La vita (e la paura e la morte) ai tempi del Coronavirus
Epidemia e letteratura: da Sofocle a Tucidide, da Lucrezio a Boccaccio, da Manzoni a Thomas Mann, da Albert Camus a José Saramago“So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non essere più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace, o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dar sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, un po’ di bene. E per questo ho deciso di rifiutare tutto ciò che, da vicino o da lontano, per buone o cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire” (Albert Camus, da La peste, 1947)
“Nelle prime ventiquattr’ore, disse, se era veritiera la notizia che circolava, c’erano stati centinaia di casi, tutti uguali, tutti manifestatisi nella stessa maniera, rapidità istantanea, assenza sconcertante di lesioni, biancore splendente del campo visivo, nessun dolore prima, nessun dolore dopo. Il secondo giorno si parlò di una certa diminuzione nel numero di nuovi casi, si passò dalle centinaia alle decine, il che portò il Governo ad annunciare prontamente che, in base alle più ragionevoli prospettive, la situazione sarebbe stata ben presto sotto controllo” (José Saramago, da Cecità, 1955).
Uno dei pochi effetti positivi che l’epidemia di Corona virus “Covid 19” ha determinato nel nostro Paese pare sia rappresentato dalla crescita, del tutto imprevedibile, della vendita di libri che, pur essendo stati scritti in momenti ed epoche a volte molto lontani tra loro, hanno questo in comune: la descrizione dell’improvviso insorgere di una terribile epidemia che miete una moltitudine di vittime e delle conseguenze, soprattutto morali, che essa provoca nel corpo vivo della società. Questo tema, di un pericoloso morbo che colpisce un’intera comunità ingenerando insicurezza, morte e angoscia collettiva, è stato e continua ad essere, nella cultura dell’Occidente, fonte di ispirazione per una moltitudine di letterati, tra i quali ve ne sono alcuni, di altissimo livello, che hanno dedicato ad esso pagine e immagini memorabili. Leggendo con attenzione i loro scritti ci si accorge che, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo e le differenze nazionali e sociali, i sentimenti, gli atteggiamenti, i comportamenti, nonché i pre-giudizi della maggior parte degli uomini, sono molto simili, se non addirittura identici. Forse non è soltanto la ragione, sia conoscitiva che pratica, ad essere dotata di schemi e categorie universali, ma anche le forze oscure che si celano nel profondo dell’inconscio dell’uomo, forze che la ragione fatica a controllare ed imbrigliare.
Sofocle e l’Edipo re
In una delle sue più note tragedie (Edipo re), l’ateniese Sofocle (V sec. a. Cr.), pur dedicando alla peste che ha colpito la città di Tebe brevissimi e drammatici cenni all’inizio stesso dell’opera, assume il diffondersi del morbo (considerato evidentemente come dura e giusta punizione, da parte degli dei, per una orribile e indicibile trasgressione delle leggi sacre che sono a fondamento della convivenza civile) come occasione per costruire la tragica vicenda dello sventurato Edipo, “inconsapevolmente” colpevole di parricidio e di incesto. Soltanto la presa di coscienza del protagonista e la sua autopunizione (Edipo si strappa gli occhi con le fibbie d’oro di Giocasta, madre e moglie di Edipo), insieme alla scelta di espiare andandosene in volontario e solitario esilio a Colono, pone termine all’epidemia salvando la città. Bastano, comunque, queste poche righe per descrivere adeguatamente e sinteticamente lo smarrimento e l’angoscia che si è abbattuta sulla comunità:
“La città … troppo sbanda in balia delle onde, e non ha forza di sollevare il capo dai profondi gorghi, da questo sanguigno rullio, e si strugge nei calici dei frutti, si strugge nelle mandrie pascolanti dei buoi, nei parti sterili, mentre s’avventa il dio che porta il fuoco, e incalza la città, funesta peste per cui si svuota la sede cadmea, e l’Ade nero accresce il suo tesoro di lamenti e di gemiti … Perisce la patria, né il conto c’è; mortifere stirpi giacciono sulla terra e nessuno le piange, mentre le spose e le madri dai candidi capelli, alla sponda di un’ara gemendo, chi qua chi là, deprecano lugubri pene, e brillano voci concordi di pianto e peani …”.
Tucidide, Lucrezio e la peste di Atene del 430 a. C.
