Essere dalla parte giusta o da quella sbagliata della Storia
8 Settembre 1943, la sottile linea rossa“Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta.” “[—]”.
(8 Settembre 1943, ore 19,45, il Maresciallo D’Italia, Pietro Badoglio, nominato da re Primo Ministro e Segretario di Stato, in sostituzione di Benito Mussolini, arrestato il 25 Luglio, legge alla radio il messaggio che rende nota la firma dell’”Armistizio corto”, siglato con gli alleati a Cassibile, Siracusa, dal Generale Giuseppe Castellano il 3 Settembre precedente).
“Signor Colonnello, Tenente Innocenzi, accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani.” (Alberto Sordi, nel Film di Luigi Comencini, “Tutti a Casa”, 1960)
Quella sera di ormai 80 anni fa, quel Mercoledì 8 Settembre 1943, alla radio, stava andando in onda un programma di musica leggera. Dagli Studi EIAR (Ente Italiano Audizioni Radio) di Via Asiago, in Roma, l’attrice Alida Valli cantava “Ma l’amore no”, il brano del 1942, scritto da Giovanni D’Anzi e Michele Galdieri, e reso celebre dal film “Stasera niente di Nuovo” diretto, in quello stesso 1942, dal regista Mario Camerini.
Improvvisamente, la musica s’interrompe e Giovanni Battista Arata, speaker ufficiale dell’EIAR, annuncia: “Attenzione, Attenzione, interrompiamo la trasmissione per trasmettere un Comunicato urgente del Maresciallo D’Italia, Pietro Badoglio.” e subito parte la voce di Badoglio, registrata su nastro una mezz’ora prima:
- “il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare la impari lotta …”
- “Da parecchi giorni le voci dell’armistizio erano insistenti. Si diceva che in Calabria le nostre truppe non combattevano più, erano state ritirate dalla prima linea ove ormai non c’erano che i tedeschi. Ma continuavano i ciechi bombardamenti dall’alto; la mattina dell’8 settembre centinaia di apparecchi sorvolarono Frascati e i Castelli romani facendo paurosa rovina. […] Alle 19,45 di quel mercoledì 8 settembre il capo del governo maresciallo Badoglio annunciava alla radio con quella sua voce ruvida, di soldatone piemontese, che c’era l’armistizio fra le forze alleate angloamericane e le forze italiane. La gente fece capannelli nelle strade che già si abbuiavano, i passanti s’interrogavano l’un l’altro. “Cosa ha detto?” “E’ vero che ha detto che siamo in guerra contro i tedeschi?”
- Presso Aragno un signore con barba e occhiali spiegava con precisione: “No, ha detto solo che le truppe italiane reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. “O, fa lo stesso – disse un uomo maturo – Vado a casa e metto in ordine il fucile”. […] La mattina del 9 settembre Roma si trovò avvolta dalla battaglia.” Così il giornalista e scrittore, Paolo Monelli, descrive quei momenti nel suo “Roma 1943”, Einaudi, 1997.
Una data spartiacque
Oggi ricorre l’80° Anniversario della firma, l’8 Settembre del 1943, dell’Armistizio cosiddetto “corto”. Si tratta di una data definita spesso come “spartiacque”.
Quel giorno e quelli di poco successivi saranno, infatti, per molti italiani il momento della verità, il momento in cui dovranno scegliere la parte della Storia dalla quale schierarsi. Sicuramente quella dell’8 Settembre ‘43 è anche (e ancora oggi) una data divisiva, perché una parte del Paese, quella di destra e fascista, la considerò allora (e la considera tutt’ora) il “giorno del tradimento”, il giorno della “morte della Patria”, mentre per molti italiani fu, invece, il giorno del riscatto etico, civile e politico, il giorno in cui molti capirono cos’era stato il fascismo, il giorno in cui smisero di tacere e stare a guardare e presero parte, diventando partigiani della libertà e conquistando all’Italia, dopo 20 mesi di lotta e di sangue, la democrazia.
