Come mi prendo gioco del regime e dei creduloni
Una memoria del fascismo poco nota e due libri per questa storia tutta italianaSe si scrive un nome, quello di Edgar Laplante e lo si fa seguire da un titolo altisonante: “Chief Withe Elk,” “Capo Cervo Bianco” pochi – ci scommetto – conoscono la storia che si cela dietro questa accoppiata. Eppure, si tratta di una storia di casa nostra, la storia di un uomo che, attraverso la maschera di un personaggio – che potremmo assimilare a quelle interpretate in teatro dagli attori, ma anche (vedi appresso) alle maschere indossate dagli umani che Luigi Pirandello, drammaturgo, scrittore e poeta siciliano, descrive nelle sue opere letterarie e teatrali – ha saputo (s)mascherare la credulità degli italiani e i falsi miti di un regime, quello fascista, già allora sanguinario.
La “maschera” che Edgar Laplante, alias Chief Withe Elk, indossa durante il suo soggiorno italiano ricorda, infatti, e paradossalmente rende vero quanto Luigi Pirandello (1867-1936) – fascista dichiarato e premio Nobel per la Letteratura nel 1934 – sostiene, per bocca di uno dei personaggi, nel suo Romanzo più celebre, “Uno, Nessuno, Centomila”, del 1926 (e dunque coevo della storia qui raccontata) ovvero che:
- “Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.”. Ne consegue, secondo lo scrittore agrigentino, che “l’uomo accetta la maschera che lui stesso ha messo o con cui gli altri tendono ad identificarlo”.
Ma torniamo alla nostra storia e procediamo con ordine.
Si era nel Giugno del 1924, l’Italia – strozzata dalle difficoltà economiche, inasprita dal malcontento diffuso verso un fascismo, che si avviava a divenire apertamente dittatura, spaventata dalle violenze squadriste e dagli arresti degli oppositori, messa a tacere dalle limitazioni alla libertà di stampa – sta per aggiungere (ad una Lista già lunga) un altro martire per la libertà. Il deputato socialista Giacomo Matteotti che, rapito il 10 dello stesso mese, verrà ritrovato senza vita soltanto il 16 Agosto, nella macchia della Quartarella (tra Riano e Scrofano – ora Sacrofano) ucciso dai sicari di regime, gli sgherri della cosiddetta “Ceka” mussoliniana. (*)
In quell’estate di quasi cento anni fa, nel Porto di Trieste, sbarca un cittadino straniero di nome Edgar Laplante, nato a Rhode Island (Canada) nel 1888, da padre canadese e madre nativa americana. Laplante proveniva un altro Paese europeo dove aveva partecipato, come attore, al film “La Caravane Vers l’Ouest,” con lo pseudonimo di Chief Withe Elk, Capo Cervo Bianco.
Ma a questo punto dobbiamo interrompere la storia e fare ancora un salto nel tempo. Se a Torino, si va in via Pietro Giuria 1, ci si trova all’ingresso del Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” (**) fondato dal famoso (e assai discusso) Scienziato veronese (1835-1909) creatore dell’Antropologia Criminale. Lungo la galleria del Museo, dietro i vetri di una grande bacheca, i visitatori possono ammirare, un po’ disorientati, un suntuoso costume da Capo Indiano: diadema di piume, tunica bianca ricamata e ornata di frange. Il sotto tunica color arancione, polsini lucenti di bardature dorate. Il costume indossato da Capo Cervo Bianco, il protagonista di questa storia, porta sul colletto l’etichetta delle gloriose Galleries Lafayette di Parigi.
Si tratta niente altro che di un costume di scena, ma la storia in cui questo costume è stato impiegato non è di fantasia, bensì è una storia veramente accaduta, come ho scritto sopra, nell’Italia fascista dei primi anni del regime mussoliniano. Parrebbe trattarsi di una storia di poco conto, ma per il suo svilupparsi e i risvolti mostrati, qualche interrogativo però – a chi ne viene a conoscenza per la prima volta – lo pone, come lo ha posto a chi, Storico o scrittore, l’ha studiata più a fondo. E gli interrogativi si presentano già all’inizio della storia. Ad esempio, perché il Capo indiano è arrivato in Italia? E perché indossava un indumento firmato, proveniente dai negozi della moda parigina? E gli interrogativi crescerebbero ulteriormente, se il visitatore potesse accedere agli archivi museali. Dentro corposi faldoni sono, infatti, conservate migliaia di richieste di aiuto economico, tutte indirizzate al Capo Cervo Bianco. Le pance di altri faldoni svelano centinaia e centinaia di pagine, divise in colonne, con il nome del questuante (Associazione, Ente, Circolo, Parrocchia, semplice ma bisognoso privato …) il suo indirizzo, la cifra stanziata o in corso di stanziamento.
