Deportazioni, sopravvissuti e seconde generazioni
Genitori, e figli, un rapporto difficile“Messico e Nuvole” (ovvero dis-umanità on the border)
“Messico e nuvole / la faccia triste dell’America / il vento insiste con l’armonica / che voglia di piangere ho. //”. “[…]”. “Queste son situazioni di contrabbando / a me non sembra giusto / neanche in Messico / ma perché?” //.”
Così cantava Enzo Jannacci nella sua “Messico e Nuvole” (1998, dall’Album “Quando un musicista ride”). Ma scrivendola, il cantautore milanese sapeva benissimo come non ci fosse proprio niente da ridere. Secondo l’UNICEF, l’Agenzia dell’ONU che si occupa dell’infanzia, infatti, oggi ogni quattro migranti che si spostano dall’America Latina e dai Caraibi verso il Messico per cercare poi di entrare negli Stati Uniti, uno è un neonato.
E anche nel “Paese delle nuvole” (copyright sempre Jannacci) il trattamento che questi migranti ricevono non è conforme né alle Leggi Internazionali, né a quelle locali, che spesso esistono lì solo sulla carta. Dunque, su quel confine (ma anche su altri) “umanità, zero”. Per restare nel campo musicale, un successo tra i tanti di Ivano Fossati, “La Canzone Popolare” (1992, dall’Album “Lettere sotto la Pioggia”) ci ricordava che [la Canzone Popolare]: “Se c’è qualcosa da dire ancora / ce lo dirà / Se c’è qualcosa da imparare ancora ce lo dirà. //.
Molto c’è, certo, ancora da dire e molto di più da imparare, riguardo il problema delle migrazioni, a qualsiasi titolo queste si producano. Quando – mi chiedo – noi cittadini civili e istruiti (nonché democratici) inizieremo ad ascoltare quelle voci? E quando scopriremo il vero significato della parola “umanità”? Parola dal doppio significato che ci individua come componenti della stessa comunità e nel contempo ci indica una regola d’oro di comportamento con l’altro da noi, chiunque esso sia. Dobbiamo, forse, aspettare che si presenti una nuova “Canzone Popolare”?
A proposito di migrazioni: ieri, 77 anni fa, è stato ricordato lo scoppio che, alle 8,10 di mattina dell’8 Agosto 1956, uccise 262 minatori, 137 dei quali italiani, nella Miniera di carbone di Bois Du Cazier (Marcinelle, Belgio). L’Accordo stipulato, dieci anni prima, tra il Governo italiano e quello belga comportava queste clausole: per ogni minatore inviato a lavorare nelle miniere veniva riconosciuta l’importazione all’Italia di due quintali di carbone al mese. Le acciaierie in Italia quindi, producevano acciaio ed automobili per merito di questi lavoratori coraggiosi e disgraziati, reclutati per la maggior parte in Veneto, costretti ad accettare di lavorare in condizione inumane e con l’assenza totale di norme di sicurezza.
Più di diecimila nostri concittadini aderirono a quella richiesta di braccia, una migrazione diversa da quelle odierne, ma sempre un lasciare il proprio Paese, in cerca di una vita migliore. Ma forse è meglio definirlo un baratto: braccia contro sacchi di carbone, lavoro duro, ma lavoro (che in Italia in quel tempo non c’era). Un baratto per battere la fame e il freddo che in quegli anni mordevano, da noi, le carni di chi partiva e di chi restava. Un baratto che ci ha portato via, in un solo colpo, 136 vite di lavoratori e di fratelli.
- “i figli cadevano dal calendario / Yugoslavia Polonia Ungheria / i soldati prendevano tutti / e tutti buttavano via. //. (Fabrizio De Andrè, “Khorakhanè, A forza di essere vento”, dall’Album “Anime Salve”, 1966).