Oggi ci sarà certamente qualcuno, tra i componenti dell’attuale governo, che tenterà di svilire il valore storico e politico di quella data, revisionando i fatti. Dunque, è necessario ricostruire “la verità effettuale delle cose”, come direbbe il fiorentino Niccolò Machiavelli, non solo per prepararci al negazionismo revisionista che certamente batterà un colpo, ma anche per rispondere adeguatamente a quel colpo. Eccola, dunque, la verità dei fatti.
L’Armistizio cosiddetto corto, contenente cioè solo le clausole principali di quell’Accordo armistiziale (quello lungo sarà firmato il 29 Settembre del 1943, nelle acque antistanti l’isola di Malta. Venne firmato alle 11:30 a bordo della corazzata britannica HMS Nelson dal Generale Dwight D. Eisenhower per gli Alleati e dal Maresciallo Badoglio per il Regno d’Italia e constava di 44 Articoli. Il suo nome ufficiale in italiano è “Condizioni aggiuntive di armistizio con l’Italia”) verrà firmato il 3 Settembre del ’43, si disse (e si dice ancora) a Cassibile (SR) mentre, in realtà, venne firmato effettivamente in una località, Contrada San Michele vicina a Cassibile, dove gli alleati avevano una base militare,
Una delle clausole contenute in quel Documento stabiliva che l’Armistizio sarebbe entrato in vigore il giorno stesso della sua comunicazione pubblica. E qui la Storia ci mette di fronte al primo fatto, diciamo così particolare di quel momento torico. Nei Palazzi romani del Re savoiardo, Vittorio Emanuele III, si cercò, infatti, in tutti i modi di prendere tempo, ovvero di procrastinare l’annuncio dell’avvenuto Armistizio e dunque allontanare la sua entrata in vigore, sperando in un attivo degli alleati, intanto però riconfermando, più volte, all’alleato germanico la fedeltà dell’Italia all’alleanza (“la guerra continua”, aveva annunciato per radio il 25 Luglio, Badoglio).
In realtà, Emilio Lussu, nel suo “La Difesa Di Roma” (Volume pubblicato postumo, nel 1987, dalla EdeS, la Editrice Democratica Sarda) ci segnala che in quei Palazzi era circolata anche l’idea di denunciare quell’Accordo armistiziale (ovvero di farne carta straccia). Così – tergiversando gli italiani – il Generale Eisenhower decise di forzare la mano al re e a Badoglio, comunicando per primo, alle 16,30 dell’8 Settembre 1943 da Radio Algeri, l’avvenuta firma dell’Armistizio con l’Italia, sicché al Maresciallo Badoglio non restò che confermare le parole di Eisenhower, quel giorno stesso, con il messaggio radiotrasmesso da via Asiago, tre ore e un quarto dopo quello di Radio Algeri. (*)
Se il re e Badoglio non erano riusciti ad ingannare gli americani non gli riuscì di farlo nemmeno con i tedeschi che, da tempo, temevano l’ennesimo tradimento degli italiani e si erano preparati. Praticamente da subito scattò il “Piano Alarich” che i tedeschi avevano pronto da sempre, memori dei due tradimenti che, a loro parere, l’Italia aveva perpetrato nei loro confronti. La prima volta, nel 1915, entrando in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa (e dunque rompendo l’alleanza che la legava all’Austria-Ungheria e alla Germani del Kaiser) la seconda volta, non entrando subito in guerra a fianco della Germania hitlriana, che aveva invaso la Polonia, il 1° Settembre del 1939.
