Memoria della deportazione
La storia di Domenico Guerrisi e di Teofrasto TurchettiScriveva Milan Kundera – lo scrittore ceco morto qualche giorno fa – nel suo “Il Libro del Sorriso e dell’Oblio”, (Adelphi, 1991) –
“Per liquidare i popoli si comincia col privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura e la loro Storia. E qualcun altro scrive nuovi libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro una nuova Storia. Dopo di che il popolo comincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato.”.
Se ci pensate, questa è l’operazione culturale (ma anche e soprattutto politica) che il governo Meloni sta tentando di portare in cascina. Come sta, infatti, scritto nel Programma elettorale di Fratelli d’Italia (Paragrafo 13) si deve procedere alla
“Creazione di un nuovo immaginario italiano anche promuovendo, in particolare nelle Scuole, la Storia dei grandi d’Italia e le rievocazioni storiche. Valorizzazione del Giubileo 2025. Contrasto a cancel culture e iconoclastia, che minacciano i simboli della nostra identità.”.
In questa particolare azione cultural-politica si distinguono il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano – che ha arruolato impropriamente Dante Alighieri tra gli intellettuali di destra – la Consulente del suddetto Ministro, Beatrice Venezi, valente (e avvenente) Direttore d’orchestra, dichiaratamente di destra e recentemente contestata per questa sua appartenenza politica, la quale ama spesso inserire nei suoi fuori-programma “L’Inno al Sole” di Puccini, scritto nel 1918, ma adottato da Mussolini e colonna sonora abituale delle manifestazioni del MSI. E per finire il Ministro dell’istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara che ama scrivere, spesso, lettere agli studenti riecheggianti un frasario da MINCULPOP per i profani, il Ministero della Cultura Popolare di Salò, diretto da Ferdinando Mezzasoma (fucilato a Dongo il 28 Aprile 1945) che aveva come Capo di Gabinetto Giorgio Almirante, il noto “fucilatore di Partigiani”. (*)
Ma voglio tornare sulla parte del Programma elettorale di FDI che recita “[…] anche promuovendo, in particolare nelle Scuole, la Storia dei grandi d’Italia”. La riga citata evidenzia il pensiero-guida degli estensori di quel Programma elettorale, così sostenendo che la Storia la fanno i grandi uomini, idea che personalmente ritengo, oltre che falsa storicamente ancora storicamente idiota.
Senza togliere a persone come Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi i loro meriti storici: i tre hanno certo fatto la loro parte e magari qualcosina di più, bisognerebbe però chiedersi sempre, ad esempio. che cosa avrebbe fatto Garibaldi senza i garibaldini? E ancora: come sarebbe rimasta nella Storia la Repubblica Romana del 1849, se i romani non l’avessero prima fortemente voluta e poi difesa, con le unghie e con i denti, fino al suo ultimo giorno di vita? E infine: come avrebbe fatto a vincere la Resistenza antinazifascista contro uno degli eserciti allora più potenti del mondo, quello tedesco, se non fosse diventata quel grande moto di popolo che è stata? Cosa che ha permesso ai partigiani e alle partigiane di essere come “pesci nell’acqua” e di vincere un confronto armato violento e assai impari.
Ma tant’è, questo agire per “distruggere “la memoria dei popoli” è quanto accade oggi sul versante cultural-governativo. Io, però, resto fedele alla massima del grande Faber che ci spinge ad andare, sempre, “in direzione ostinata e contraria” e continuo a pensare che la Storia sia il prodotto dell’agire simultaneo di milioni di vite minime, di piccoli uomini (ed evidentemente donne) mossi (e mosse) da un’idea di cambiamento in meglio dello stato di cose presenti. Questa mia idea, contrapposta a quella meloniana di cui sopra, mi porta, anche oggi come faccio spesso, a valorizzare – scrivendone qui – la Memoria di due vite minime. Quelle di due militari italiani, catturati dai tedeschi, dopo l’8 Settembre 1943, e stroncate dal nazifascismo sull’altare di un’idea politica vigliacca ed assassina (meglio di un crimine) che voleva trasformare il mondo in una galera a cielo aperto nella quale i sopravvissuti – ovvero quelli (e quelle) che non erano considerati/te “indegni / indegne di vivere” – sarebbero vissuti/te da schiavi (e schiave) fino all’ultimo dei loro giorni di presenza su questa terra.