Il primo a raccontare questa storia era stato, nel dopoguerra, Massimo Mila eminente Musicologo ed ex confinato politico antifascista, per la sua attività politica in Giustizia e Libertà. A lui l’aveva raccontata, alle carceri “Nuove” di Torino, proprio Laplante, Cervo Bianco che, il 12 Ottobre del 1926 era stato condannato a cinque anni, sette mesi e quindici giorni di reclusione per truffa continuata. E Mila, molti anni dopo, quella storia incredibile, ma vera, l’aveva raccontata ad Ernesto Ferrero – scrittore, critico letterario e traduttore, per anni Direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino. E Ferrero l’aveva, a sua volta, raccontata in due libri. Il primo, scritto nel 1980 con il titolo di “Cervo Bianco” e pubblicato da Mondadori, il secondo – che è il libro di cui oggi vi consiglio la lettura – con il titolo di “L’Anno dell’Indiano”, pubblicato da Einaudi, nel 2001.
Ma torniamo alla storia di Laplante, che si dichiara Principe Pellerossa con il nome di White Elk, in altri casi sarà Tewanna Ray, capo di una Tribù di trentamila nativi. Ha trentasei anni, è indubbiamente di bell’aspetto, di professione fa il cantante e ballerino, dichiara illustri trascorsi cinematografici con Rodolfo Valentino in Lo sceicco e I quattro cavalieri dell’Apocalisse. A Nizza ha conosciuto, qualche mese prima, la contessa Amalia e la contessina Antonia Kevenhuller, Da loro gli arriva l’invito a trascorrere qualche tempo nella residenza italiana di famiglia e lui accetta. Cervo Bianco si dichiara, inoltre, Delegato alla Società delle Nazioni per il Popolo Pellerossa e, in sovrappiù, un fervente fascista. Ai camerati, italiani, dunque, si può chiedere di fare causa comune, di schierarsi accanto alle genti oppresse delle praterie del West … a patto, s’intende, di organizzare un viaggio «promozionale» attraverso l’Italia.
Uno sforzo economico che le contesse fiorentine accettano di finanziare. Il Principe Pellerossa, per parte sua, si fa garante della restituzione del debito. I beni della sua tribù, oro, petrolio, diamanti, afferma, sono sotto sequestro delle autorità degli Stati Uniti. Dalla Corte d’Inghilterra, lascia intendere, è in corso una trattativa affinché tali beni rientrino in possesso dei legittimi.
Dunque, è così che il Capo Cervo Bianco inizia un tour per l’Italia che lo fa conoscere e, città dopo città, accresce la sua popolarità. Laplante spande e spende (con i soldi delle contesse) partendo da Firenze e fermandosi a Trieste, Venezia, Genova e Cagliari – Di questa sua tappa in Sardegna sappiamo da alcune righe di “Marcia su Roma e Dintorni” di Emilio Lussu che descrive, in mezza pagina, la Cagliari di allora, trepidante per l’arrivo di Cervo Bianco. Dal clima di esaltazione generale avevano tratto vantaggio economico i proprietari delle case con le finestre affacciate sul luogo dell’evento, affittate a caro prezzo –
Nel Dicembre del 1924, infine, Laplante-Cervo Bianco arriva a Torino e qui inizia la sua parabola discendente. Il Principe Pellerossa sta male, ha contratto la sifilide ed è reduce da un litigio furibondo con Giorgio, il rampollo di Casa Kevenhuller. Giorgio, appena tornato dal suo abituale safari in Africa, ha scoperto che il patrimonio familiare è stato azzerato dai prestiti al presunto nativo americano: in sei mesi è svanito un milione di lire. Tanto per avere un termine di paragone: negli anni Venti, un Docente universitario percepiva uno stipendio mensile di 300 lire. Giorgio caccia di casa il protetto di Amalia e Antonia che, a Torino, soggiorna una settimana presso l’Hotel Turin Palace, per poi venire ricoverato in ospedale. Lì un funzionario del Ministero degli Interni gli consegna un foglio di via. Il posto più vicino dove andare è la Svizzera, ma la malattia lo costringe di nuovo in un letto dell’ospedale di Bellinzona. Al capezzale si presenta Antonia. Ha scoperto tutto. Il millantato recupero del patrimonio tribale tramite il Principe di Galles è una bufala e la Corte inglese nulla sa di White Elk.
