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Le Voci di dentro: ma delle donne iraniane

Storia di una a FIAT 1100 "reale" e di una fuga, anch'essa "reale"

“Le Voci di dentro” è una Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo, composta nel 1948 e inserita dall’autore nella Raccolta “Cantata dei giorni dispari”. Ma non ne scriverò qui. Il titolo – leggendo la pagina pubblicata sul Quotidiano La Stampa di ieri che porta quel titolo in testa al pezzo firmato da Francesca Paci – evoca bene le voci che si alzano da tempo in Iran – Paese trasformato dagli ayatollah in una galera a cielo aperto – le voci delle donne iraniane che si oppongono alla dittatura religiosa, pagando un prezzo molto alto in vite spezzate e in anni di galera.

Sabato prossimo sarà un anno dalla morte – per mano della Polizia della Morale – della curdo-iraniana 23enne Mahsa Amini, uccisa dalle botte dei poliziotti religiosi, perché mostrava una ciocca di capelli uscita dal velo. Sabato, certamente, le donne iraniane (e non solo loro) manifesteranno in vari modi, alzando alta la loro voce per gridare: “Donna, Vita, Libertà!”. Amplifichiamo quella voce, unendoci così alla loro lotta.

La protesta in Iran, cominciata dopo l’uccisione di Mahsa Amini, è ancora in corso, ha raggiunto decine di città, si è allargata alla parte maschile della società iraniana, e sta costando molto sangue innocente e decine di arresti. Non se ne parla molto anche perché la repressione del regime colpisce direttamente la stampa, con decine di giornalisti arrestati, alcuni dei quali rischiano la pena di morte. Oggi sabato 16 settembre a Milano e a Roma, ma anche in altre città in tutto il mondo, si tengono manifestazioni per commemorare l’uccisione della giovane e dimostrare il sostegno al popolo iraniano. 

Roma (Piazza dell’Esquilino, ore 15,00) e a Milano (Corso Venezia, ore 16,00) per gridare alto e forte: “Donna, Vita, Libertà!”.

 

Storia di una a FIAT 1100 “reale” e di una fuga, anch’essa “reale”

Giorni addietro, ricordando l’80° Anniversario della firma dell’Armistizio “corto”, ho fatto cenno al pranzo (con menù scritto rigorosamente in francese) che il, re savoiardo Vittorio Emanuele III consumò, nel Castello di Crecchio (Chieti), in una sosta del suo viaggio verso Pescara (e poi Brindisi), dopo la decisione della ignominiosa fuga da Roma – qualcuno la chiama, ancora oggi, un “doveroso allontanamento per salvare la continuità dello Stato sabaudo”, ma fu niente altro che una fuga vigliacca – successiva all’annuncio, prima americano e poi badogliano, della resa incondizionata dell’Italia agli alleati; fuga attuata all’alba del 9 Settembre 1943, mentre a Roma un manipolo di soldati e civili – tanto coraggiosi, quanto disperati e sfortunati – resisteva, in armi, alla pressione militare germanica, che tendeva ad occupare la Capitale del Regno D’Italia. (*)

Nota 1: si racconta che il Generale Giuseppe Castellano fu spedito a Cassibile (SR), per firmare il Documento contenente le clausole dell’Armistizio, senza le credenziali che gli consentissero di dare validità alla firma che doveva apporre sotto quell’Accordo armistiziale, cosiddetto “corto” predisposto dagli alleati, in nome e per conto del legittimo Governo italiano presieduto, al Sud, dal Maresciallo D’Italia Pietro Badoglio. Appena gli alleati se ne resero conto, dovettero minacciare un ulteriore pesantissimo bombardamento sulla Penisola perché il Generale Castellano fosse fornito, dal Governo del Sud, delle prescritte credenziali e la firma italiana, sotto il Documento che attestava la resa incondizionata del Regno D’Italia agli alleati, potesse avere effettivo valore giuridico e politico.

tagliare la Corda, 9 Settembre 1943, Storia di una fugaTutta questa storiaccia è raccontata – con dovizia di particolari (alcuni noti, altri meno) nel Libro di Marco Patricelli, Storico, Ordinario di Storia dell’Europa Contemporanea all’Università “Gabriele D’Annunzio”, di Chieti e Saggista di vaglia, nel suo “Tagliare la Corda, 9 Settembre 1943, Storia di una fuga”, edito da Solferino. Dal lavoro di Patricelli traggo la storia poco nota che segue.