Domenico Guerrisi
La prima storia riguarda Domenico Guerrisi detenuto, per diserzione, nel Carcere militare di Peschiera del Garda e deportato, il 20 settembre del 1943 con altri militari come lui detenuti, nel Campo di Concentramento di Dachau. Successivamente Guerrisi sarà trasferito nel KL di Buchenwald e di lui non si saprà più nulla. Probabilmente Domenico Guerrisi muore durante una marcia della morte a cui i nazisti costringevano i deportati; la sua vita è stroncata dalla fatica e dalle sevizie in un luogo e in una data sconosciuti. La sua storia la racconta, dettagliatamente, Mauro Sonzini in un pezzo pubblicato sulle pagine di La Bottega del Barbieri che potete leggere per intero qui: https://www.labottegadelbarbieri.org/chi-era-domenico-guerrisi-morto-di-nazifascismo
Teofrasto Turchetti
Analoga sorte – è la seconda storia minima di cui scrivo qui (l’ho già fatto tempo addietro ma “repetita iuvant, dicevano gli avi) – toccherà al militare Teofrasto Turchetti, anche lui, all’8 Settembre 1943, recluso nel Carcere Militare di Peschiera del Garda e anche lui deportato con il trasporto del 20 Settembre 1943. Come raccontano le righe che tra breve leggerete, Turchetti ha “visitato”, non per suo diletto, diversi Campi di Sterminio nazisti prima di essere ammazzato in una data ed in un luogo sconosciuti. Come ancora leggerete tra breve, per l’Esercito Italiano Teofrasto Turchetti non risulta essere stato un militare rastrellato dai tedeschi, dopo l’Armistizio, e impropriamente deportato in diversi Campi di sterminio nazisti, ma soltanto “un caduto civile disperso in prigionia” Anche così si distorce la Storia, quando non riguarda i “grandi uomini”, ma i comuni mortali.
Ecco, dunque, due storie minime che pochi conoscono e ricordano, ma che hanno contribuito (e contribuiscono) a rammentare “quello che è stato” anche alla mente di chi tenta, quotidianamente, tenta di cancellare quella Memoria sostituendola con un’interpretazione della Storia che suona falsa in ogni sua riga.
Teofrasto Turchetti (1921 – ?) Nasce a Roma, il 5 Giugno 1921, in Via dell’Argilla 15. Militare, viene catturato dai tedeschi, dopo l’8 Settembre del 1943. Una volta catturato non segue, però, la strada della maggior parte dei suoi commilitoni rastrellati dai tedeschi, dopo la proclamazione dell’armistizio. Non è, infatti, internato nei Campi predisposti dai tedeschi per i soldati italiani, catturati l’8 Settembre del ’43 e nei giorni successivi, (i “Kriegsgefangenen Lager”) ma viene deportato nei famigerati Campi di concentramento e sterminio – creati dai nazisti per eliminare definitivamente tutti quelli che il nazifascismo considerava indegni di vivere (ebrei, politici, rom, omosessuali, asociali) – Campi disseminati in Germania e negli altri territori occupati. Turchetti ne conoscerà ben tre: Dachau, Sachsenhausen e Buchenwald e in uno di essi avrà termine la sua travagliata esistenza. In quei primi giorni del 1943, la vita del soldato Teofrasto Turchetti, come quella dei suoi molti compagni di sventura, si intreccia ancora una volta non solo con le vicende della guerra, ma con l’acquiescenza e la codardia dei fascisti (e del loro duce) verso i tedeschi. I militari italiani che i tedeschi catturano, dopo l’8 Settembre del 1943, circa 800.000 – di cui 58.722, in Francia; 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani e nelle isole – secondo le stime degli Storici (in particolare quelle dello Storico tedesco Gerhard Schreiber, che ha compiuto sull’argomento accurate ricerche negli archivi germanici) non vengono, infatti, considerati prigionieri di guerra (“Kriegsgefangenen”) – e come tali soggetti alla Convenzione di Ginevra del 27 Luglio 1929, sul trattamento dei prigionieri di guerra, di cui la Germania era uno dei Paesi firmatari – ma “Italienische Militär-Internierte” (“Internati Militari Italiani”, IMI) definizione non presente nella Convenzione, nel senso attribuitole dai tedeschi, ma utilizzata, in quel Trattato internazionale, esclusivamente per designare i militari di uno Stato belligerante che si trovassero, appunto, “internati” sul territorio di uno Stato neutrale.
