diffusa tendenza alla rimozione. Il processo penale, spostato da Belluno all’Aquila per il presunto pericolo di disordini, terminò nel 1971, alle soglie della prescrizione, con due lievi condanne. Quello per i risarcimenti si trascinò fino al 2000. A infrangere, nel 1997, l’oblio della memoria fu l’attore Marco Paolini, con un monologo ripreso dalla televisione e seguito da un vasto pubblico; successo bissato nel 2001 dal film Vajont. La diga del disonore, di Renzo Martinelli.
Un resoconto della vicenda è offerto dalle voci Wikipedia italiana e inglese (da notare che agli aspetti politici della vicenda è dato risalto soprattutto nella seconda). Meritevole di lettura è poi la cronaca asciutta e appassionata di Tina Merlin, che, da umile corrispondente di provincia dell’“Unità” e nel silenzio degli altri organi di stampa, aveva denunciato la prepotenza della Sade nell’imporre agli abitanti di Erto e Casso espropri e indennizzi miserabili e i rischi cui la popolazione era esposta, finendo per questo sotto processo (cfr. il suo Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, la cui prima edizione uscì nel 1983, dopo numerosi rifiuti). Parlare di fallimento della scienza, come si legge, è perciò riduttivo. Quel che è avvenuto oggi sarebbe impossibile dato l’avanzamento delle conoscenze. Sia pure. Ma in ciò che il Vajont ci mostra con la forza della tragedia non c’è nulla di inattuale. Riassumiamolo.
Prima del disastro. La scienza, i dati, che si piegano a letture contrastanti, secondo gli interessi in campo. I media che per conformismo o malafede si mostrano zelanti servitori di tali interessi. Le decisioni prese sulla pelle di una popolazione marginale, agitando il vessillo del progresso e del sacrificio per il bene comune (vessillo che si agita oggi contro l’opposizione al Tav in Val Susa o le battaglie in corso nel mondo contro dighe e bacini sempre più imponenti, dunque rischiose e ecologicamente impattanti). La confusione tra bene comune e bene privato che, insieme a meccanismi psicologici quale il group think (l’adeguamento, a livello di gruppo decisionale, della realtà che emerge dai dati a ciò che pare prioritario: realizzare un progetto, salvare gli investimenti o la carriera), aiuta a spiegare perché tecnici, consulenti e dirigenti aziendali e ministeriali abbiano persistito a negare prima l’esistenza di problemi, poi la loro gravità, nonostante l’accumularsi di evidenze su un imminente disastro. I timori della comunità e di alcuni funzionari e amministratori locali derisi o ignorati (Vajont nel dialetto locale significa “va giù”; il torrente Vajont scorre tra il Monte Toc – da “Patoc”, che significa “guasto”, “avariato” – e il monte Salta: siamo insomma di fronte a un ottimo esempio di sapere locale inascoltato).
Dopo il disastro. L’appello alla fatalità: “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia”, scrive Dino Buzzati sul “Corriere della Sera”; e Indro Montanelli, altra grande firma del giornalismo nostrano, accusa di sciacallaggio chi, come la Merlin, contesta una lettura assolutoria (a dare spazio alla vicenda che aveva condotto alla tragedia saranno principalmente i giornali stranieri).
L’occultamento delle prove: la relazione sul modello di simulazione della frana, realizzato nel 1961 (sia pure difettoso nella concezione, esso dava risultati tutt’altro che rassicuranti), resta in un cassetto e viene scoperta fortuitamente. La battaglia politica sulla pelle dei disastrati: la commissione parlamentare d’inchiesta produce tre relazioni contrastanti: una, di maggioranza (Dc), assolutoria; una, di opposizione (Pci), accusatoria; una (Psi) assolutoria per i funzionari che avrebbero dovuto vigilare. La rettitudine di alcuni, che salva in parte le istituzioni: è la fermezza dei giudici istruttori a evitare l’archiviazione della vicenda. L’intervento in emergenza: valoroso. La gara di solidarietà: imponente ma seguita da accuse ai sopravvissuti, la cui dignità fu invece esemplare, di lucrare sugli aiuti. La speculazione: il patteggiamento diretto di Sade/Enel con i danneggiati o i loro parenti; le licenze artigianali e commerciali dei disastrati rilevate per pochi soldi e rivendute ad altri. La ricostruzione (Longarone); l’abbandono (a Erto e Casso rimasero i pochi che si erano rifiutati di trasferirsi altrove); la diaspora del grosso delle comunità colpite.
All’indomani della tragedia si disse: mai più. Parole troppe volte ripetute, dopo disastri di ogni genere. La diga che ancora si staglia sulla sottostante vallata ci interroga su quale sia il modo giusto di rapportarsi all’ambiente. Non si tratta di condannare lo sforzo dell’ingegno umano di sottrarsi al giogo, spesso duro e crudele, delle forze naturali per piegarle a proprio vantaggio, ma di definire una nuova stagione della tecnica, in cui non si persegua il saccheggio delle risorse e la trasformazione dell’ambiente a ogni costo, spinti da una pulsione alla “crescita” apparentemente ineluttabile, ma si trovi una nuova o recuperata saggezza, fondata sulla misura, il senso del limite, la riconciliazione con la natura e dunque con noi stessi. – Fonte: https://www.rivistailmulino.it/a/9-ottobre-1963
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”