Questa storia nella Storia iniziata quel 9 Settembre a Roma ci trasporta, con un salto temporale di una trentina di ore, nella località di Ortona a Mare (Chieti) davanti alla Fornace, al tempo condotta da Nicola Pompilio. E’ lì, infatti, che si ferma, il 9 Settembre ‘43 in pieno giorno, una Fiat 1100 con targa dell’Esercito Regio. La vettura, dopo avere rallentato si ferma sul Piazzale antistante la Fornace, proprio davanti a Pompilio, che l’aveva avvistata poco prima. Il militare alla guida scende dal mezzo e senza alcuna esitazione consegna le chiavi della macchina a Pompilio dicendogli di nasconderla e tenerla da conto che, forse, sarebbe tornato a riprenderla. Ciò detto, gira la schiena al fornaciaro, rimasto senza parole, e si allontana. 

Quel soldato è abruzzese, nativo di Vasto (anzi Istonio, come l’aveva ribattezzata il fascismo), la sua famiglia risiede ad una manciata di chilometri da Ortona e lui ha deciso di imboccare la strada di casa, anche se l’ultimo ordine ricevuto diceva di tornare a Roma e riportare la macchina al Reparto di appartenenza. Se il re aveva “tagliato la corda” – pensava il militare – seguito da un codazzo infinito di dignitari e militari, voleva dire che il giuramento di lealtà a sua maestà non valeva più nemmeno un fico secco. Dunque, ognuno per la sua strada, maledizione. L’ordine generale, che nessuno aveva impartito ma che era chiaro, era: “Tutti a casa”.

 

“Tutti a Casa” (1960) un film definitivo su quell’8 Settembre del ‘43

“Tutti a Casa” ancora oggi rappresenta uno dei momenti più alti del cinema italiano, quello dei grandi autori e dei grandi sceneggiatori, che una volta ci rendeva capaci di stupire e innovare. Luigi Comencini ci guida dentro una storia a metà tra neorealismo e dramma agrodolce, al servizio di un Alberto Sordi semplicemente sensazionale, nei panni di Alberto Innocenzi, tenente di artiglieria di stanza in Veneto. La sceneggiatura firmata dallo stesso Comencini assieme ad Age & Scarpelli e Marcello Fondato è fin da subito perfetta nell’unire micronarrazione con macronarrazione, nel fare di quest’uomo patetico, insicuro, via via spogliato dei suoi supposti ideali e certezze, il simbolo di quei giorni di caos e tragedia. 

L’annuncio della pace separata firmata da Badoglio con gli Alleati, quel “Tutti a Casa” che dilaga tra i resti di un esercito pietosamente costruito e guidato, dove l’anarchia serpeggia naturalmente, è conseguenza del disastro cinico creato dai vertici. Comencini fa un’opera di rievocazione storica fredda, chirurgica, inchioda senza mai mostrarli il Re e la Monarchia inetta e imbelle, il Maresciallo vanaglorioso e mendace. 

I primi trenta minuti sono un capolavoro di rievocazione e di caratterizzazione, ci costringono a guardare in faccia Alberto, il Geniere Assunto Ceccarelli (Serge Reggiani), il Sergente Fornaciari (Martin Balsam) e il soldato Codegato (Nino Castelnuovo) persi in un road movie che è un viaggio della speranza e della vergogna collettiva.” Fonte: https://www.wired.it/article/8-settembre-1943-racconto-film-tutti-a-casa-comencini-sordi/

Quella FIAT 1100 aveva fatto parte del corteo di macchine “reali” che, all’alba del 9 Settembre ’43, aveva imboccato la Consolare Tiburtina-Valeria in direzione di Pescara, senza essere fermato dai tedeschi. Il “tutti a casa” arrivava proprio da quel corteo e il soldato abruzzese, alla guida di quella FIAT 1100 “reale”, lo aveva capito. Aveva capito che nell’aria stava suonando la ‘campana a morto’ del Regno D’Italia (si sentivano distintamente i suoi “rintocchi” nel fuggi-fuggi generale) e che, una volta tanto, bisognava pensare a sé stessi, eseguendo quell’ordine non dato (“tutti a casa”) alla lettera e – abbandonata la divisa – tornare a casa, approfittando del fatto che di tedeschi in giro ce n’erano ancora pochi. (**) 

La Storia e il racconto di Patricelli – mentre ci ricordano il nome e il cognome dello chef del pranzo reale al Castello di Crecchio (Aquilino Beneduce) – non ci dicono, invece, nulla riguardo le generalità di quel militare e nemmeno ci dicono se, alla fine della fiera, quell’Autiere abbia portato – o no – la ghirba a casa. Ma la storia di quella FIAT 1100 “reale” bene ci racconta l’aria di dissoluzione che tirava tra gli alti gradi dell’Esercito regio (e non solo tra quelli) in quei primi giorni di Settembre del 1943. 