In una Direttiva di massima “sul trattamento degli appartenenti alle Forze Armate ed alla Milizia” dell’OKW, il Comando Supremo della Wermacht, datata 15 Settembre 1943, si specificava, infatti che, per espresso ordine di Hitler «i prigionieri di guerra italiani dovevano essere indicati come “Internati Militari Italiani”».
La definizione di IMI fu quindi arbitrariamente attribuita, ai soldati italiani catturati, dai vertici politici e militari tedeschi, i quali sostenevano che la Convenzione di Ginevra del ’29 regolamentava «il trattamento dei prigionieri di guerra e non il trattamento dei traditori», come essi ritenevano fossero i soldati italiani e che «un trattamento umano e comprensivo non sarebbe stato capito [—] anzi disapprovato dalla popolazione.».
Per i militari italiani in mano ai tedeschi la situazione si complicherà maggiormente dopo l’incontro Hitler-Mussolini, avvenuto il 20 Luglio 1944, a nella cosiddetta “Tana del Lupo,” subito dopo il fallito attentato al capo nazista, ad opera del Colonnello Claus Schenk von Stauffenberg. Durante quell’incontro Mussolini presenta, infatti, un Memorandum sulla questione dei militari italiani in mano tedesca, nel quale propone il loro impiego come lavoratori civili (o “liberi lavoratori”), essendo impossibile per la sua Repubblica Sociale Italiana aderire alla richiesta tedesca di un milione di lavoratori civili da consegnare per le esigenze produttive del Reich.
Meno di due mesi dopo – il 1° Settembre del 1944 – Hitler e Mussolini siglarono l’Accordo definitivo sulla questione dei militari italiani. L’accordo “smilitarizzava” i soldati italiani prigionieri dei tedeschi trasformandoli, di fatto, in lavoratori civili da impiegare come manodopera. L’atteggiamento acquiescente verso i tedeschi, del capo della RSI, anche in questa circostanza, favorì senza dubbio la decisione nazista di considerare i soldati italiani rastrellati e catturati dopo l’8 Settembre del ’43 – che non avevano optato per la collaborazione con il Reich – non più IMI (condizione, come abbiamo visto, già di per sé particolare) ma “lavoratori civili”, (o “liberi lavoratori”) ovvero manodopera-schiava.
Questa condizione dei militari italiani prigionieri non muterà neanche con la dichiarazione di guerra che il Regno d’Italia (cosiddetto “Regno del Sud”) presenterà alla Germania, il 13 Ottobre 1943. Per gli alleati gli italiani diverranno “co-belligeranti”, per i tedeschi resteranno “traditori”, “badogliani” o “porci italiani”.
Utilizzare – per i militari italiani loro prigionieri – prima la definizione di IMI, poi quella di “lavoratori civili”, permise ai tedeschi di sottrarsi – e di sottrarre quei militari – alle specifiche norme di salvaguardia, previste, dal Diritto Bellico Internazionale, a protezione dei militari catturati durante azioni di guerra dagli eserciti combattenti. I tedeschi, per altro, rifiuteranno costantemente le richieste della Croce Rossa Internazionale di assistere i militari italiani internati, con la motivazione che essi non erano da considerarsi prigionieri di guerra. Gli IMI trasformati in “lavoratori civili” furono impiegati dai tedeschi per servizi più pesanti nel Lager, come manovalanza edile, per lo sgombero di macerie, come ferrovieri o genieri, al servizio diretto della Wehrmacht (l’Esercito tedesco) e della Luftwaffe (l’Aviazione Mlitare) o presso privati, come operai e contadini.
Quando viene catturato Turchetti non è quindi considerato un prigioniero di guerra, come ad esempio quelli alleati, ma uno “Zwangsarbeiter” (“Lavoratore forzato”), come molti dei suoi commilitoni: non un militare nemico catturato in divisa, dunque, ma carne da macello da sacrificare – senza alcuna remora – allo sforzo bellico ed economico nazista.