Nella tragedia di Sofocle, scritta probabilmente nel 411 a. C, in piena guerra del Pelopponeso, vi è l’eco e il ricordo della gravissima pestilenza che colpì Atene pochi anni prima, nel 430 a. Cr., della quale il poeta fu testimone oculare e che fu narrata, più ampiamente e con accenti meno poetici ma non meno tragici, dal suo compatriota Tucidide, l’inventore della storiografia, il maestro riconosciuto di tutti gli scrittori di storie venuti dopo di lui. Nel secondo libro della sua La guerra del Pelopponeso, lo storico ateniese (buon conoscitore dei metodi impiegati dai medici per descrivere la sintomatologia di una malattia infettiva) così si esprime:
“Generalmente, di repente, le persone sane … cominciavano a provare dolori eccessivi al capo, rossezza ed infiammazione d’occhi: poi nelle parti interne la faringe e la lingua diveniva ad un tratto sanguigna, il fiato usciva oltremodo fetido: succedeva lo starnuto e la raucedine. A poco a poco il male calava nel petto con acerba tosse: e quando si fissava sulla bocca dello stomaco lo sconvolgeva, producendo, con tormento incredibile, quante secrezioni biliose vengono descritte e denominate dai medici. La maggior parte soffriva anche un vano singhiozzo congiunto a gagliarde convulsioni, che in alcuni tosto, in altri più tardi, cessavano. Il corpo all’esterno non era né troppo caldo a toccarlo né pallido, ma rossastro, livido, e di minute pustole ed ulcere ricoperto … nel crescere del morbo il corpo non illanguidiva, anzi, oltre ogni credere, resisteva al tormento. Tanto che i più, conservando ancora qualche forza, nel nono o nel settimo giorno morivano per l’interno ardore; oppure se oltrepassavano quel termine, scendendo poi il morbo nel ventre, e cagionandovi un’acerba esulcerazione, donde nasceva una dirotta diarrea, questa li traeva spossati a morte …”.
La stessa peste di Atene venne poi descritta, qualche secolo dopo (primo sec. a. Cr.), dal grande poeta Tito Lucrezio Caro, materialista atomista ed epicureo, autore del De Rerum Natura. Nel libro VI della sua opera, il poeta romano, pur seguendo fedelmente la descrizione di Tucidide, vi aggiunge annotazioni che evidenziano gli effetti psicologi che gli eventi patologici e traumatici suscitarono sia nell’animo degli ammalati che in coloro che cercarono, riuscendovi a volte, di sfuggire al contagio e alla morte:
“Quanti scansavano d’assistere i loro cari, ed amavano troppo la vita, e temevano troppo la morte, costoro lasciati lì, senza aiuto, poco di poi li abbatteva e li puniva l’incuria di mala morte e schifosa. Ma via contagio e strapazzi portavan chi li affrontava mosso dal punto d’onore e dalla voce implorante dei moribondi, dai gemiti ch’erano misti alla voce: subivano dunque una morte di tale specie i migliori … e contendeva la gente per seppellire nelle fosse altrui le schiere dei suoi: se ne tornavan disfatti per il cordoglio e il pianto: dalla afflizione gran parte poi s’abbattevano a letto: né si sarebbe potuto trovare alcuno che, allora, non fosse colto o dal male o dalla morte o dal lutto”.
C’era, dunque, chi fuggiva in preda alla paura irrazionale, lasciando senza cure i propri cari, e chi, invece, mosso dalla pietà nei confronti degli ammalati, prestava la propria opera di misericordia senza preoccuparsi di sfidare il contagio e probabilmente la morte.
