Lettera agli studenti 5. – Il nostro pane quotidiano
In "Padelle, non gavette" la fantasia del cibo fa sopravvivere le animePubblichiamo la quinta delle “Lettere agli studenti”, rubrica curata dalla professoressa Lilia Bellucci
Cari studenti,
oggi vi assegno un compito singolare. Come si fa il pane?
Sciogliete il lievito di birra in un po’ di acqua tiepida e unitela alla farina sistemata a forma di fontana su un piano di lavoro. Versate acqua, sale e olio, lavorando l’impasto con le mani almeno per quindici minuti, finché non diventi omogeneo ed elastico. Lasciatelo riposare nel forno spento sotto un panno umido per almeno due ore. Quando sarà aumentato di volume, tornate a lavorarlo e a modellarlo come preferite prima di infornarlo a duecento gradi per circa cinquanta minuti. Toglietelo quando sarà dorato e ben cotto.
L’attenzione al cibo è parte essenziale del nostro essere ed è antidoto ai veleni del pensiero della morte e della paura.
Avrete notato la fila fuori dei supermercati e i carrelli riempiti con riserve di ogni genere. In questo momento accumulare alimenti è un’urgenza sentita da molti.
Il cibo è cura del corpo e della salute, a cui si è dedicata sempre maggiore attenzione negli ultimi due secoli fino all’esasperazione in rituali ossessivi di diete e di pratiche giornaliere. Conosciamo le deviazioni tutte moderne di ore di palestra, alimenti bio e vegani, app contacalorie e ritrovati per dimagrire. In questi giorni la paura atavica della penuria e della fame è tornata a prevalere su simili divagazioni.
Dedicarsi alla ricerca, alla preparazione e alla degustazione di alimenti e di bevande salva dal chiudersi in mondi virtuali e da città senza odori, senza sapori.
Per questo ultimamente, in tempi ancora ignari dell’esistenza del Coronavirus, vi appassionavate a Masterchef, mentre i vostri genitori frequentavano corsi da sommelier o si scambiavano sui social ricette insolite. Saper distinguere e saper riconoscere le differenze insegna indubbiamente l’arte del dettaglio in cucina e nella vita.
Il cibo è occasione di banchetto e di festa, che si traducono in socialità e incontro con familiari e amici.
Così anche ora sta ridiventando il fulcro della vita nelle case. Non più distolti da orari diversi, sta tornando una consuetudine riunirsi nei momenti del pasto, dialogare e confrontarsi.
Il cibo è punto di osservazione per capire noi stessi e la nostra storia.
Il saggio di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi Banchetti letterari ci fa compiere un viaggio fantastico tra bistecche, cioccolata, formaggi, frutta, latte, legumi, pasta, pizza, polenta, frittate e ogni ben di Dio. Si susseguono in ordine alfabetico singole pietanze oppure appaiono raccolte in capitoli dedicati a cibi dietetici, cibi d’inferno o di migranti, cibi futuristi o magici o polizieschi e così via.
Esiste l’abbuffata che è una modalità di esorcizzazione della penuria oppure è rovesciamento parodico dell’eroico, contravvenzione di norme, ricerca di identità, espressione di una polarità negativa, autodistruzione. Esiste il cibo dei migranti, che in un mondo globalizzato abbiamo imparato a conoscere e a diffondere, limitandoci però a gustarlo e dimenticando che per ognuno di loro è anche ricordo e identità.
Esiste il cibo dietetico, che può essere equilibrio funzionale o che diventa metafora di altro e si trasforma in disagio e disturbo alimentare, ossessione per se stessi, prigione.
Esiste il cibo magico della Mandragola, che illude di poter cambiare il mondo e in fondo alla fine lo fa.
Padelle, non gavette
Esiste il cibo di guerra, ma per questo vi invito a leggere Padelle, non gavette di Fedele Carriero e Michele Morelli, che ha pubblicato l’immaginario gastronomico del lager di Wietzendorf.