E così le truppe tedesche invasero il nostro Paese e cominciarono i rastrellamenti dei nostri soldati che – grazie alla codardia della corte sabauda (in fuga verso il sud dell’Italia, già dall’alba del 9 Settembre del ’43) e di molti generali felloni che a quel corteo di fuggiaschi vigliacchi si accodarono – rimasero senza ordini e si sbandarono. E così – verosimilmente – da qualche parte della Penisola, un qualche “Tenente Innocenzi” scoprì sulla propria pelle e su quella dei suoi soldati, ignaro e ignari dei fatti veri, che “i tedeschi si erano alleati con gli americani”.
Il re savoiardo e i pranzi: ma allora è un vizio
Si racconta che il re Vittorio Emanuele III di Savoia controfirmò il primo Regio Decreto-Legge sulle Leggi razziste e antisemite del 1938 – il numero 1728, recante: “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” – nel Novembre di quello stesso anno, mentre si trovava nella Tenuta reale di San Rossore (Pisa). Lo controfirmò dopo un lauto pranzo e senza avere minimamente battuto ciglio o fatto osservazione alcuna per il contenuto di quel Regio Decreto-Legge, che avrebbe macchiato per sempre – e irrimediabilmente – il blasone di Casa Savoia, insieme alla dichiarazione di guerra del Giugno 1940.
Ancora si racconta che – dopo l’ignominiosa fuga da Roma, all’alba del 9 Settembre ’43 (la terza macchia indelebile sul blasone di cui sopra) – sempre il re Vittorio Emanuele III nella sosta di Pescara, sulla strada verso Brindisi, si sia fermato a pranzo, con la corte dei fuggitivi, nel Castello di Crecchio. Il pranzo era consistito in ben nove portate (con il menù scritto rigorosamente in francese) e il re – mentre nel Nord e nel Sud d’Italia la gente moriva letteralmente di fame e la borsa nera impazzava – ne fu talmente soddisfatto da decidere di fare personalmente i complimenti allo chef di cui le cronache, non solo storiche, ricordano il nome ed il cognome: Aquilino Beneduce.
Dice un vecchio adagio popolare – a piena ragione – che “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, parole sante. Per farsi un’idea precisa della codardia savoiarda leggere: “Tagliare la Corda, 8 Settembre 1943, storia di una fuga”, di Marco Patricelli, Solferino Editore, 2023.
Nota: lo scrittore Maurizio Maggiani, spezino di Castelnuovo Magra, racconta – in un lungo articolo pubblicato sul Quotidiano La Stampa di Torino, del 7 Settembre scorso – di quando la madre Adorna, fin da ragazzino, gli diceva: “Né ‘gnò te sen sbandà come l’otto settembre”, avendo in testa il “casino” incredibile che aveva vissuto quel giorno del 1943. Il padre Dinetto invece – da giovane fascista andato volontario a combattere in Africa; fatto prigioniero ad El Alamein; ricoverato, quasi morto, al Celio, l’Ospedale Militare di Roma; fuggito di lì quell’8 Settembre di 80 anni fa; catturato dai tedeschi sulla strada per Firenze e internato come IMI – il casino di quel giorno lo aveva vissuto davvero e non era finita lì. Nossignore perché da internato militare, tra il no della morte sicura e il si della collaborazione, avendo scelto questo secondo, era finito arruolato tra i fascisti. Arrivato in Italia, aveva disertato diventando per i fascisti un traditore condannato a morte (con il suo nome segnato tra quelli da ammazzare, se catturati, messo sui manifesti affissi in giro nei paesi) era andato, partigiano, a combattere sull’Appennino, nei pressi di Carrara, con quelli del libertario Battaglione “Gino Lucetti” (Brigata partigiana anarchica che agì in Toscana, nei pressi di Carrara. Il nome le fu dato in onore di Gino Lucetti, l’anarchico di Avenza (Massa e Carrara) che l’11 Settembre del 1926, aveva attentato alla vita di Benito Mussolini) imparando, in Banda, a pensare da libero cittadino e a rischiare la vita per costruire un’Italia e un mondo diversi e migliori.