Parte la denuncia e arriva la condanna del Tribunale svizzero: un anno di galera, con una diagnosi psichiatrica di “personalità mattoide”. Scontata la pena, Edgar Laplante, poiché tale e soltanto tale ormai è Capo Cervo Bianco, viene estradato in Italia. A Torino l’aspetta un secondo processo, in seguito ad un’ulteriore denuncia della contessina Antonia. La pena è pesante, come ho scritto, cinque anni, sette mesi e quindici giorni di reclusione per truffa continuata. Massimo Mila, suo compagno di cella, divide il poco spazio con un uomo che non ha neppure i soldi per comprarsi il tabacco; su iniziativa del Direttore delle Nuove, i carcerati fanno una colletta e acquistano un maglione di lana che aiuti l’ex Capo Indiano a proteggersi dal freddo. Mila ne ascolta i racconti, forse incredulo, certamente colpito da una figura fuori da ogni schema. Laplante al termine della reclusione, torna negli States. Si arrabatta con altri piccoli inganni fino alla morte, per infarto, nel 1944, in una clinica di Phoenix, Arizona, la città che ancora oggi accoglie la sua tomba.
Dunque, una storia avvincente che certo merita di essere conosciuta. La storia di questo artista della truffa, anomalo Robin Hood che rubava ai ricchi e regalava ai poveri senza tenere nulla per se stesso; storia che ancora ci interroga sul come sia stato possibile che l’Italia del duce, così tronfia di certezze, abbia bevuto a lunghi sorsi le teorie strampalate di White Elk, senza nemmeno prendere fiato per un attimo.
EPILOGO
C’è una frase del Filosofo tedesco Theodor Adorno che può illuminarci sul fenomeno. La frase che recita: “E poi il culto delle feste in costume sboccò nel fascismo”. Un regime, quello fascista, in cui i gerarchi alla Starace erano privi di cultura, vanagloriosi e vanesi e si riempivano la bocca di parole vuote. Questo Edgar Laplante – uomo geniale ed intelligente – lo aveva capito fin da subito. Negli altri Stati europei, si presentava, infatti, come cantante, attore e ballerino, solo in Italia invece era Chief Withe Elk, il Principe Pellerossa. Ciò che millantava, però, non oltrepassò mai certi limiti, perché lui sapeva che, prima o poi, sarebbe stato considerato un ciarlatano.
Cervo Bianco, tuttavia, alla fine, almeno uno scalpo lo ha avuto: quello del cranio ottuso di un regime che, nonostante la pena inflitta al falso Principe Pellerossa, uscì da questa storia scuoiato dalla lama del ridicolo.
(*) È storicamente accertato che autori dell’aggressione assassina a Giacomo Matteotti furono, per ordine diretto di Mussolini Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria. La squadra speciale capitanata da Dumini (la cosiddetta “Ceka”) era formata anche da Filippo Panzieri, Aldo Putato e da Otto Thierschwald, di nazionalità austriaca. Come è noto – con il discorso tenuto in Parlamento il 3 Gennaio del 1925, Benito Mussolini si assunse la responsabilità, anche politica, dell’assassinio dell’Onorevole Giacomo Matteotti, assassinio che scosse dalle fondamenta il regime fascista, ma non ne provocò il crollo, con il risultato, per l’Italia, che tutti conosciamo.
(**) Cesare Lombroso, l’inventore della criminologia – “Molte persone conoscono Marco Ezechia Lombroso, controverso medico, antropologo, sociologo, filosofo e giurista italiano che visse tra il 1835 e il 1909 e che viene tutt’ora considerato uno dei padri della moderna criminologia. Lombroso fu fondatore dell’antropologia criminale e uno dei pionieri nello studio della criminalità. Egli basava le sue teorie sull’origine genetica del crimine, e secondo questa visione la natura delittuosa del criminale era insita nelle sue caratteristiche anatomiche, che lo rendeva fisicamente differente dalla persona comune in quanto dotata di anomalie e atavismi che ne determinavano il comportamento socialmente deviante.” – Fonte: Vanilla Magazine, www.vanillamagazine.it –
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”