Le sue vicissitudini iniziano nel Carcere militare di Peschiera del Garda, cittadina ad una trentina di chilometri da Verona, dove si trova recluso, al momento della proclamazione dell’Armistizio. Sugli avvenimenti accaduti nel Reclusorio militare di quella cittadina – a partire dal 25 Luglio del 1943 – si sofferma un articolo di Pietro Arienti, pubblicato sul Sito web dell’ANPI Provinciale di Monza e Brianza. Nel raccontare la storia di otto militari brianzoli – che all’8 Settembre del 1943 si trovavano detenuti a Peschiera del Garda – Arienti ricorda le vicende di quei militari – circa 2000 – che furono catturati dai tedeschi, il 9 Settembre del 1943.
Quando arriva la notizia della firma dell’armistizio e, nel contempo, quella che i tedeschi si stanno avvicinando alla cittadina, i militari detenuti chiedono le armi, per poter combattere, ma il comandante del Carcere respinge, con durezza, la richiesta. Già il 25 Luglio – all’annuncio della caduta del fascismo – i detenuti avevano inscenato una manifestazione di giubilo, a stento repressa dalle guardie carcerarie. Il 9 Settembre ‘43 i tedeschi occupano Peschiera del Garda e – radunati i detenuti nel cortile del Reclusorio – chiedono loro – insieme ai gerarchi fascisti locali – di collaborare con l’esercito tedesco. Ben poche mani si alzano e la scena si ripete, identica, ad un secondo tentativo. A questo punto i tedeschi decidono che tutti i detenuti – anche i pochi che avevano chiesto di collaborare – siano deportati in Germania.
I militari detenuti restano nel Carcere sino al 20 Settembre 1943. Quel giorno vengono caricati su un convoglio ferroviario, composto da una decina di carri bestiame, che parte dalla Stazione di Peschiera del Garda e, il 22 Settembre ’43, arriva nel Campo di concentramento di Dachau, cittadina situata a 20 chilometri da Monaco di Baviera.
Quello dei reclusi di Peschiera del Garda, sarà il primo convoglio di militari italiani deportati verso un Campo di concentramento, dopo l’8 Settembre del 1943. Alcune fonti stimano che i militari italiani arrivati a Dachau con quel treno fossero 2000, altre 1900, altre ancora danno la cifra di 1788 o di 1857. Come ricorda lo Storico Brunello Mantelli «[…] Tra essi, oltre a persone accusate di reati comuni, c’erano antifascisti noti che avevano rifiutato di servire in armi la causa del regime.»
In che modo la storia personale di Teofrasto Turchetti entra in questa vicenda collettiva? Non si ha la certezza matematica che Turchetti fosse su quel treno, ma è certa la sua reclusione, all’arrivo dei tedeschi, nel Carcere militare di Peschiera del Garda. Altra cosa certa è il suo arrivo al Campo di concentramento di Dachau, il 22 Settembre del 1943: lo stesso giorno del convoglio con i militari italiani detenuti in quel Carcere. E’ quindi se non sicuro, altamente probabile che Turchetti fosse su quel treno.
Nessuna notizia, naturalmente, venne data – dai tedeschi e dai fascisti – ai familiari di quei militari, sulla sorte dei loro congiunti. Il 21 Ottobre 1943, cioè quasi un mese dopo l’arrivo a Dachau del convoglio, la moglie di Turchetti, Maria, chiede sue notizie tramite la Segreteria di Stato vaticana. Le ultime che aveva ricevuto dal marito arrivavano da Peschiera del Garda e si riferivano al 22 Agosto del 1943. L’Ufficio Informazioni della Segreteria di Stato pontificia inoltra, il 3 Gennaio 1944, la richiesta di notizie, tra l’altro trascrivendo erroneamente sia il nome della Caserma in cui era ubicato il Carcere militare: (“24 Maggio” e non, come in effetti era, “XXX Maggio”) sia l’indirizzo di Roma di Turchettti; (“Via dell’Aquila, 15” e non, come in effetti era, “Via dell’Argilla,15”). Non è stato possibile sapere se a quella richiesta di notizie avesse fatto seguito una qualche informazione sulla sorte di Turchetti. L’annotazione “attendonsi notizie”, riportata sulla Nota vaticana del 3 Gennaio del ’44, dice però che, almeno a quella data, ovvero circa due mesi e mezzo dopo la richiesta della moglie del militare, di notizie non ve ne fossero.
