“Per una nuova politica dell’abitare” è il tema proposto dalla Cgil pe favorire un dibattito necessario per un nuovo sviluppo delle aree regionali (edilizia, Parchi .nuovi insediamenti) mercoledì 19 giugno…
Elezioni. Il Partito della Nazione non c’è. C’è il M5S
La destra rimane competitiva e SI non decollaDa qualche tempo, e precisamente da quando Renzi ha conquistato il PD e poi la Presidenza del Consiglio, si parla di “partito della Nazione”. Cioè del tentativo, che è sembrato avere anche un certo incoraggiamento elettorale nelle europee del 2014, di fare del PD un partito che andando oltre i propri confini ideali e culturali potesse fondere in una nuova formazione centrale un consenso trasversale proveniente sia da destra che da sinistra. Si è parlato anche di una nuova DC, con la differenza che mentre essa fu, come la definì De Gasperi, un partito di centro che guardava a sinistra, almeno quella più prossima come il PSDI e il PSI – poi Morò allungò lo sguardo fino al PCI di Berlinguer – la costruzione e anche la scommessa renziana erano diverse: un partito di sinistra che sciogliendo alcuni ormeggi a sinistra tentava di conquistare l’elettorato di centro destra. Almeno quello più prossimo, isolando quello più estremo. Assumendo di quell’elettorato alcune istanze, idee e interessi, per così dire, neoliberisti sul piano soprattutto sociale.
Le vicende politiche e parlamentari hanno portato il disegno – basato sull’assunto che la società odierna era illeggibile con le vecchie lenti di destra e sinistra – agli esiti prevedibili. Invece della conquista e della mescolanza dell’elettorato si è dato luogo a un processo ulteriore ad alto tasso di trasformismo che ha portato a imbarcare nel PD, a geometria variabile nelle varie zone del Paese, alcuni pezzi di vecchio ceto politico moderato e di destra. Gli elettori non hanno seguito, come di solito faceva l’intendenza.
La cosa si era già palesata nelle ultime elezioni regionali, ma non è stata presa nella dovuta considerazione dai leopoldini di Renzi. Tutto era stato sbrigativamente tacitato: “poche chiacchiere contano le Regioni conquistate”. Le elezioni di domenica scorsa, seppur parziali, e in attesa dei ballottaggi del 19 giugno 2016 hanno confermato ancor più l’amara realtà: gli elettori di centrodestra non arrivano, restano più o meno dalle loro parti che, sebbene divise, rimangono competitive, mentre continuano ad andarsene per i fatti loro quelli di sentimenti e orientamenti di sinistra. Sullo sfondo preoccupante e permanente dell’astensione, un po’ più attutita dall’alluvione di liste civiche, lo zapping elettorale degli italiani di cui parla, e non a torto, Renzi, alla fine non si è fermato sul PD. Si è fermato sul M5s che, invece, appare sempre più, per certi versi, nel senso della trasversalità sociopolitica, come un vero partito della Nazione. Sia sul piano culturale – il cittadino, astratto da ogni contesto sociale, come fondamento della propria ideologia – e sia, ancor più, dal punto di vista della composizione del proprio elettorato che effettivamente proviene dalla sinistra e anche dalla destra, con un tasso di apporto giovanile molto più alto degli altri schieramenti e partiti. Anche sotto il profilo interclassista e popolare il M5s appare essere una forza espansiva tra le macerie dei vecchi blocchi sociali, tendente a occupare nelle periferie delle grandi città le zone popolari ex rosse, già segnate da forti presenze di destra negli anni passati. Infine, nel sistema tripolare che si è delineato in Italia, il M5s gode del privilegio di poter avere nelle urne un certo potere di coalizione: se giunge ai ballottaggi, il consenso degli elettori del polo rimasto fuori gara, di destra o di sinistra, può riversarsi sui pentastellati in odio ai tradizionali rivali. Insomma, come dice il detto popolare, fra due litiganti è il terzo a godere. Anche per questo l’Italicum pensato su misura per il Partito della Nazione renziano potrebbe trasformarsi in un boomerang, rimanendo comunque una vergogna.
Dopo due anni e mezzo dalla resistibile ascesa di Renzi, che l’empito della “rottamazione” – intesa come rinnovamento radicale del ceto politico e non solo di quello -, favorì non poco, i cittadini hanno visto il segretario del PD e capo del governo via via impantanarsi nel piccolo compromesso quotidiano, nel piccolo cabotaggio trasformistico, nel doppiopesismo morale. Insomma la “rottamazione” è apparsa sempre più non come una dismissione di comportamenti castali ma come una mera sostituzione di personale politico rimpiazzato dal famigerato “giglio magico” e dal cerchio ristretto di amici e conniventi sistemati nei posti di potere del sottogoverno nazionale. Il racconto, oggi lo chiamano storytelling, sul “stiamo cambiando l’Italia”, “siamo fuori dalla crisi”, “l’economia è ripartita” ecc. comunicato a Tv e giornali unificati non ha convinto. Anzi, nei ceti più poveri o che si sono impoveriti o che sentono come incombente la minaccia di impoverirsi, questo strombazzamento ha ottenuto l’effetto contrario oscurando anche le cose buone, non molte in verità, fatte dal governo.