Nota 2: durante quel pranzo al Castello di Crecchio, a Badoglio verrà chiesto di Mussolini, illustre prigioniero sul Gran Sasso, e il Maresciallo farà spallucce, come se la cosa non lo riguardasse affatto, dicendosi convinto che i fascisti avrebbero liberato il duce. Badoglio – che nella fuga da Roma aveva persino dimenticato di portarsi dietro una copia del Documento che conteneva le clausole dell’Armistizio (magari per rileggerlo e rinfrescarsi la memoria) – fa finta di dimenticarsi (ancora) di non avere ottemperato ad una clausola dell’Armistizio “lungo” che imponeva la consegna di Mussolini agli alleati. 

E ancora dimentica che erano stati impartiti ordini precisi ai Carabinieri di guardia al duce, “prigioniero” sul Gran Sasso di eliminarlo, in caso di problemi. E i problemi arriveranno dal cielo, il 12 Settembre, quando i “Diavoli Verdi”, i paracadutisti del Generale Kurt Student – con un’azione militare che ancora oggi si studia nelle Scuole di Guerra – libereranno Mussolini e qualche giorno dopo nascerà, su preciso ordine di Hitler, la Repubblica Sociale Italiana (RSI) che piazzerà Mussolini, sul Lago di Garda (mentre il duce aveva chiesto come Capitale della sua Repubblica Roma o Milano) agli ordini irrevocabili del Generale delle SS Karl Wolff (l’uomo di Himmler in Italia) e darà inizio ai venti mesi di lotta e di sangue della Resistenza antinazifascista.  

In quel corteo di macchine che muoveva, in una ordinata fila indiana, verso Pescara c’era il re, con la regina e il figlio Umbeto, e c’era il Maresciallo D’Italia Pietro Badoglio, nominato Primo Ministro e Segretario di Stato da Vittorio Emanuele III, dopo l’arresto di Mussolini, il 25 Luglio del 1943 a Villa Savoia, il colpo di forza del re che tendeva a conservare la monarchia, sacrificando il Capo del fascismo sotto il peso della caterva di nefandezze che i due compari avevano costruito e collezionato di comune accordo.

Per tutto il tragitto fino ad Ortona a Mare per l’imbarco verso Brindisi, Badoglio era terrorizzato dalla possibilità che – se li avessero intercettati – i tedeschi, certo, lo avrebbero appeso per il collo ad uno degli alberi che sfilavano veloci lungo la strada, oppure la testa gliela avrebbero staccata di netto, con un altro sistema che, di certo, conoscevano.  La sua era paura allo stato puro, ma niente di tutto quello che Badoglio paventava accadde poiché, lungo quel corridoio di fuga, non ci fu ombra dei tedeschi e la Storia, quella scritta con la S maiuscola, non racconta come mai quel lungo corteo di auto (si stima fossero una sessantina) non fosse stato intercettato: non era certo invisibile, ma nessuno lo fermò, nemmeno per un semplice controllo documenti.  

Una spiegazione del perché quella fuga rimase indisturbata, ce la dà Emilio Lussu nel suo “La Difesa di Roma” (Volume pubblicato postumo nel 1987 dalla Editrice Democratica Sarda) riportando un’annotazione del Generale Paolo Puntoni, Aiutante di campo generale del re, che, invece di darsela a gambe, avrebbe dovuto sovraintendere alla difesa di Roma, ché questo era uno dei suoi incarichi. Il Generale, riguardo quella circostanza fortunata (per il corteo reale) annoterà che “Il potere era ancora tutto italiano” a significare che la Tiburtina-Valeria era, a quel momento, ancora sgombra dai tedeschi e controllata da soldati italiani. Sicché, nessun posto di blocco militare fu avvistato dalle macchine reali e il corteo – partito dal cortile del Ministero della Guerra, a Roma, alle 5,10 del 9 Settembre – poté arrivare al Castello di Crecchio alle 10,30 “accolto” – è ancora Lussu ad annotarlo -“festosamente ma con imbarazzo.”