E’ un “volume di sogni culinari”, scritti e dipinti per raffigurare le “nostalgie” degli internati e placare la fame, riappropriandosi di quello che la realtà toglieva loro.
Nella baracca 7 i prigionieri guardavano avidamente “le minestre, gli arrosti, e i dolci che gli autori quotidianamente sfornavano dalle loro penne come da una cucina di alta creatività gastronomica, Vedevano quelle vivande sfilare dinanzi ai loro occhi e si saziavano solamente con un po’ di immaginazione”.
Nel libro si leggono ricette e si ammirano le raffigurazioni degli alimenti, ma incuriosiscono i particolari: il titolo “minestre” con lettere formate da posate, l’ironia dei cuochi con le maschere antigas, la dimensione pantagruelica dell’elenco, l’ironia di certe pietanze come “Crostini al prigioniero” o “Frittata non ti scordar di me”. Anche qui il cibo significa altro, se alla fine del viaggio gastronomico la conclusione dei prigionieri del Lager è che “la prova è stata rigorosa: i forti hanno imparato e resistito, i rottami nulla appreso e ceduto”.
Questo libro non è la divertita invenzione di uno scrittore, ma è la trascrizione delle reali fantasie delle vittime dei Nazisti a Wietzendorf. La fantasia del cibo fa sopravvivere le anime.
Per questo motivo ho scelto di assegnarvi un compito singolare e inaspettato: fare il pane in casa.
Il profumo del pane
In Pascoli il profumo del pane si esala dal brusìo di chicchi color oro: una magnifica sinestesia per dirci che “il pane accende tutti i sensi”.
Nel verno io voglio, ch’io non son cicala,
il mio grano con me sotto il mio tetto.Il buon odor di pane che si esala
da quel brusìo di mille chicchi d’oro,
quando il mio mucchio muovo con la pala!(Grano e vino, Pascoli)
Quello stesso odore intenso si spande e diventa “l’aria tiepida” che “specie al sole sapeva di pane” in Elsa Morante (La Storia)
Il pane è essenziale come l’aria che respiriamo e Primo Levi nel lager lo scrive in tutte le lingue del mondo.
Se manca, si muore e in Piccole anime di Matilde Serao la fioraia affamata quasi sviene, ma spesso “non di solo pane si vive”, se Pirandello scrive che “l’uomo non può star tranquillo, se non s’è assicurate tre cose: il pane, la casa, l’amore” (L’uomo solo).
Il pane, la casa, l’amore
Fate, dunque, il pane in casa, che “è pure gran fatica che consuma e nel contempo una festa, un momento potente di socialità”, come nel Fanciullo nascosto di Deledda.
Il pane della sapienza, la sapienza del pane
Se racchiude in sé l’essenziale del vivere, diventa facilmente metafora di ciò che nutre e fa crescere. Così è la sapienza al cui banchetto Dante si augura umilmente di “manducare” le briciole di altri. Preferisco, tuttavia, ritornare con voi sulle pagine manzoniane.
Quanto pane in questi Promessi Sposi: il pane della giustizia chiesto nella rivolta e il pane gettato via dallo stesso popolo ribelle, il pane perduto da fuggitivi di passaggio e il pane raccolto da Renzo che diventa per lui mezzo per sfamarsi ma anche causa di guai, il pane assente nelle case dei poveri e trionfante nei banchetti dei potenti.
Soprattutto c’è il pane del perdono che Fra Cristoforo chiede: “Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono”. Quello stesso pane porterà con sé mettendosi in cammino e “fermandosi all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo”.
Allora, cari studenti, ora che siete chiusi in casa, fate il pane nelle vostre cucine e serbatene un pezzo, perché poi, quando potremo uscire e ci rimetteremo in viaggio, quel pane ci ricorderà questi giorni e quanto questa esperienza ci ha insegnato.
Lilia Bellucci
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