Collaborazionismo, diritti ed il vizio della libertà

I diritti delle donne

Dunque, a qualcuno delle donne importa. Almeno formalmente. Come è, infatti, noto, l’Accademia di Svezia, che annualmente assegna i Premi Nobel, ha attribuito quello per la Pace 2023 all’attivista iraniana per i diritti umani Narges Mohammadi. Questo, mentre le donne iraniane manifestano al grido di “Donna, Vita, Libertà” e muoiono con quel grido strozzato in gola e mentre Narges Mohammadi sconta 31 anni di carcere e si è beccata ben 154 frustate per difendere il diritto, di tutte e di tutti, ad una vita libera in cui essere e fare.

Nota: provate ad immaginare quanto male possano fare al vostro corpo e alla vostra psiche, 154 frustate date, senza interruzione.

Ancora, sempre l’Accademia di Svezia ha assegnato ieri l’altro, il Premio Nobel per l’Economia 2023, all’Economista statunitense Claudia Goldin, Professoressa di Economia all’Università di Harvard, per i suoi Studi sul “gender gap”, ovvero sulla “discriminazione di genere” che da tempo (immemorabile) colpisce le donne di tutto il mondo, senza che – da parte dei Governi – vi si ponga fine in modo serio e duraturo. Vediamo ora se questi prestigiosi riconoscimenti – sui destinatari dei quali tutti (o quasi) nel mondo hanno plaudito – si tradurranno, sempre da parte dei Governi, in una maggiore attenzione ai diritti delle donne.

Ancora sui diritti

Ieri l’altro, Il Consiglio d’Europa ha assegnato il Premio Vaclav Havel per i Diritti Umani 2923, a Oman Kavala. Il premiato non ha, però, potuto ritirare il premio, dato che da sei anni si trova ristretto nelle prigioni turche (che non sono certo il meglio nel settore) con l’accusa di avere complottato contro il regime del dittatore Recep Tayyp Erdogan. Il premio è stato ritirato, in sua vece, dalla moglie, Ayse Bugra, Professoressa ad Istanbul, che ha letto un messaggio del marito, nel quale è scritto, tra l’atro: “la cosa più importante è non perdere la speranza. Questo non vuol dire chiudere gli occhi su quanto avviene nel mondo”.

A casa nostra, intanto, la Procura della Repubblica di Cuneo ha rinviato a giudizio 23 Agenti della Polizia Penitenziaria con l’accusa di maltrattamenti e torture nei confronti dei detenuti della locale Casa Circondariale. 

Nota: ricordo che il reato di “tortura” – previsto e punito dalla Legge N. 110, del 2017 che ha introdotto nel nostro Codice Penale gli Articoli 613bis (reato di “tortura”) e 613 ter (reato di “istigazione alla tortura”) – disturba molta parte dell’attuale maggioranza di Governo; nonché i Sindacati autonomi della Polizia Penitenziaria, Entità che, entrambe, amerebbero “rivedere” quei due Articoli del Codice Penale (leggi cancellare del tutto quella Legge). Ah, dimenticavo, stessa sorte giudiziaria, dei colleghi di Cuneo, ovvero una incriminazione, è toccata ad un gruppetto (in gergo una “squadretta”) di Agenti della Penitenziaria in servizio nel Carcere di Porto Ferraio (Isola D’Elba), incriminati con la stessa identica imputazione di tortura.

“Il noir è perfetto per descrivere le civiltà in crisi. E oggi, in Europa, è un genere che ha ancora molto da dire.” (Patrick Raynal, scrittore francese) 

Un mio amico fraterno, Maestro, Pedagogista e scrittore, mi spiegava che la trama di un libro, per diventare una buona trama, doveva essere scritta cominciando dalla fine. Non so se il giornalista e scrittore francese Robert Brasillach lavorasse in questo modo ai suoi libri, ma – visto che ho deciso di scrivere di lui e del suo ultimo Romanzo “Sei Ore da perdere”, Edizioni Settecolori, 2023 – anch’io comincio dalla fine, la sua. 

Robert Brasillach, collaborazionista dei tedeschi con e per il Governo (o Repubblica) di Wichy (denominazione ufficiale: Stato Francese di Wichy) alla fine della guerra, per avere collaborato con il nemico, verrà processato e condannato a morte, si vedrà rifiutare la grazia dal Generale De Gaulle (grazia peraltro chiesta, con una petizione, anche da molti intellettuali francesi antinazifascisti) e sarà fucilato ad Arcuel (Dipartimento della Valle della 

Marna nella Regione dell’Île-de-France), il 6 Febbraio del 1945.