Così l’autista di quella FIAT 1100 “reale” poté lasciare la macchina ad Ortona a Mare, davanti a quella Fornace, e tornarsene a casa, mentre il Maresciallo D’Italia Pietro Badoglio – militare più propenso a prendersi gli onori che le responsabilità del grado, responsabilità che scaricava volentieri sugli altri – sua, ad esempio, l’idea di scappare da Roma, anche se, nel dopoguerra, il Maresciallo dichiarerà essere stata farina del sacco di sua Maestà, meglio SAR, Sua Altezza Reale, il re ed ex imperatore – poté scampare a tutti gli eventi successivi a quel 9 Settembre ‘43 e morire tranquillo, il 1° Novembre del 1956, a Grazzano, il suo paese d’origine a cui il fascismo aveva, graziosamente aggiunto il suo cognome. Quel paese si chiama, ancora oggi, Grazzano-Badoglio, in suo onore, se con una persona così, di onore si può parlare.

Ma il terrore che, in quel Settembre di ormai 80 anni fa, possedeva Badoglio non gli impedì affatto di saltare, assolutamente per primo, sulla Corvetta della Regia Marina Militare “Baionetta” che – con la scorta dell’Incrociatore “Scipione Africano” – era  arrivata nel Porto adriatico di Ortona per ordine dell’Ammiraglio Francesco De Courten, Capo di Stato Maggiore della Regia Marina Militare. 

Badoglio, infatti, insieme all’Ammiraglio De Courten, si trovava già a bordo della Corvetta, mentre il re lo cercava sul molo e aveva superato in velocità tutti gli altri cortigiani e militari che cercavano di salire a bordo per conquistare uno dei 54 posti disponibili. Quei fuggiaschi avevano, infatti, capito che in quella nave era riposta l’unica speranza di avere salva la vita. Infatti, l’arrivo annunciato di una seconda nave militare, la Corvetta “Scimitarra”, non ci fu. Su quel molo del Porto di Ortona andò dunque in scena – scrive Patricelli – un vero e proprio “assalto alla Baionetta” e si può, certamente, immaginare la scena, compresi i rimbrotti delle mogli che accusavano i mariti – militari o cortigiani che fossero – di non essere riusciti nemmeno a conquistare un posto su quella nave della salvezza.

Ma torniamo alla FIAT 1100 “reale” lasciata in custodia al Fornaciaro Nicola Pompilio dal militare abruzzese. Che fare di quell’auto compromettente, lasciata in bella vista sul Piazzale davanti alla Fornace? Bisognava farla sparire. Dunque, Pompilio chiama due suoi operai e insieme nascondono l’automobile sotto una catasta di mattoni (ce n’erano, evidentemente, ad abundantiam) e quella FIAT 1100 resterà lì per tutta la durata dell’occupazione tedesca di Ortona. Anche durante la sanguinosa battaglia, casa per casa, che si accese in città, nell’ultima settimana di Dicembre di quel 1943; battaglia inserita in quella più importante del Sangro (Dicembre 1943-Aprile 1944) che permise al Maresciallo inglese Bernard Law Montgomery di assestare un duro colpo alla tedesca Linea Gustav, anche se non si trattò di quello definitivo. 

Dopo quella battaglia, la città di Ortona, anche grazie ai bombardamenti alleati, venne liberata si, ma si ritrovò distrutta per l’80%. Fu solo allora che due altri Soci di Pompilio decisero di denunciare all’Autorità alleata la presenza della macchina “reale” nella loro Fornace. L’automobile, allora, venne citata in un Documento della Prefettura di Chieti con l’appellativo di “FIAT 1100 reale”, anche se di “reale” non aveva proprio un bel niente. I denuncianti ottennero dall’Autorità di poter continuare a detenere la macchina che restava, però, a disposizione del Prefetto. Ma come si sa, nelle cose burocratiche la mano destra non dice mai alla sinistra quello che ha intenzione di fare, né come stiano effettivamente le cose e così, poco tempo dopo, la FIAT 1100 venne sequestrata da un Ufficiale dei Carabinieri, il Tenente Pellegrini, insieme a due altri militi dell’Arma, che non ne avevano l’autorità, ma lo fecero comunque.  