Boccaccio e la “peste nera” del 1348
Se la peste scoppiata ad Atene nel 1348 ha lasciato traccia di sé nella memoria dell’umanità, grazie alle opere di insigni storici e letterati dell’antichità, anche della “peste nera” del 1348, che ha provocato la morte di circa un terzo della popolazione europea del tempo, ci è rimasta un’importante e, per noi italiani, eccezionale testimonianza nella raccolta di novelle Decameron del fiorentino Giovanni Boccaccio, padre, capostipite e modello di generazioni di prosatori in lingua italiana. L’arrivo della peste a Firenze e il conseguente degrado fisico e morale che ha investito il popolo fiorentino, è il motivo dell’allontanamento dalla città (ormai un cimitero a cielo aperto) di sette ragazze e tre giovani uomini che decidono di rifugiarsi in una villa in campagna e di uccidere piacevolmente il tempo raccontandosi, a turno e nell’arco di dieci giornate, cento novelle. Ciò nonostante, nel proemio della prima giornata, l’autore sente il bisogno di spiegare ai lettori la causa reale di quel ritiro, deciso dai dieci giovani, nella quiete della campagna. La peste che, a detta del Boccaccio, ha determinato la morte, nella sola Firenze, di ben centomila persone, si è presentata con orribili modalità distruttive: il contagio non soltanto si è propagato tra gli umani, ma anche dagli umani agli animali, mietendo migliaia e migliaia di vittime anche tra questi ultimi. Lo scenario che descrive l’autore, così come prima di lui Tucidide e Lucrezio, è qualcosa di veramente raccapricciante: la “mortifera pestilenza” si è manifestata, fin dall’inizio, con la formazione di bubboni nell’inguine e sotto le ascelle prima, e poi in tutte le altre parti del corpo; i bubboni si sono poi trasformati in “macchie nere e livide” determinando, in appena tre giorni, la morte della stragrande maggioranza delle persone contagiate e la fuga precipitosa delle persone ancora sane verso un’affannosa ricerca di sopravvivenza. Più che le descrizioni delle piaghe e delle modalità di contagio, ciò che più impressiona l’autore è il pessimo comportamento di coloro che, pur di salvarsi, non hanno alcuno scrupolo ad abbandonare le persone più care:
“ … E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano …”
La compassione e la pietà verso gli appestati vengono ignorate e dimenticate; i malati sono abbandonati in casa dai loro stessi parenti; i poveri muoiono in strada senza aiuto alcuno; molti abitanti di Firenze fuggono nelle campagne per evitare il contagio; i servi si approfittano dei padroni ammalati per derubarli; e si assiste pure a funerali solitari e a sepolture in fosse comuni, segno estremo della perversione dei tempi.
Manzoni e la peste del 1630
Il capitolo XXXII de I promessi sposi, così come la Storia della colonna infame, testo di storiografia avente il medesimo oggetto trattato nel romanzo, vale a dire la terribile pestilenza che si abbatté su Milano, la Lombardia e tutta l’Italia centrosettentrionale nel bel mezzo della guerra dei Trent’anni, offre ad Alessandro Manzoni l’opportunità di riflettere sull’irrazionalità delle reazioni delle folle di fronte ad una così grave ed inaspettata calamità. Due sono, ad avviso dello scrittore, gli atteggiamenti partoriti dalla paura che s’impadronì dell’intera popolazione milanese (senza alcuna distinzione di classe): innanzitutto la spasmodica ricerca di un responsabile, di un colpevole, o di più colpevoli, ovverossia degli untori; in secondo luogo la speranza, del tutto mal riposta, in un intervento miracoloso che ponesse termine definitivamente al flagello. Un intervento miracoloso che, secondo la comune e diffusa superstizione, avrebbe dovuto concretizzarsi coram populo (alla presenza del popolo), anzi con la partecipazione di tutto il popolo e, ovviamente, attraverso il contatto, o almeno la percezione collettiva, dell’oggetto al quale era attribuito un eminente e indubitabile potere taumaturgico.
Per quanto concerne il primo degli atteggiamenti citati, esso diede luogo alla caccia agli untori:
“S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perchè; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore”.
A testimonianza di questo furore, Manzoni riporta due fatti: il linciaggio di un povero vecchio ottuagenario che, nella chiesa di sant’Antonio, un giorno, durante una funzione religiosa, dopo essersi inginocchiato per pregare, nel rialzarsi per mettersi nuovamente seduto volle spolverare con uno straccio la panca.
“Quel vecchio unge le panche!” gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. “Io lo vidi mentre lo strascinavan così,” dice il Ripamonti: “e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento.”
L’altro caso seguì il giorno dopo e riguardò tre malcapitati turisti francesi, studiosi di antichità, che furono aggrediti solo per essersi attardati ad osservare attentamente la facciata del duomo.
“Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati”.
L’elemento che più suscita l’interesse del lettore (e che il Manzoni mette deliberatamente in evidenza con “quel che era peggio”) è quello costituito dall’essere quei tre giovani stranieri e perciò necessariamente e naturalmente sospettabili.
Relativamente al secondo atteggiamento (la speranza in un improbabile intervento miracoloso), Manzoni si sofferma sulla pressante richiesta, avanzata dagli amministratori della città, i decurioni, al cardinale arcivescovo Federico Borromeo, per una solenne processione che coinvolga tutta la popolazione: un corteo che accompagni per tutti i quartieri cittadini il feretro contenente le spoglie mortali, custodite nel duomo, di San Carlo Borromeo, veneratissimo ex arcivescovo di Milano e della stessa patrono insieme a Sant’Ambrogio. Nonostante i dubbi e le preoccupazioni del cardinal Federico, consapevole del pericolo rappresentato dalla commistione, fianco a fianco, di migliaia di cittadini, sani e malati, al seguito delle sante reliquie, la processione viene infine autorizzata, con le prevedibili e inevitabili conseguenze.
“Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore …, e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di ]culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto. …
La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi”.
La superstizione e i pregiudizi non si fermano neanche di fronte all’evidenza! È il messaggio che ci consegna il nostro grande scrittore, in ciò degno erede dell’illuminismo milanese settecentesco, nel quale un ruolo preminente lo aveva giuocato il nonno materno, Cesare Beccaria.
Thomas MANN, Morte a Venezia, 1912
Mann racconta, nelle pagine finali del suo celebre racconto (reso ancora più popolare e amato dalla splendida versione cinematografica realizzata da Luchino Visconti nel 1971), il percorso seguito dal morbo per giungere a Venezia: apparso per la prima volta nelle calde paludi del delta del Gange (India), si era esteso in Cina e poi all’Afghanistan e alla Persia; da qui, seguendo le vie carovaniere, aveva invaso la Russia. Ma, mentre in Europa si aspettava il suo arrivo dai confini nord-orientali, quindi per via terrestre, esso invece, trasportato sul mare da mercanti siriaci, era sbarcato quasi contemporaneamente nei principali porti del Mediterraneo: Tolone, Malaga, Palermo, Napoli. Il nord della penisola sembrava essere stato risparmiato ma, all’improvviso, il colera si era materializzato nelle calli della città lagunare “nei cadaveri verdastri e scheletriti di un barcaiolo e di un’erbivendola”. Nonostante le autorità avessero tenute segrete quelle due morti, dai giorni successivi i casi si erano moltiplicati in varie parti della città. Poi, a causa della morte di un turista austriaco, cominciarono i giornali a diffondere l’allarme in tutti i Paesi europei, costringendo gli amministratori ad allestire strutture straordinarie e temporanee per raccogliere ed isolare gli ammalati dal resto della popolazione.
“Ma la paura di un danno generale, le grosse perdite che in caso di panico e di discredito minacciavano di colpire l’Esposizione d’Arte recentemente aperta ai Giardini Pubblici, gli alberghi, i negozi, tutta la complessa industria turistica, quella paura fu più forte che l’amore per la verità e il rispetto per le convenzioni internazionali; e persuase l’autorità a perseverare ostinatamente nella sua politica del silenzio e delle smentite”. Gli effetti di questo ipocrita atteggiamento sulla morale e sul costume furono deleteri: “… incoraggiarono gli istinti vergognosi e antisociali, che si manifestarono in intemperanza, impudicizia e criminalità dilaganti. Contro il solito, si vedevano la sera molti ubriachi; di notte, si diceva, malintenzionati rendevano pericolosa la circolazione; rapine e persino omicidi si susseguivano, e già due volte era risultato che persone apparentemente morte di colera eran state invece avvelenate dai famigliari che volevano sbarazzarsi di loro …”.
La peste di Albert Camus (1947)
Dopo appena due anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Albert Camus (Premio Nobel per la letteratura 1957) pubblica La peste, romanzo ambientato nella città natale dello scrittore, Orano in Algeria, in quel tempo ancora colonia francese. In apparenza la vicenda narrata è soltanto la cronaca dettagliata dello sviluppo di un’epidemia che, iniziata all’improvviso con una moria di ratti, si estende ben presto anche agli esseri umani, provocando nella città migliaia di vittime. Le autorità, dapprima tentate di minimizzare e addirittura di negare il diffondersi del morbo, decidono, quando ormai la situazione è diventata incontrollabile, di porre l’intera città in quarantena fino a quando non si sarà trovata un rimedio, lasciando così i cittadini senza punti di riferimento e in balia di se medesimi, in una sorta di status naturae in cui a prevalere saranno la forza, il sospetto, l’inganno, la disperazione, la fuga dalla realtà. Ma, nonostante lo smarrimento generale, c’è chi non si arrende all’avanzare del male, un male che non è soltanto fisico, ma soprattutto morale. Due medici (Rieux e Castel) e uno studente (Tarrou), cercano di opporsi, con il coraggio e con il sapere scientifico, infondendo fiducia in chi la fiducia l’ha persa e, soprattutto, sperimentando un nuovo siero che alla fine, dopo alcuni falliti tentativi, comincia a dare i risultati sperati bloccando prima l’estendersi del contagio e poi debellandolo. L’epidemia, nel romanzo, non è altro che la metafora del male insito nei rapporti tra gli esseri umani così come è insito nella natura stessa dell’uomo, un male che si può combattere con l’impegno nel proprio lavoro, la solidarietà nei confronti di chi ha più bisogno, la scienza. Ma, ci avverte il narratore concludendo il romanzo:
“Ascoltando, in effetti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordò che questa allegria era sempre minacciata. Poiché sapeva che questa folla felice ignorava ciò che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né mai scompare, che può rimanere addormentato per decenni nei mobili e nella biancheria, attendendo pazientemente nelle stanze, nelle cantine, nelle soffitte, nei fazzoletti e nei materassi, e che, forse, giorno verrà in cui, per la disgrazia e per l’insegnamento degli uomini, la peste risveglierà i suoi ratti mandandoli a morire in una città felice”.
