La sofferenza non bussa in casa sua
L’itinerario di un credente alle prese con il ParkinsonHo scritto un articolo sul mio Parkinson e ho suscitato reazioni di condivisione e affetto oltre ogni aspettativa. Facciamo di tutto per mostrarci forti, ma è la nostra debolezza a creare comunità. Qualcuno mi ha fatto domande, qualcuno forse lo avrebbe voluto fare.
Se ho condiviso il mio inferno, è perché sapevo che l’inferno interessa, tutti ne viviamo uno. Il paradiso lo vivono i santi, anche su questa terra, ma per molti rimane più un desiderio che una realtà. Il purgatorio invece non esiste qui; lì soffri per il desiderio di Dio, ma il tuo amore per lui non aumenta e rimani ciò che sei diventato in questa vita. Nella nostra vita quotidiana invece la sofferenza o ti trascina in basso, aumentando la fiamma del tuo inferno personale, o ti stringe ancor di più a Dio, facendoti crescere nell’amore e nella intimità con lui. La sofferenza è una scala, o verso un girone più in basso o verso un cielo più vicino a Dio, qui sulla Terra.
Sono cose che si imparano nelle lunghe ore vuote in una stanza d’ospedale. Allora si alternavano il desiderio di una soluzione umana, immediata, di sollievo dalla malattia, e il desiderio di un intervento divino per una guarigione totale. L’équipe medica del Campus Biomedico era perfetta, la cura andava bene, ma la domanda sul «perché» era devastante, era come avere la coda impigliata in una trappola per topi: per quanto tiri, ottieni solo lacrime e sudore. Non c’è luce, non c’è gioia.
È lì che ho capito cosa ci differenzia dagli animali: loro hanno il dolore, percepito e subito fuggito, se possibile. È di tutti gli esseri viventi, ed è anche nostro. Noi abbiamo un’anima che mette insieme ciò che viviamo con l’angoscia del futuro, il peso della nostra responsabilità verso gli altri e l’angosciosa ricerca di uno scopo, qualcosa che dia un senso a quello che stai vivendo o, almeno, qualcuno a cui dare la colpa. Questa si chiama «sofferenza»: è le tante notti in bianco alle quali vuoi sfuggire chiedendo un sonnifero, è i pensieri trascritti sul cellulare per riesaminarli con calma, è quel messaggino a una persona cara che si chiede perché quel saluto inaspettato; è «se non sopporto ora la gamba che trema, come farò a sopportarlo per sempre?».
La fede non è affatto un oppio che ti nasconde il presente, anzi, te ne fa sentire più acuto il dramma. Lo sai, per la tua fede, che Dio ti ha creato per la gioia, ma vivi il dolore. L’ateo cerca la morte dove noi vediamo l’inferno; si chiude nel proprio guscio, se vuole, dove il cristiano ha bisogno di continuare ad amare, prendendosi cura anche del vicino di stanza; l’ateo non si aspetta una vicinanza divina che il credente quasi esige dal suo Dio. Il credente si sente sbattuto su di un’altalena tra orgoglio e umiltà, che gli fa girare la testa. L’orgoglio ti fa salire, ti inebria, facendoti sentire quasi un eroe, e ti istilla il più grande carburante della storia: l’odio. È per questo che si cercano dei colpevoli: Dio, la cieca natura, le scie chimiche o il proprio segno zodiacale, il complotto ebraico mondiale o il controllo mentale della CIA; qualunque cosa sia, è lì che indirizzerai i tuoi sforzi per poterti alzare la mattina con uno scopo. La rabbia ti preserva dalla depressione. Se qualche vostro caro è in questa fase, non toglietegliela, perché al momento, di questa rabbia, ne ha bisogno per non affondare: fate come se non ci fosse, finché la persona non è pronta a prendere in mano la propria vita, quando trasformerà la rabbia in grinta. Non vi scandalizzate che possa accadere anche a persone di fede, è un’esperienza che gli tornerà utile quando incontrerà la rabbia di chi, lontano dalla fede, non ha altro mezzo per sopravvivere.