Forse, come abbiamo supposto, Turchetti era su quel treno ed anche su quel treno – come in tante altre parti del Paese in quei giorni – la storia di ogni singola persona (quella che si scrive con la S minuscola) si incrociava e si fondeva con la Storia (stavolta scritta con la S maiuscola) di un Paese che la guerra ed il fascismo avevano dissolto, come il suo esercito.
A Dachau Turchetti è immatricolato con il numero 55273 e classificato prima come Schutzhäftlinge (“internato per misura precauzionale e di sicurezza”, triangolo rosso) poi come “lavoratore forzato asociale” (“Arbeitszwang Reich”, “AZR”, “Detenuto asociale assegnato al lavoro forzato nel Reich”, triangolo nero), nonostante avesse dichiarato di essere uno “schreiber” (“stenodattilografo”). Come “AZR” è inserito in diverse Squadre di Lavoro (“Arbeitskommando”), esterne al Campo, dipendenti dalla “13^ Brigata Ferroviaria” delle SS. Questi deportati – si stima che gli IMI considerati ”lavoratori forzati” e destinati ai Campi di sterminio fossero dai 40.000 ai 44.000 – erano obbligati al lavoro coatto lungo tratti di strada ferrata, nella Regione in cui si trovava il Campo e molti di loro furono uccisi brutalmente, dalle SS o dai “Kapò”, perché non avevano obbedito velocemente ad un ordine, non erano usciti rapidamente dai rifugi antiaerei o non avevano lavorato in modo soddisfacente.
Va rammentato che i militari italiani, catturati per essere internati o deportati, dovevano fare i conti anche con la “colpa”, doppia,, che i tedeschi attribuivano loro, di essere “traditori” o “badogliani” e di conseguenza sicuramente tutti antinazifascisti. Questa “doppia colpa” comportava un trattamento estremamente duro, al pari di quello riservato agli ebrei ed ai prigionieri di guerra sovietici (che, sebbene catturati in combattimento, erano considerati, per espresso volere di Hitler, “subumani” e quindi da eliminare). Ai soldati italiani deportati toccavano i lavori più pesanti, più avvilenti, più massacranti; una maggiore esposizione alle efferate punizioni ed alla privazione del già miserrimo cibo. Il loro ritorno a casa, era assolutamente non prevedibile, anzi non desiderato dai loro carnefici.
Tra il 15 ed il 18 Gennaio 1945, Turchetti è trasferito a Sachsenhausen – Campo a 35 chilometri da Berlino – dove è immatricolato con il numero 128830 ed è classificato come “Berufverbecher”, “BV”, cioè “delinquente abituale”. In questo Campo continua ad essere inquadrato nella “13^ Brigata Ferroviaria SS” che – pur essendo stata costituita l’8 Gennaio 1945, nel Campo di Dachau – dipendeva formalmente dal Campo di Sachsenhausen. Siamo nel Marzo del 1945 ed il giorno 6 di quel mese Turchetti viene trasferito nel Campo di Buchenwald – Campo costruito a circa otto chilometri da Weimar, in Turingia, Regione situata nella parte Est della Germania – dove riceve la matricola n.133539. In questo Campo è classificato come “politisch”, “politico”, triangolo rosso con, all’interno, la scritta “IT”, per “Italia”.
Gli alleati liberarono Buchenwald l’11 Aprile del 1945, quando già era in mano degli stessi deportati e un Comitato clandestino internazionale ne gestiva, democraticamente, la vita. I soldati della Terza Divisione di Fanteria americana trovarono ancora vive oltre 20.000 persone (tra cui 4.000 Ebrei). Teofrasto Turchetti non era, purtroppo, tra loro.
Una Nota inviata in data 5 Novembre 2010 – alla nipote Francesca Turchetti – dal Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra, del Ministero della Difesa, rende noto che: «[…] il caduto civile Turchetti Teofrasto» risultava presente «nel campo di concentramento di Buchenwald alla data del 28 Marzo 1945, mentre non esiste alcun documento comprovante la morte dello stesso, che pertanto va considerato disperso in prigionia dalla predetta data.». La Nota prosegue poi chiarendo che: «[…] nel citato campo sono deceduti molti italiani, inumati, in sepolture comuni con migliaia di prigionieri di altre nazionalità, il che ha reso impossibile procedere all’identificazione dei singoli Caduti, che rimangono accomunati per l‘eternità da un unico tragico destino.».