In questo modo l’auto “reale” finì nella disponibilità del Tenente dei Carabinieri Pellegrini. Ma qui la Storia applicherà la dantesca “Legge del contrappasso” e dunque al Tenente dei Carabinieri, che aveva sequestrato l’autovettura “reale” senza averne l’autorità, la FIAT 1100 venne a sua volta sequestrata – durante una gita dell’Ufficiale a Campobasso – da un Colonnello di stanza in quella città: potenza del grado che, sebbene lo sfascio militare fosse generale, evidentemente contava ancora qualcosa. Da quel momento in poi, di quella FIAT 1100 “reale”, nulla si è più saputo. 

Così, dunque, finisce la storia di quella FIAT 1100 “reale” che aveva partecipato allo svolgersi di una importante pagina di Storia. Ma proprio in quella pagina di Storia, in quei cruciali primi giorni del Settembre 1943, non si persero solo le tracce di quell’auto “reale”, ma anche le tracce della dignità di Casa Savoia. Come scrive, infatti, Patricelli, con quella fuga e con quella ressa sul molo del Porto di Ortona a Mare, Casa Savoia e la classe dirigente del tempo – carrierista e anestetizzata da vent’anni di regime fascista – persero “prima la testa, poi la dignità e con quella fuga persero pure l’intera nazione, abbandonata, passivamente, alla rabbia e alla vendetta tedesca”, guadagnandosi così i reali savoiardi, tutta intera, la XIII Diposizione Transitoria e Finale della Costituzione che ne vietava il  ritorno in Italia dal Portogallo, Paese dell’esilio volontario dell’ultimo re d’Italia, iniziato nel Maggio del 1946. (***).

Al Porto di Ortona, Lelio Ferrari, esponente locale del Partito Repubblicano, alla fine della guerra, fece affiggere una Lapide che così recitava: 

  • “Da questo Porto, la notte del 9 Settembre 1943, l’ultimo re d’Italia fuggì con la sua corte e con Badoglio consegnando la martoriata Patria alla tedesca rabbia. Ortona repubblicana, dalle sue macerie e dalle sue ferite, grida maledizione eterna alla monarchia del tradimento, del fascismo e della rovina d’Italia, anelando giustizia dal popolo e dalla Storia, nel nome santo di Repubblica. 9.9.1943”. 

Nei mesi seguenti, la Lapide fu, diverse volte, fatta oggetto di sfregio e mitragliata. (****)

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(*) Il Castello ducale De Riseis-D’Aragona è situato a Crecchio, in Provincia di Chieti, e attualmente ospita il Museo dell’Abruzzo bizantino e altomedievale. 

(**) L’appellativo “reale”, che rimase appiccicato per sempre a quella FIAT 1100, non ne indicava un particolare ruolo tra le auto del potere savoiardo e fascista, a differenza della FIAT 2800, in uso ai Savoia, autovettura voluta da Mussolini, per non far sfigurare i reali savoiardi di fronte alla Mercedes Benz utilizzata da Adolf Hitler. L’avvento della Repubblica porterà nel parco auto della Presidenza della Repubblica Italiana un’autovettura più sobria, ancorché signorile. Si tratta di una Lancia Flaminia 335, carrozzata Pininfarina, costruita nel 1960 (in quattro esemplari di colore blu) e restaurata nel 2001. E’ l’autovettura che il Presidente della Repubblica in carica usa, ancora oggi, per le sue uscite ufficiali, come, ad esempio, quella per la parata militare del 2 Giugno ai romani Fori Imperiali. 

(***) Va ricordato che quella XIII Disposizione Costituzionale è stata “disinnescata” nei suoi effetti dalla Legge Costituzionale n.1/2002, che l’ha annullata. Relatore di quella Proposta di Legge Costituzionale fu il Senatore di Foza Italia (e Popolo della Libertà) Andrea Pastore che – per la Storia – era Notaio a Pescara, la città della fuga reale.

(****) In relazione alla Lapide istallata nel Porto di Ortona, va osservato che Vittorio Emanuele III non fu propriamente “l’ultimo re d’Italia”, in quanto il 9 Maggio 1946, abdicò in favore del figlio Umberto II (il “Re di Maggio”) lui si, l’ultimo re d’Italia. Ma nel 1945, quando fece collocare la Lapide al Porto, il repubblicano ortonese Ferrari questo non lo sapeva, poiché il fatto non era ancora accaduto.

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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