L’umiltà è, naturalmente, la via migliore. La imbocchi quando sei in basso, nella realtà più concreta: sei fragile, e solo ora te ne rendi davvero conto; sei solo uno dei tanti, un punto in più nella statistica medica, con nessuno a cui dare la colpa e, se anche ci fosse, sai che l’odio prima o poi ti farebbe cadere a terra per lo sfinimento. Non importa perché sia successo, importa cosa ne fai di questa vita, come potrai viverla con dignità: a queste domande non ci si arriva da soli, ci vuole una fede, qualcuno che ti ci conduca. Ci vuole una comunità: la famiglia, la parrocchia, il partito o il club del burraco. Ci vogliono persone che ti vogliono bene, per accettare la sofferenza.
In ospedale, ricoverato per accertamenti, il mio padre spirituale mi chiamava due volte al giorno; mia madre con alcuni parrocchiani, mio fratello con qualche amico erano presenti, non mi hanno lasciato solo. Tra tutti ricordo con gratitudine un giovane seminarista: Matteo non affrontava con me discorsi di teologia, si limitava a passeggiare per i corridoi recitando con me tanti Rosari. È stata la cura più efficace: guardare verso l’alto insieme a un amico.
Da bravo prete mi sono riletto il libro di Giobbe. È quasi uno sberleffo. Lì Dio permette ogni tipo di sofferenza al suo amico più fedele e, alla fine, quando gli rivolge la parola, non c’è tenerezza, o conforto, o almeno una spiegazione, ma solo esaltazione della propria potenza divina, della propria sapienza incomprensibile. Se non sei abituato a fidarti della parola di Dio, mandi a quel paese Dio, la Bibbia e la fede. È grande la saggezza nascosta: Dio non poteva che fare così. La tenerezza avrebbe tolto a Giobbe la grinta per vivere; il conforto lo avrebbe bloccato nell’autocommiserazione; e nessuna spiegazione sarebbe mai stata sufficiente. Se devi accudire qualcuno, non smorzare la sua grinta, ma aiutalo perché la indirizzi alla preghiera e al combattimento.
Per uscire dalla rabbia, la via di fuga è verso l’alto, verso Dio. Il fatto che l’Onnipotente, a cui ogni cosa è sottomessa, stia ora a parlare con te dice tutto. Dice che le galassie possono anche scontrarsi, ma Dio è di te che si occupa e preoccupa. Ti dice che un giorno non solo lo contemplerai, ma sarai con lui e guarderai un altro Giobbe e fremerai per questa persona, intercederai perché non venga meno nell’amore e sentirai, attraverso il cuore di Dio, la sua solitudine. Quando guardi verso l’alto, verso Dio, ti ritrovi improvvisamente dentro te stesso… perché è lì che c’è Dio. E Dio ama stare con i più fragili.
La sofferenza c’è perché il mondo è imperfetto, perché l’evoluzione presuppone errori genetici, perché siamo soggetti a influssi ambientali, perché siamo cattivi e ci facciamo del male da soli, perché siamo cattivi e ci facciamo male gli uni con gli altri, perché forze demoniache ci assediano… Se conoscessimo la causa della nostra personale sofferenza, saremmo in grado di vivere senza odiare? Dio non vuole che si aggiunga il tormento dell’odio al peso della nostra croce. Forse vogliamo conoscere per avere una speranza di guarigione, ma una speranza vaga è una tortura molto sofisticata e aggiunge al nostro cuore il peso di un’aspettativa spesso delusa.
In fondo il mondo è costituito di squilibri e lo dobbiamo accettare. Chi ci vede ordine, sta guardando un altro film. L’universo segue delle leggi, ma se sentissimo il muoversi delle galassie, il passaggio dei venti stellari, lo scontro dei pianeti, le onde elettromagnetiche intrecciarsi, mentre pacchetti di energia infinitesimali vibrano … quanto chiasso! Tutto sfrega, si scontra, e nelle specie senzienti nulla è esente da dolore o fatica. La sofferenza – se ogni cosa potesse percepirla – non ha bisogno di bussare alla porta di alcun essere vivente, ne è già padrona, è a casa sua.