Nota biografica: Robert Brasillach (1909-1945), intellettuale e scrittor francese, frequenta L’École Normale Supérieure e si avvicina all’Action française, diventando a soli ventidue anni responsabile delle pagine letterarie dell’omonima rivista. Negli anni Trenta visita l’Italia, la Germania, la Spagna e il Belgio, rimanendo conquistato dal carattere e dalla disciplina delle gioventù nazional-fasciste di questi paesi. Nel 1936 diviene redattore di Je suis partout, al fianco di Gaxotte, Rebatet, Cousteau e altri intellettuali favorevoli ad una collaborazione franco-tedesca. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale vede Brasillach arruolarsi come soldato semplice nell’esercito francese. Dopo la disfatta francese ritorna in patria riprendendo il posto di redattore di Je suis partout ormai su posizioni filo-naziste. Fra le sue numerose opere tradotte in italiano ricordiamo, tra gli altri, “I sette colori” (Ciarrapico Editore) e Presenza di Virgilio (Edizioni all’Insegna del Veltro). Entrambe le Case Editrici citate non disdegnano (anzi preferiscono) editare opere di autori fascisti e/o nazisti dichiarati. Prima di inoltrarci nella trama dl libro di Brasillach (un noir autobiografico) subito appresso trovate una Scheda su Wichy pubblicata sul Sito web di SPI, Storia, Politica, Informazione, un Progetto di divulgazione storico-politica e approfondimento culturale.

La Repubblica di Vichy di Francesco Mele

«Qualunque cosa accada, il popolo non lo dimenticherà. Egli sa che io l’ho difeso come ho difeso Verdun. Signori giurati, la mia vita e la mia libertà sono nelle vostre mani, ma il mio onore io lo affido alla Patria. Disponete di me secondo coscienza. La mia non ha nulla da rimproverarmi, poiché durante una vita già lunga, giunto alla mia età e alle soglie della morte, affermo che non ho altra ambizione che quella di servire la Francia»

(P. Pétain) 

Il governo di Vichy (o regime di Vichy) fu l’assetto politico-istituzionale che si affermò nella Francia centro-meridionale, libera dall’occupazione tedesca, in seguito alla firma dell’armistizio del 22 Giugno 1940. Questo governo vide la luce ufficialmente il 10 Luglio 1940, quando la maggioranza dei parlamentari francesi, riuniti nella città di Vichy, decise di accordare pieni poteri alla figura del maresciallo Pétain, eroe della Prima guerra mondiale e già capo del governo dal 16 Giugno 1940, con il fine di creare una nuova Costituzione dello Stato francese, a garanzia dei valori della famiglia, del lavoro e della patria. Tale mossa si presentò come la definitiva sconfitta della democrazia liberale francese, che quindi cedette il passo al governo autocratico guidato da un maresciallo presentatosi come unico saldo punto di riferimento all’interno di un Paese totalmente allo sbando. 

Per molti aspetti il regime di Vichy rifletteva una concezione del potere e della società simili a quelle affermatasi nella Spagna franchista, nel Portogallo di Salazar e nell’Austria degli anni Trenta. Tuttavia, la base ideologica del governo di Pétain non corrispondeva esattamente agli ideali nazional-cattolici e, per questo, si può definire più correttamente come un regime nazional-conservatore con marcati tratti di antisemitismo e xenofobia, frutto della fusione di varie dottrine politiche e sociali: innanzitutto, la critica controrivoluzionaria di Joseph de Maistre, filosofo vissuto tra il XVIII ed il XIX secolo, che rifiutò in toto gli ideali sociopolitici affermati dalla Rivoluzione Francese e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Inoltre, un’altra componente fondamentale venne dal cattolicesimo sociale corporativista elaborato da Renè de La Tour du Pin e di Albert de Mun, importanti uomini politici e militari nella Francia del primo Novecento, nonché dalle teorie filofasciste, xenofobe e antisemite del pensatore Chalres Maurras, fondatore della rivista Action Française e membro dell’Accademia di Francia. Il risultato di tutto ciò fu la nascita di un regime che individuò come nemici pubblici i “métèques” (o “meteci”, termine dispregiativo utilizzato verso asiatici e africani), ma anche i protestanti, i massoni e gli ebrei, accusandoli di essere il morbo nocivo che indeboliva dall’interno i reali valori dello Stato e della nazione francese e che cercò di debellare tale morbo attraverso la coercizione e la violenza politica. 