Dalla lettura del romanzo è inoltre difficile comprendere che la peste di Camus vuole rappresentare, allegoricamente, la situazione della Francia dopo l’invasione del Paese, nella primavera del 1940, da parte dei nazisti e la successiva formazione del governo collaborazionista di Vichy. In quell’occasione una maggioranza di francesi, invece di opporsi e di aderire alla Resistenza, aveva preferito, per quieto vivere o per tornaconto personale, adattarsi alla nuova situazione, arrivando perfino a collaborare attivamente nella caccia e nella cattura degli ebrei. La peste si era insinuata nei cuori e nelle menti di quei francesi e solo il coraggio e la volontà di pochi avevano consentito alla nazione di recuperare l’onore perduto.
Cecità di José Saramago (1995) |
Si tratta del romanzo più famoso del grande scrittore portoghese, premio Nobel per la letteratura nel 1998. Anche in quest’opera, impressionante per il suo crudo realismo e per la visione pessimistica tanto della natura umana quanto dello status dei rapporti umani nell’odierna società tardo-capitalistica (nella quale si sono raggiunti livelli mai visti di alienazione e di reificazione), sfondo e causa motrice delle vicende narrate è una pestilenza. Una strana e nuova forma di epidemia si abbatte su una città sconosciuta: senza alcun sintomo premonitore, le persone diventano improvvisamente cieche, una cecità del tutto peculiare, nel senso che gli ammalati cominciano a vedere bianco, un “mal bianco” che avvolge la sua vittima in un candore luminoso, simile ad un mare latteo. Dalla prima vittima (un automobilista al semaforo) il contagio si trasmette progressivamente a migliaia d’altre persone nella città e in tutto il Paese. Le conseguenze sono ovviamente orribili: vengono a cadere, insieme con la visione dei limiti e dei confini e delle differenze degli oggetti materiali, anche le barriere e i vincoli che la ragione e il senso comune oppongono allo scatenarsi degli istinti bestiali. Non ci sono freni alla barbarie: l’unica ragione di vita diventa la lotta per la sopravvivenza, la quale implica la riduzione del prossimo a semplice utensile o strumento di piacere. Nel mondo delle ombre bianche ogni contagiato, cieco in un mondo di ciechi e conscio che non potrà essere riconosciuto dagli altri ciechi, rivela la sua vera e finora celata essenza. La salvezza potrà venire soltanto dall’unica persona che, misteriosamente, non è stata contagiata e che ha conservato la sua dignità e la sua umanità: una donna, moglie dell’oculista che ha curato i primi casi di cecità, diventato a sua volta cieco. Solo lei, infatti, nel periodo in cui tutti erano ciechi e ciascuno pensava alla propria salvezza lasciandosi andare ad azioni ripugnanti, solo lei è riuscita a mantenere i nervi saldi, a trasmettere a chiunque la speranza in una possibile guarigione, solo lei ha costituito l’unico punto di riferimento nella lunga notte bianca che ha avvolto nell’indistinto tutti e tutto. Alla fine, quando tutti sono guariti, i due coniugi si chiedono come e perché la peste della cecità sia all’improvviso comparsa e, altrettanto all’improvviso, scomparsa. La risposta è nelle parole del medico:
“Vuoi che ti dica cosa penso … Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.
Francesco Sirleto
Paolo
2 Marzo 2020 alle 12:11
La storia si ripete. È importante imparare a decifrare il presente, lasciandosi ammaestrare dal passato, per gestire il futuro in modo consapevole e ragionevole. Altrimenti, demonizzeremo lo straniero, pretenderemo improbabili prodigi e continueremo a cercare “l’untore”.
Edvige
2 Marzo 2020 alle 13:08
Bella e meditata rassegna. Non poteva mancare il riferimento iconografico allo splendido affresco del Trionfo della Morte del palermitano palazzo Sclafani. Personalmente,ricordo la sensazione di angosciosa claustrofobia provocata dalla lettura-mai terminata-del romanzo di Saramago.