Se vi state deprimendo, non è il caso. Mentre guardavo dalla finestra della stanza la notte, mi ricordai anche del salmo biblico, dove si dice che ogni cosa grida di gioia. Da quegli squilibri compare la vita, in forme sempre nuove, che interagisce, comunica e si replica in ogni forma. Dalla morte nasce la vita, che attraverso la morte genera altra vita. La gioia di esserci dei bambini ripaga dai dolori del parto e la gioia di una vita sempre nuova dà un senso allo scontrarsi di intere galassie. Il mio esserci e conoscere e gioire dà senso all’intera creazione. L’ho pensato guardando le stelle dalla finestra dell’ospedale: «Sarete belle quanto volete, stelle mie, ma tra me e voi, io solo posso cantare la vostra bellezza. Perché non me lo lasciano fare?». Chi erano coloro che non me lo lasciavano fare non saprei, non avevano volto. Il mio Dio mi ascolta sempre e non c’è bisogno che io canti per lui. Ciò che provo è necessario all’esistenza dell’universo?
Dopo tanti pensieri è come una gioia improvvisa, quando senti che a Dio importa. La gioia poi si sente meno, perché quando la luce si accende le tenebre scompaiono, ma se la luce rimane, gli occhi si abituano e non ci si stupisce più di averla sempre con sé. Si comincia a vedere il tuo percorso e ti accorgi che devi toglierti il peso peggiore ancora: devi perdonare Dio! È l’ultimo stadio prima della serenità, toglierti un peso che ti sei messo addosso da solo.
La sicurezza di un bambino è tutta nella onnipotenza che attribuisce ai suoi genitori. Se si fa male, pensa che il papà e la mamma non lo abbiano protetto abbastanza. Noi facciamo colpa a Dio persino dei nostri peccati, perché non ce ne ha protetti, perché non ci ha risparmiato dolori, angosce e fatiche, anche quando eravamo lontani da lui. È colpa sua se i miei cari sono morti, è colpa sua se c’è il male nel mondo, se non troviamo l’anima gemella… è un peso da togliere perché sulle spalle non ci sia altra croce che quella che Dio ha permesso. Conoscere il vero volto di Dio è l’itinerario di uscita dal nostro inferno, verso una maturità umana e spirituale. Allora la sofferenza non la accetti, la accogli: fa parte della tua vita in pianta stabile, fa di te una persona nuova – o forse rivela ciò che era più nascosto di te.
Chi ti ama ti lascia sbagliare, standoti accanto; non ti risparmia fatiche, pur incoraggiandoti; ti lascia soffrire, ma tifando per te. Non ti vuole eterno bambino, ti vuole adulto nella lotta con un’innocenza infantile: Dio ti vuole suo collaboratore, ma ti lascia nella fragilità della tua natura. È questo il Dio che ho conosciuto.
Quando chiesi a don Pierino, mio padre nello spirito: «Nella Lettera agli Ebrei si dice che Gesù “nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito”. Perché lui venne esaudito e a me invece non dà ascolto?», mi rispose: «Gesù fu esaudito, ma dopo la morte. È dopo la morte che vide la risurrezione. E si dice subito dopo che “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna”. Non vuoi tu fare questo?». Come rifiutarsi? È la nostra debolezza che serve a Dio.
Allora la sofferenza cominci a possederla, la riconosci come tua proprietà. Un sacerdote che è vissuto su di una sedia a rotelle – non trovo l’articolo dove era scritto – diceva che in paradiso non vuole esserne privato, è parte della sua identità, è con essa che ha vissuto e amato. Lo trovo molto bello, capisco in questo modo come mai Gesù sia apparso risorto con i segni dei chiodi della crocifissione.
Ho scritto dei miei primi giorni in ospedale, che forse possono ancora trovare eco nel cuore di molti. Sono pensieri di un credente, ma penso che nell’abisso della nostra anima nessuno sia senza Dio. Da lì cominciai a respirare.
Questa però è un’altra storia, che non so se riuscirò a scrivere.
don Domenico Vitulli
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