L’unità minima della nuova società sognata da Pétain era la famiglia, rigorosamente di stampo tradizionale, quindi patriarcale, ma soprattutto numerosa: infatti il maresciallo, sulla scia dei regimi in Spagna, Portogallo, Italia e Germania, varò numerosi provvedimenti volti all’incremento del tasso di natalità. La seconda componente fondamentale dello Stato di Vichy era il concetto di patria, la quale doveva essere riportata in forze grazie alla epurazione degli individui che la avevano resa debole e fragile: gli stranieri e gli ebrei.

Dunque, con un provvedimento firmato il 17 Luglio 1940, Pétain escluse dal pubblico impiego ogni funzionario cui entrambi i genitori non fossero francesi; in seguito, revocò la nazionalità ai cosiddetti “francesi recenti”, ovvero tutti quegli stranieri che erano stati naturalizzati dopo il 1927. Gli ebrei, tra il 1940 e il 1941, non soltanto vennero radiati dalla pubblica amministrazione, bensì fu proibito loro l’esercizio di determinate professioni e venne loro applicato lo status giuridico di minoranza, imponendo la dicitura “juif” (ebreo) sulle loro carte d’identità. Secondo la visione del Governo, erano il sangue e l’eredità culturale ad identificare un vero francese. Tali convinzioni furono giustificate anche grazie una reinterpretazione ad hoc della storia, che identificava il popolo francese come erede degli antichi Galli, trasformando l’idea di patria nell’immagine di una comunità armoniosa, culturalmente ed etnicamente omogenea, unita dalla e nella storia. La terza ed ultima componente della triade ideologica di Vichy, ovvero il lavoro, venne riorganizzato secondo la logica corporativista, sciogliendo i sindacati sostituendoli, attraverso un provvedimento varato il 16 Agosto 1940, dai i Comités d’Organisation, organi inefficaci, all’interno dei quali i lavoratori non godevano di alcuna rappresentanza. 

Il primo governo Vichy, per quanto tradizionalista, filofascista ed antisemita, inizialmente restò parzialmente estraneo all’influenza dei collaborazionisti parigini.  Nondimeno, a causa della pressione politica e militare esercitata dall’occupazione tedesca nella metà settentrionale del Paese, presto si trasformò in uno stato satellite del Terzo Reich, totalmente allineato ed asservito alla politica della Germania nazista. Fu proprio in conseguenza di queste pressioni che, nel 1942, Pétain nominò Pierre Laval, politico di lungo corso ed ex socialista, nel ruolo vicepresidente del Consiglio, e introdusse vari collaborazionisti nei ruoli chiave del governo di Vichy. Dal 1942 Pétain divenne dunque una figura formale, quasi un fantoccio posto a capo del governo, mentre Pierre Laval e la sua cerchia parigina filonazista detennero le redini del potere fino all’agosto 1944 quando, durante l’avanzata alleata nel nord della Francia, Laval e Pétain furono costretti alle dimissioni e trasferiti in Germania, presso il castello di Sigmaringen.

Fonte: https://sites.google.com/view/spistoriapoliticainformazione/storie-europee/la-repubblica-di-vichy

La storia che Brasillach racconta nel libro (che è poi la sua) la trovate riassunta nel riquadro sottostante. Io chiudo questa Nota con poche altre righe. Intanto, consigliandovi la lettura del libro che ci dà, pur nella trama romanzata, la realtà di cosa fosse lo Stato Francese, collaborazionista di Wichy e ce la dà attraverso la penna e i pensieri di una persona, un intellettuale, certamente anticomunista e certamente nazifascista e dunque la sua non può essere considerata una rappresentazione di parte avversa a quei quattro anni di vita della Repubblica collaborazionista di Wichy. 

Se qualcuno trovasse sconveniente (eufemismo) che qui si scriva (e si legga) del libro di un collaborazionista nazifascista, voglio rassicurarlo che questa scelta odierna non connota affatto un pericoloso arretramento rispetto alle mie convinzioni più volte espresse, qui e altrove, ci mancherebbe. L’idea che mi ha portato a questa scelta risiede nella convinzione che anche un libro scritto da chi non abbia le mie idee in fatto di nazifascismo possa – come in questo caso – aiutarci a capire meglio come stavano effettivamente le cose, tra le fila di chi, in Francia, collaborava con i nazisti. (*) 

La lettura del Romanzo di Brasillach non mi ha, infatti, tolto la convinzione che fascisti e antifascisti non possano essere accostati o resi, né uguali, né simili, neanche lontanamente. Nel nostro Paese, la storia di quei 20 mesi tra il Settembre del ’43 e l’Aprile del ‘45 ha fatto da spartiacque: da una parte c’era chi credeva nella libertà e nella democrazia e voleva costruire, per sé e per gli altri da sé, un futuro diverso e migliore; dall’altra c’erano quelli che, invece, credevano nella continuità dello Stato fascista, nella  supremazia della razza e nel fatto che dal mondo andassero eliminati, violentemente, tutti quelli che – loro stessi – avevano decretato essere diversi e per questo indegni di vivere. 