La storia di Nerina Ursini Legovich
Se la storia che appresso leggerete l’avesse conosciuta Fabrizio De Andrè ci avrebbe, certamente, ricavato una delle sue canzoni, una delle sue splendide poesie, uno dei suoi testi da Antologia della Letteratura Italiana da ascoltare e su cui riflettere, a lungo, anche dopo che l’ultima nota e le ultime parole si fossero perse nell’aria. Già, perché la storia di Nerina Ursini Legovich, partigiana triestina e deportata politica che Anna Di Gianantonio e Gianni Peteani raccontano nel Libro che hanno curato, nel 2019, per l’Istituto Regionale per la Storia dell’Età Contemporanea del Friuli Venezia Giulia – “Ich Bin Schwamger (“Sono incinta”) e che oggi vi propongo – è di quelle che avrebbero certamente appassionato il grande Faber. (*)
Ma la storia di Nerina, della figlia Sonia (nata dopo la liberazione della madre dal Lager) e del loro difficile rapporto non l’avremmo certamente mai conosciuta se non ci fosse stata, l’11 Maggio del 1960, in Calle Garibaldi – una strada periferica di Buenos Aires (Argentina) – la cattura, da parte del Mossad, il Servizio Segreto esterno di Israele, di Karl Otto Adolf Eichmann, alias Ricardo Klement, il Colonnello delle SS, Capo della Sezione IV B 4, dell’RSHA, l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, il burocrate nazista incaricato di portare a compimento l’Endlösung der Judenfrage, ovvero la Soluzione Finale del Problema Ebraico.
Ne sono certo, perché fu da quella cattura che tutto ebbe inizio. Infatti, quella cattura ed il successivo Processo ad Eichmann, svolto in Israele, ha fatto accadere qualcosa mai successo prima: i testimoni dell’orrore nazista, i sopravvissuti alla Shoah cominciarono allora a parlare, a raccontare, dopo anni e anni di silenzio. E noi, allora, grazie ai loro racconti, cominciammo a provare a comprendere ciò che era stato. Cominciammo a tentare di capacitarci, seppure a stento, del limite che l’abominio umano può raggiungere e in quel caso superare.
Lo potemmo fare e lo possiamo fare ancora anche grazie al ritorno alla luce di storie come quella di Nerina Ursini Legovich, partigiana triestina e deportata politica. Anche se il motivo principe per il quale storie come questa tornano a farsi largo dagli anfratti più profondi della Memoria è, spesso, quello di cercare di ri-costruire un rapporto intimo familiare – in questo caso quello tra una madre deportata e la propria figlia – su cui ha pesato la deportazione e il faticosissimo ritorno a casa dei sopravvissuti, con il corollario del reinserimento nel mondo degli altri, quelli che non sapevano e spesso non volevano sapere – un rapporto familiare che il silenzio dell’indicibile, dell’irraccontabile aveva, per decenni, falsato rischiando di distruggerlo completamente. (**)
Ma, come direbbe lo scrittore, giallista e sceneggiatore Carlo Lucarelli, “Questa è un’altra storia”. E infatti, quella di Nerina Ursini Legovich, partigiana triestina e deportata politica, è proprio un’altra storia, nel senso che non è solo la storia di una deportazione e di un faticoso viaggio sulla strada di casa. E’ certo la storia di una donna, catturata dai tedeschi perché resistente e partigiana, prima ristretta al Coroneo, il Carcere di Trieste, e poi deportata, prima a Ravensbruck (il Ponte dei Corvi), il Lager femminile aperto a 80 chilometri da Berlino e poi ad Abetrode, Sottocampo di Buchenwald, Lager situato nella Regione tedesca dell’Assia. Ma quella di Nerina è la storia di una donna che ad un certo punto di questa sua via crucis, non voluta, né cercata, si accorge di essere incinta e quella sua condizione, se da un lato rischia di compromettere maggiormente la sua vita e quella del nascituro (poi una femmina) che porta in grembo, data la sua condizione di detenuta-deportata; dall’altro la salverà dagli incontri pericolosi che farà sulla strada del ritorno: “Ich Bin Schwamger (“Sono incinta”) sarà, infatti, per lei una frase salvifica, una sorta di salvacondotto sulla strada di casa.
“Ich Bin Schwamger (“Sono incinta”), una storia nella Storia.
Il libro ricostruisce la storia del complesso rapporto tra Nerina Uršini, antifascista triestina, deportata a Ravensbrück nel gennaio del 1945, incinta di qualche mese, e la figlia Sonia, nata dopo il suo ritorno a casa. La donna aveva scoperto la sua gravidanza nel carcere del Coroneo e grande era stata la preoccupazione di dover affrontare da sola, senza il marito e la famiglia, una situazione per lei assolutamente nuova. Il lager era ormai al collasso e il medico che l’aveva visitata ritenne che le condizioni terribili del campo avrebbero reso impossibile portare a termine la gravidanza. Alla liberazione di Ravensbrück, Nerina affrontò il lungo ritorno a casa. La frase Ich bin schwanger (sono incinta) la difese da ogni tentativo di violenza da parte degli uomini che incontrava sul suo cammino, reso difficile dalle sue condizioni.