Tutto ciò ha messo benzina nel motore grillino, facendo apparire il M5s, agli elettori ancora vogliosi di votare, come il vero e storico “rottamatore” in alcune grandi città di ceti politici consumati, come a Torino e in parte a Bologna, o infiltrati da fenomeni corruttivi di non poco conto, come a Roma.
La tendenza alla crescita del M5s è, ovviamente, a macchia di leopardo sul piano amministrativo. Più accentuata dove i vecchi schieramenti politici e di governo hanno mostrato il loro plateale fallimento e più contenuta là dove questi schieramenti mostrano meno consunzione e ancora una certa resistenza anche d’insediamento sociale e culturale.
Una cosa però è certa e viene riconfermata anche da questo voto: i cittadini e gli elettori che per i motivi più diversi vogliono un cambiamento radicale di establishment votano il M5s. Per un periodo che non sarà breve, il partito pentastellato – perché un partito sono, anche se i “grillini” dicono di essere solo un movimento – sarà nell’agone politico il vero veicolo di cambiamento alternativo a tutti gli altri, percepiti da una parte consistente dell’elettorato come un unicum, per di più moralmente malato, anche se variegato e segnato internamente da contraddizioni di potere invece che da significative alterità nelle politiche che vengono proposte e seguite.
Contro questo dato roccioso ha cozzato non riuscendo, almeno finora, l’operazione di “sinistra alternativa” al PD di SI. Fassina a Roma, Airaudo a Torino e Basilio Rizzo a Milano sono al di sotto delle aspettative. Non sono riusciti a intercettare in modo consistente o appena sufficiente la voglia di cambiamento, né l’elettorato che si è distaccato dal PD renziano. Né sono riusciti a riportare al voto almeno una parte della gente di sinistra sfiduciata e disaffezionata parcheggiata nell’astensione che, ormai, se decide di uscire dal parking è per andare a mettere nell’urna la scheda pentastellata. E questo, dati i tempi ristretti dell’operazione politica ed elettorale, era forse nelle cose. Ma il come si è arrivati a ciò lo è di meno. I magnifici tre – Fassina è andato un po’ meglio degli altri due – sono apparsi all’elettorato più come i dissidenti del PD, e a Milano anche di Pisapia officiante del funerale della sinistra meneghina, che non una forza alternativa su cui poter puntare con qualche speranza di efficacia. Nell’elettorato di sinistra, arrabbiato e indignato, il “voto utile”, incautamente invocato a sinistra da Giachetti, ha funzionato. Ma non sul PD, bensì sulla candidata, Virginia Raggi, e il partito del M5s. Inoltre le vicende interne, i dissidi di strategia e prospettiva emersi a Roma dentro Sel, hanno dato la percezione di un agglomerato politico dove a dominare erano le solite faide innescate da calcoli personali di collocazione e non la visione strategica di una ricostruzione sociale e politica della sinistra. E questo malgrado gli sforzi operati in questa direzione dal candidato Fassina che è rimasto zavorrato un bel po’ da queste contraddizioni. La vicenda degli errori nella presentazione delle liste ha reso evidente questo panorama non esaltante. Più in generale, poi, ha pesato il processo, promesso ma mai decollato, di fondazione del nuovo partito, condizionato, per non dire ostruito, da piccoli ceti politici incapaci di sciogliersi, di mescolarsi e, soprattutto, di aprirsi al protagonismo di forze nuove e giovani dell’associazionismo progressista e di sinistra presente nella società civile. A Bologna, invece, la sinistra alternativa ha dimostrato un’apertura diversa, organizzando una lista civica con chiari connotati di sinistra ha ottenuto un risultato nettamente migliore: il 7%. Sinistra Italiana ha di che riflettere sulle sue impostazioni politiche e di organizzazione per modificarle alla svelta. Per SI ripartire dalla forza che si è radunata, è obbligatorio, ma le zavorre dell’opportunismo vanno mollate e le sirene del potere fine a se stesso vanno tacitate.
La ricostruzione di una rappresentanza sociale e politica della sinistra in Italia non può nascere nel cerchio di piccoli ceti politici residuali, segnati dal minoritarismo e dalla sconfitta, ma dalla costruzione di una forma partito del tutto nuova e partecipata dal basso da un movimento popolare, con fondamenta solide dal punto di vista sociale, ideale e culturale. Altrimenti SI non avrà alcuna prospettiva e funzione da svolgere, manco quella di nobile testimonianza del tempo che fu.