Che un collaborazionista dei nazifascisti si accorga, alla fine della sua esperienza politica (e nel caso in specie della sua vita terrena) di quale fosse realmente l’idea di mondo per la quale ha fatto il tifo e lavorato e a cosa quell’idea avesse portato, non è cosa malvagia, ma comunque non lo assolve dall’essersi schierato, consapevolmente, dalla parte sbagliata della Storia. 

Robert Brasillach (1909-1945) “Sei Ore da perdere”

1943. Nella Francia occupata dai tedeschi, un giovane ufficiale, Robert B., rientra a Parigi dopo più di tre anni di prigionia. Nell’attesa di un treno che, dalla Gare de Lyon, lo riporti finalmente a casa. Ha un pugno di ore da spendere nella capitale e un impegno da assolvere: trovare Marie-Anne, la ragazza che il suo compagno dell’Oflag in cui erano rinchiusi, Bruno Berthier, ha conosciuto durante una breve licenza dal fronte e di cui è rimasto innamorato. Ha inizio così una ricerca attraverso una città che non ha più nulla della Parigi da Robert conosciuta prima della guerra: strade vuote di automobili, mercato nero, code, vetrine spoglie, un’atmosfera di paura, rabbia, disordine morale, troppi volti sconosciuti, nessun volto che riesca a risplendere nel ricordo. Via via che le ore scorrono, la ricerca assume i contorni di una vera e propria inchiesta, perché anche la polizia è intanto sulle tracce di Marie-Ange, resasi irreperibile: il corpo del suo ex marito è stato infatti ritrovato alla frontiera franco-belga, in un camion contenente merci di contrabbando.

Chi l’ha ucciso? E perché? C’erano ancora rapporti fra loro? Che ne è stato del figlio che avevano messo al mondo? In Sei ore da perdere, Robert Brasillach costruisce un perfetto noir alla Simenon dove una struttura ad incastro illumina di volta in volta gli indizi in vista della loro finale collocazione, ma traccia altresì un crudele quanto illuminante ritratto di una capitale in tempo di guerra dove il senso del «tragico sociale» fa strame di ogni illusione sul passato e sull’innocenza dei suoi protagonisti. Scritto di getto in pochi mesi, pubblicato come feuilleton per il Settimanale «La Révolution nationale» dal marzo al giugno del 1944, questo poliziesco d’atmosfera è l’ultima prova narrativa di Brasillach e un’ulteriore conferma, qualora ancora ce ne fosse bisogno, del suo grande talento di narratore.

Fonte: https://www.settecolori.it/prodotto/sei-ore-da-perdere-robert-brasillach-edizione-numerata/9

(*) Come accadde da noi con la RSI di Mussolini, Pavolini e Graziani, anche in Francia i collaborazionisti di Vichy si prestarono, con convinzione, a fare il lavoro sporco per i tedeschi. Tra le nefandezze da attribuire ai francesi di Petain, c’è il rastrellamento del Velodromo d’Inverno (16 Luglio 1942) ovvero la collaborazione attiva all’”Operazione Vento di Primavera”, voluta dei nazisti nel quadro della “Soluzione Finale dl Problema Ebraico”. In questa storiaccia ritroviamo il nome di Otto Adolf Eichmann, incaricato, durante la Conferenza di Wansee (20 Gennaio 1942), di risolvere quel “problema” e di Theodor Danneker che – con un nucleo di SS specializzate in rastrellamenti – opererà anche a Roma, il 16 Ottobre del 1943. Qui trovate un resoconto di quell’avvenimento mortifero: https://www.lincontro.news/parigi-16-luglio-1942-il-rastrellamento-del-velodromo-dinverno/ 

Per i cinefili quel rastrellamento è il tema del Film Vento di Primavera (La Rafle) diretto, nel 2010, dalla regista francese Roselyne Bosch, tra l’altro anche giornalista ed inviata speciale. Ancora due film sull’occupazione tedesca della parte Nord della Francia e sul collaborazionismo, diretti dal regista francese Luis Malle. Il Primo è dl 1987 e s’intitola “Arrivederci Ragazzi”. Il secondo è del 1974 e s’intitola “Cognome e nome Lacombe Lucienne”.


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