Per la madre Adorna – conclude Maggiani – la data dell’8 Settembre 43 rappresentava una catastrofe senza fine e senza ritorno, per il padre Dinetto, il fascista diventato partigiano, invece, quella data segnava la fine del vecchio, vissuto fino a li e l’inizio di una nuova vita, da cittadino, in dignità e libertà.
Le quattro giornate di Napoli
Ma successe di peggio. Come racconta il regista Nanni Loy, nel suo Le Quattro Giornate di Napoli (1962) ci fu, tra i tanti casi citabili e accaduti, – sulla scalinata antistante l’Università partenopea Federico II – la fucilazione (davanti ad una folla, plaudente a forza perché disperata e piangente) di un marinaio italiano, colto dai tedeschi mentre se ne tornava a casa dato che, come avevano titolato a tutta pagina i giornali del 9 Settembre, “LA GUERRA E’ FINITA”.
Nota: l’episodio raccontato da Loy non è frutto della fantasia degli sceneggiatori del film, ma è un fatto vero. Andrea Mansi (Ravello, 1919 – Napoli, 12 Settembre 1943) così si chiamava quel militare, era un marinaio della Regia Marina, fucilato per essere stato accusato, ingiustamente, di aver ucciso un soldato tedesco durante un rastrellamento delle truppe naziste.
In realtà quella fucilazione – come molti altri episodi simili in quelle Quattro Giornate – avrebbe dovuto servire da monito (e punizione) alla popolazione napoletana che, dal 27 al 30 Settembre del ’43, era insorta, in armi, per liberarsi dall’occupazione tedesca, riuscendovi dopo scontri violenti e sanguinosi ed essendo la prima città europea sotto il controllo tedesco a liberarsi da sola. Alla fine dei combattimenti, ai tedeschi fu concesso di ritirarsi, senza che fossero ostacolati dal fuoco dei Partigiani e delle Partigiane (molto note le figure dello scugnizzo Gennaro Capuozzo e di Margherita Cerasuolo, partigiana combattente e poi collaboratrice dei Servizi Segreti inglesi). E così fu ma i tedeschi, appena usciti dalla città, piazzarono le artiglierie sulla collina di Capodimonte e iniziarono a cannoneggiare la città, mietendo numerose vittime. Per quelle Quattro Giornate la città di Napoli ha ricevuto la Medaglia D’Oro al Valor Militare.
Quei rastrellamenti fruttarono ai tedeschi circa 800mila prigionieri che non saranno dagli occupanti nazisti considerati prigionieri di guerra, ma prima IMI (Internati Militari Italiani) e poi – con l’acquiescenza di Mussolini, capo della Repubblica Sociale di Salò, Stato fantoccio fascista voluto e controllato dai tedeschi, “liberi lavoratori” (leggi internati schiavi) venendo così sottratti a quanto stabilito per i prigionieri di guerra dalla Terza Convenzione di Ginevra del 1929, che anche la Germania aveva sottoscritto.
L’Altra Resistenza, gli IMI, Alessandro Natta e un suo libro
Per molto tempo la resistenza passiva che i nostri IMI, in una schiacciante maggioranza, opposero alle profferte nazifasciste di combattere al loro fianco con un secco “NO!” pronunciato più volte, non sarà considerata vera Resistenza. Dovranno passare molti anni prima che avvenga un giusto e doveroso mutamento di prospettiva, con il riconoscimento del valore di quel “NO!” (50mila furono gli IMI che non tornarono dai Campi di prigionia e di stermino, in cui i tedeschi li avevano rinchiusi).
Alessandro Natta, in seguito divenuto Segretario generale del PCI e che era stato da militare un IMI – catturato a Rodi, mentre combatteva contro i tedeschi e internato in diversi Campi di prigionia – aveva scritto nel suo libro “L’Altra Resistenza”, dedicato ai militari italiani internati dai tedeschi: “Bisogna ricordare perché con l’altra resistenza avevamo voluto lottare per i medesimi valori per i quali combattevano, nelle città e sui monti, i partigiani e i patrioti italiani. Perché tra i reticolati eravamo diventati uomini liberi.”