Arrivata a Trieste nel giugno del 1945, partorì Sonia nell’agosto di quell’anno. Nel volume si racconta, attraverso la lunga testimonianza della figlia, il rapporto conflittuale tra le due donne, la difficoltà a parlare, perché la madre non poteva raccontare a Sonia, in tempo di pace, le sue paure e l’ambivalenza dei sentimenti che provava nei riguardi della maternità, portata avanti in quella condizione estrema.
Sonia, che vive ora a Città del Messico ed è un’insigne matematica, visse cercando di adattare la sua esistenza al dramma della madre, con cui si era stabilito un patto del silenzio. Il volume affronta il tema del trauma che si trasmette dai sopravvissuti ai loro figli, nella consapevolezza che la guerra non finisce con la cessazione dei combattimenti e i trattati di pace, ma dura subdolamente più a lungo. Segnando la vita dei deportati e delle loro famiglie.
Fonte: http://www.irsrecfvg.eu/editoria/volume/145/1945-ICH-BIN-SCHWANGER-sono-incinta
Ma, al di là della storia che racconta, il Saggio curato da Anna Di Gianantonio e Gianni Peteani ci mette di fronte ad una questione importante su cui riflettere. Una questione ancora diversa da quella che – per via del trascorrere del tempo – ci priva dei sopravvissuti, non solo alla Shoah, ma anche alla deportazione politica e religiosa; dei testimoni necessari alla nostra Memoria di “ciò che è stato”. La questione di ascoltare i figli dei sopravvissuti, di coloro cioè a cui è toccato il destino di nascere da chi aveva vissuto l’esperienza dei Campi di sterminio e ne era tornato / tornata.
La questione, come fosse un prisma, ha facce diverse e dunque ci impone di riflettere su una Memoria di tipo diverso. Un conto è, infatti, ascoltare i racconti di chi è sopravvissuto, di chi aveva vissuto una vita precedente alla deportazione e al ritorno cercava di ri-viverla, anche se con molta fatica. Un conto ancora differente è ascoltare i racconti dei bambini nati nel Lager e sopravvissuti (furono circa 1 milione e cinquecentomila i “bambini dei Lager”) cuccioli dell’uomo che – sopravvissuti – non avevano però, per la gran parte, una vita precedente a cui rifarsi.
Ma un conto ancora diverso è – come nel caso del Libro di cui scrivo qui – ascoltare il racconto di chi è nato fuori del Lager, ma ha dovuto convivere con i silenzi dei propri congiunti sopravvissuti, scoprendo la verità in modo traumatico, come è accaduto alla Sonia di questo libro. Come scrivono, infatti, Dino Renato Nardelli e Roberta Gorietti nell’Introduzione all’incontro con Viviana (Vivi) Solomon, figlia di sopravvissuti alla Shoah, organizzato nel Gennaio 2019, dall’ISUC, l’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea:
- “Per loro il peso della Shoah costituisce ancora oggi un fardello pesante, che ha condizionato la loro vita. Ascoltandoli, si riconoscono disagi ricorrenti. Innanzitutto, i silenzi che connotarono per lungo tempo – per taluni per sempre – i rapporti tra padri e figli; non parlarne significava proteggere e proteggersi. Poi, la durezza dell’educazione ricevuta; sospesi tra il bisogno di oblio e il terrore che quella storia potesse tornare, i testimoni primari spesso con il rigore dei rapporti cercavano di preparare i loro bambini a sopportare un futuro incerto. Ancora, situazioni che alcuni considerano transitate nei loro Dna: l’orrore del chiuso, la paura del buio, perfino il disagio di salire su un treno: «Gli scambi si fanno non sempre attraverso la parola – sostiene uno di loro – ci sono delle cose non dette che si trasmettono di generazione in generazione».”
Per i figli dei sopravvissuti, come Sonia, è stato duro convivere con i silenzi della madre. E’ stato difficile partire da quei silenzi per rompere la corazza protettiva costruita attorno a lei proprio dalla madre. E’ stato difficile ritrovare la serenità e poter raccontare la propria storia di persona partendo da quella della madre sopravvissuta. Le persone come Sonia sono oggi altri testimoni che non sostituiscono quelli che non ci sono più, ma si pongono come continuatori di un impegno che tutti li accomuna.
