Domenica 16 giugno 2013 si svolgerà la 2° edizione della Maratonina delle Parrocchie, gara podistica competitiva di km 10.00 con partenza alle 9,30 dal Largo San Luca Evangelista (via Roberto…
Il gioco dell’oca
“Non è stato un voto di protesta ma di cambiamento”. Renzi rende omaggio, spiazzando anche molti dei suoi portavoce, al voto per il M5s a Roma, Torino e in altri centri minori del Paese. Come intenda recepire questa voglia di cambiamento espressasi contro di lui, pare già chiaro. Tutto fa pensare che il Segretario del Pd voglia, furbamente, scaricare sul partito, sugli esponenti locali e sui candidati perdenti lo tsunami pentastellato, salvaguardando l’altra parte di sé che guida il governo che è stata, con le sue politiche soprattutto economiche e sociali sguaiatamente gridate, il vero obiettivo critico degli elettori.
Il riconoscimento di Renzi riporta alla mente quanto disse Bersani all’indomani delle elezioni politiche “non vinte né perse” nel 2013. Presentandosi alla direzione del PD, il mancato smacchiatore di giaguari riconobbe che il suo partito non aveva saputo intercettare la volontà di cambiamento coagulatasi sul terzo polo grillino. Che cosa successe in seguito è noto. Il tentativo di Bersani, poco appropriato vista la situazione e la natura dei soggetti in campo, di avere un sostegno gratis e subalterno dai cinquestelle, naufragò in streaming e davanti all’arcigno Napolitano che, dandogli l’incarico di formare il governo, aveva preteso, prima di mandarlo in Parlamento, che gli portasse certificata col sangue una maggioranza sicura, autosufficiente, granitica e a prova di bomba; in particolare al Senato dove non c’era. Che poi era il modo per liquidare il povero Pierluigi impedendogli di andare alle Camere per mettere ognuno di fronte alle proprie responsabilità. Del resto erano note le propensioni del Presidente per le “larghe intese”, con riforma della Costituzione inclusa, non col M5s ma con Berlusconi. Non sfiorò la mente del Presidente che forse era il Parlamento a dover decidere se accogliere o no, e in che modo, il tentativo di Bersani. Poi tutto precipitò, soprattutto il PD bersaniano, nello psicodramma dell’elezione del Presidente della Repubblica.
Ma torniamo al presente. La minoranza dem, sull’onda della pesante sconfitta renziana ai ballottaggi, si prepara in vari modi e a più voci a presentare il conto, a chiedere modifiche sostanziali sia sulla linea politica del partito e del governo e sulla gestione dell’uno e dell’altro. Lo scontro andrà in onda venerdì prossimo alla Direzione nazionale. La cosa che però dovrebbe far riflettere Bersani, Cuperlo, Gotor, Speranza e compagnia è la proposta politica generale attorno alla quale sembrano attestare le correzioni richieste: il ritorno al centrosinistra profumato di ulivo, come dice Bersani. Che poi è quello stesso che già non intercettò la voglia di cambiamento del 2013.
E’ del tutto comprensibile che nella battaglia interna i punti di scontro possano precipitare sulle questioni aperte dalla minoranza. Così come sui “lanciafiamme”, sinonimi di una seconda ondata di rottamazione, che Renzi vorrebbe mettere in campo per rintuzzare e contrattaccare la minoranza dem. Ma tutto questo è comprensibile per chi sta nella logica interna agli schieramenti e alle correnti piddine. Chi ne sta al di fuori, avendo già imbracciato i lanciafiamme nelle urne, anticipando Renzi, non ne è per niente affascinato e manco interessato. La discussione appare arretrata rispetto a come sono andate avanti le cose nel corpo sociale a livello della consapevolezza politica (il primo grado della sovrastruttura ideale direbbe Gramsci), rispetto alla radicalità delle aspettative e al soggetto pentastellato cui si è rivolta. I cambiamenti che s’impongono alla sinistra, non solo al PD, per tornare in sintonia con un popolo che ha voltato le spalle, sono ben più radicali nei contenuti politici e programmatici, nei modi di essere, innanzitutto morali, nel rinnovamento – cosa diversa dalla rottamazione – dei quadri politici e istituzionali e nelle forme di organizzazione; al centro come in periferia. Quali vie potrebbe percorrere questa rivoluzione, è difficile prevederlo e potrebbero essere del tutto inedite. Una cosa però sembra assodata: il ceto politico del PD e anche quello dei cespugli alla sua sinistra sono diventati un diaframma che impedisce alla sinistra medesima non solo di tornare a vincere, ma proprio di tornare a essere.
La proposta di un semplice ritorno all’Ulivo, ovvero allo statu quo ante, potrebbe sembrare, allo stato attuale, un gioco dell’oca con ritorno, dopo la pesante penalizzazione delle urne, alla casella di partenza.