Il Libro, scritto nel 1947, dovette attendere molti anni – fino al 1997, ovvero fino alla fine della carriera politica di Natta – prima di essere pubblicato. Il che la dice lunga su come è stata vista e considerata, per lungo tempo, quella forma di resistenza al nazifascismo che tanti sacrifici e vite era costata.
Fin subito dopo l’annuncio dell’Armistizio, a Roma, iniziarono gli scontri tra i tedeschi che cercavano di occupare la città e soldati e cittadini (per la prima volta insieme) che li contrastavano. Dopo due-tre giorni di aspri combattimenti i tedeschi si presero Roma. Ma in città, praticamente da subito, iniziò per loro il calvario della guerriglia cittadina, portata avanti dai GAP comunisti e da tutte le altre Formazioni partigiane che si andavano via via costituendo.
Via Stamira, una tranquilla strada carica di Storia
Oggi Via Stamira è una tranquilla strada romana del Quartiere Nomentano-Italia (II Municipio di Roma Capitale). Se la si raggiunge da Viale delle Provincie, si incontra prima la Chiesa di Sant’Ippolito, poi il Cinema “Delle Provincie” (da ragazzini, per noi, “Il Pidocchietto”). Su quel Viale, c’era il rifugio clandestino di Bruno Rodella, Partigiano combattente di Giustizia e Libertà, per la Memoria del quale abbiamo – come Sezione ANPI – posto nel 2022 una pietra d’Inciampo in Via del Lago Terrione 12 (Municipio XIII di Roma Capitale) dove Rodella abitava con la madre.
Se si prosegue il cammino in direzione di Piazza Bologna, sulla destra si incrocia appunto Via Stamira. E lì che, il 30 Maggio del 1944, viene assassinata da due sgherri della Banda fascista di Pietro Koch, il Partigiano socialista Eugenio Colorni, combattente antifascista a Porta San Paolo, Capo redattore dell’Avanti, il giornale clandestino del Partito Socialista (Colorni era appena stato liberato dal confino fascista di Ventotene che aveva patito insieme ad Altiero Spinelli) e responsabile militare della Formazioni Partigiane Socialiste Matteotti. Nel 1946 gli fu conferita la Medaglia D’Oro al Valor Militare alla Memoria e da molti anni una lapide, collocata in Via Livorno 20 (strada limitrofa a Via Stamira), ne ricorda il sacrificio.
Intanto, nel cuneese, sotto la spinta dell’Avvocato Duccio Galimberti, il 12 Settembre ’43, prese vita – prima al Paralup e poi alla Madonna del Colletto – il primo nucleo partigiano costituito organicamente in Banda. Quel primo nucleo di resistenti dette poi vita alla Banda partigiana “Italia Libera” di Giustizia e Libertà.
“Lo avrai, camerata Kesselring….”
Duccio Galiberti sarà ucciso dai tedeschi, il 3 Dicembre 1944, a Centallo (Cuneo). In sua Memoria, nel 1952, Piero Calamandrei, antifascista e Padre Costituente, scriverà – anche in risposta alle parole di Albert Kesselring, Feldmaresciallo e comandante in Capo delle truppe tedesche in Italia, che aveva dichiarato che, per quello che aveva fatto in Italia, gli italiani avrebbero dovuto erigergli un monumento – la sua “Epigrafe ad ignominia” che sarà incisa su di una lapide collocata, il 4 Dicembre del 1952, all’interno del Palazzo Comunale di Cuneo.