Dunque, la proposta odierna di lettura vi presenta un libro duro, certo, ma un libro da leggere come da leggere sono l’Introduzione, scritta a quattro mani da Andra e Tatiana Bucci, sopravvissute ad Auschwitz e da decenni testimoni di quella loro esperienza e la Nota di Ambra Laurenzi (e che qui ringrazio per la segnalazione di questo Volume) figlia e nipote di deportate a Ravensbruck, del cui Comitato Internazionale e da anni Presidente e che da altrettanti anni si occupa di riportare alla luce e rendere chiara alla nostra Memoria la storia di quel Lager e delle donne che, loro malgrado, vi passarono e purtroppo rimasero in molte, senza poter raccontare la loro storia.
Un libro, duro, ma che ci aiuta a fare Memoria di quelle vite spezzate e della fatica di capire per quelli che sono venuti dopo, noi compresi. Per noi, conoscere e capire quelle storie è un dovere perché, se la verità viene mantenuta viva, allora avremo imparato qualcosa e quelle voci non avranno parlato al vento.
(*) Anna Di Gianantonio, ricercatrice e attuale vicepresidente dell’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea del Friuli Venezia Giulia, si occupa da anni di storia politica e sociale, analizzando in particolare le condizioni di vita e le mentalità dei ceti popolari, attraverso la raccolta delle storie di vita di uomini e donne.
Gianni Peteani, figlio adottivo di Ondina Peteani, la prima Staffetta partigiana d’Italia, presidente del Comitato «Ondina Peteani», da tempo si occupa della raccolta di testimonianze da parte di ex deportati nei Lager ma anche, come in questo Volume, di realizzare interviste ai loro figli. È impegnato nell’organizzazione di convegni sui Campi d’internamento e di diversi progetti sulla Memoria. Inoltre, ha avviato una collaborazione con il Portale didattico nazionale Atuttascuola (https://www.atuttascuola.it/) dove si possono trovare tutti i contributi, i video, gli audio e gli articoli che Gianni Peteani realizza in ricordo della madre e di chi, come lei, ha dato la vita per ideali così alti.
(**) Se la deportazione fosse stata l’argomento di un buon Romanzo di fantasia, quel Romanzo avrebbe dovuto iniziare dalla fine, cioè dal momento della liberazione dei Campi di sterminio e del faticoso ritorno a casa dei sopravvissuti. Poiché, invece, non si è trattato (e non si tratta) di una faccenda di fantasia, ma di una storia purtroppo tremendamente vera quando viene raccontata, il momento della liberazione e del ritorno a casa dei sopravvissuti è generalmente liquidato in poche righe. Il centro della narrazione è, di fatto, rappresentato dalla “vita” nel Campo: dall’arrivo, ininterrotto, dei convogli dei deportati, al loro ingresso, spesso repentino, nelle camere a gas e poi nei forni crematori, il cosiddetto “passaggio per il camino”.
Un Testo che, invece, ribalta questo punto di vista (l’unico, credo, dopo La Tregua, di Primo Levi, che però appartiene al genere Romanzo) è quello scritto da Elisa Guida – che insegna Storia Contemporanea presso l’Università della Tuscia ed è Socia fondatrice dell’Associazione “Arte in Memoria, che si impegna nell’istallazione delle pietre d’inciampo – con il titolo di La Strada di Casa e pubblicato dalla Casa Editrice Viella, nel 2017. Nella sua seconda parte, il Saggio descrive, infatti, questo aspetto particolare della deportazione, mettendo nella giusta luce tutti i suoi momenti: dalle tragiche “marce della morte”, ultimo tentativo assassino dei nazisti, in parte riuscito, alla fatica del ritorno nel mondo reale e ai silenzi sul proprio vissuto concentrazionario, durati decenni. Silenzi che decisero – come fosse il risultato di un tacito accordo tra i sopravvissuti (che in realtà non ci fu) – molti di loro a tacere a lungo. Questo perché il racconto di “ciò che era stato” era troppo crudo e pesante e non solo non sarebbe stato creduto, ma non voleva nemmeno essere ascoltato da parte degli altri, quelli che quell’esperienza durissima (e mortifera per molti) non avevano vissuto sulla propria pelle.
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”
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