Qui il testo completo dell’Epigrafe: https://www.ilpost.it/2016/04/25/epigrafe-calamandrei-kesselring/
Da lì avranno inizio 20 mesi di lotta e di sangue durante i quali i partigiani e i resistenti di tutti i colori politici – come racconta Alberto Cavaglion nel suo “La Resistenza spiegata a mia figlia” (Feltrinelli, 2015) – riuscirono a sconfiggere, al costo di enormi sacrifici e di un gran numero di vite – l’allora più forte esercito del mondo, quello tedesco, anche se i tedeschi potevano contare anche sulla soldataglia collaborazionista della RSI di Mussolini, Pavolini e Graziani che consegnò ai tedeschi i prigionieri da fucilare e gli ebrei da deportare e si offrì come guida nelle stragi di civili più efferate, compiute dai nazisti sul nostro territorio, come quelle si Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto o collaborando alacremente alla composizione del gruppo di antifascisti e partigiani da fucilare nella strage romana delle Ardeatine, del Marzo 1944.
Quei venti mesi di lotta costeranno al nostro Paese migliaia di morti e feriti. Ma – come scriverà Salvatore Quasimodo nella sua “Alle Fronde dei Salici”: “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?”. E Italo Calvino, Partigiano con il nome di battaglia di Santiago, scriverà nel suo “Il Sentiero dei Nidi di Ragno” (Einaudi, 1947): “La rabbia che fa sparare noi con speranza di riscatto è la stessa che fa sparare i fascisti. La differenza è che noi, nella Storia, siamo dalla parte della ragione e loro dalla parte del torto.”.
“Non esistono eroi anonimi “. così scriverà il Partigiano cecoslovacco Julius Fucik, impiccato a Berlino l’8 Settembre del 1943, nel suo “Scritto sotto la forca” testo italiano a cura di Franco Calamandrei (Red Star Press, 2015) lasciando a tutti noi un compito fondamentale:
- “Vi chiedo solo una cosa: se sopravvivete a quest’epoca non dimenticate. Non dimenticate né i buoni né i cattivi. Raccogliete con pazienza le testimonianze di quanti sono caduti per loro e per voi. Un bel giorno oggi sarà passato, e si parlerà di una grande epoca e degli eroi anonimi che hanno creato la storia. Vorrei che tutti sapessero che non esistono eroi anonimi. Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze”. (**)
(*) Pietro Badoglio era un militare e un personaggio politico pesantemente compromesso con il regime fascista e, alla fine della guerra, venne inserito nella lista dei criminali di guerra per la sua condotta africana, anche se mai venne consegnato ai Paesi che ne avevano richiesto l’estradizione per processarlo. O Badoglio, Pietro Badoglio / Ingrassato dal Fascio Littorio / Col tuo degno compagno Vittorio / Ci hai già rotto abbastanza i coglion / Ti ricordi quand’eri fascista/ E facevi il saluto romano / Ed al Duce stringevi la mano / Sei davvero un gran bel porcaccion //. Così canteranno, in quel Settembre ’43, al Paralup, i partigiani della Banda Italia Libera, di Giustizia e Libertà, su parole di Nuto Revelli e di Dante Livio Bianco. https://www.youtube.com/watch?v=KzyWpxIEIG0
(**) Occorre ancora ricordare che la moglie di Fucik, Gosta, anche lei partigiana, venne catturata dai tedeschi a Praga e internata nel KL di Ravensbruck, al quale sopravvisse e, tornata a Praga, raccolse gli scritti del marito. E’ dunque grazie a lei se oggi possiamo ancora conoscere le parole e i pensieri di un combattente partigiano che ha sacrificato la sua vita per la nostra libertà.
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”
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Che Vittorio Emanuele III non abbia battuto ciglio firmando le leggi razziali è assolutamente falso. Si disse contrario e le firmò solamente dopo aver saputo da Arturo Bocchini e da altri a cui chiese un parere che il consenso per il regime fascista era decisamente superiore a quello per la monarchia. Il Re viene ancora usato come pattumiera della coscienza sporca degli Italiani. Che in maggioranza non batterono ciglio per l’introduzione delle leggi razziali. Perché erano in maggioranza favorevoli al fascismo. Purtroppo.