La conferma del fatto che Turchetti fosse ancora vivo, «alla data del 28 Marzo 1945», viene anche da un Documento del “Servizio Ricerche” della Croce Rossa Internazionale, con sede a Bad Arolsen, in Germania.
Per quanto riguarda la condizione di Turchetti, per il Commissariato Onoranze Caduti del Ministero della Difesa egli risulta «caduto civile […] deportato per motivi politici in Germania», mentre nel documento della Croce Rossa Internazionale – nel quale non si fa cenno né alla data della sua cattura, né al fatto che egli fosse un IMI – è annotato il suo ingresso nel Campo di Dachau, il 22 Settembre 1943, come “stenodattilografo, lavoratore ferrovia, corrispondente”. Il Documento riporta anche alcune altre annotazioni che possono fare luce sulla sua “vita” di deportato, le trascriviamo integralmente:
«Campo concentramento Dachau/comando Markt Schwaben (senza data) riportato 10.ottobre 1944 al campo [di] concentramento [di] Dachau (campo principale); 18/19 gennaio 1945 campo concentramento [di] Sachsenhausen/13.SSBaubbrigade, luogo d’azione: Reichersthofen; 6.marzo 1945 campo concentramento Buchenwald, numero matricola 133539: era ancora li detenuto il 28 marzo 1945.».
Nello stesso Documento Turchetti risulta essere stato sottoposto a «fermo precauzionale, in data 28 Novembre 1943». Questa misura potrebbe (il condizionale è d’obbligo, dato che nei documenti consultati, non è specificato il motivo per cui i tedeschi ricorrano a questa misura nei suoi confronti) essere stata determinata da un suo comportamento giudicato pericoloso dalla SS.
Con il passare degli anni è sempre più difficile rinvenire notizie certe sulle storie dei deportati nei Campi di sterminio nazisti, tra cui i molti IMI catturati dai tedeschi dopo l’8 Settembre del 1943. Sul sito dell’Associazione Nazionale ex Deportati nei Campi nazisti (ANED), Italo Tibaldi – ex deportato sopravvissuto e che fino alla sua morte, avvenuta nel 2010, si è dedicato a ricerche storiche sui deportati italiani – scrive, tra l’altro, riguardo il “Trasporto” dei militari italiani da Peschiera del Garda a Dachau, identificato come “Trasporto Tibaldi 2”:
«[…] Dal 22 settembre al 28 novembre 1943 a questo gruppo di militari fu attribuita la qualifica di “Schutzhäftling” (“Internato per misure precauzionali o di sicurezza”) e fu loro assegnato il triangolo rosso. Dal 29 novembre 1943 fino alla liberazione, tale qualifica fu mutata in quella di “Arbeitszwang Reich” (“Detenuto asociale assegnato a lavoro forzato nel Reich”), con attribuzione del triangolo nero. Tale variazione di qualifica avvenne per iniziativa delle SS, indipendentemente dalle motivazioni che avevano condotto alla deportazione.».
Tibaldi, nel prosieguo della Ricerca, si chiede il perché del comportamento “anomalo” delle SS, riguardo questo particolare gruppo di prigionieri e non trova una risposta. Una risposta plausibile a questo interrogativo la dà, invece, Brunello Mantelli altro Storico italiano che si è più volte occupato delle vicende legate alla deportazione dall’Italia alla Germania. Nel suo Saggio dal titolo “Deportazione dall’Italia”, Mantelli scrive al riguardo: «[…] con il trasporto del 20 settembre vennero trasferiti a Dachau, per disposizione delle autorità militari di occupazione, circa millenovecento militari detenuti nel carcere militare di Peschiera del Garda. Tra essi, oltre a persone accusate di reati comuni, c’erano antifascisti noti che avevano rifiutato di servire in armi la causa del regime.» «Trattandosi però di carcerati, essi furono presi in carico, dal punto di vista burocratico, non dalla branca politica della Sipo-SD (cioè dalla Gestapo), ma da quella che si occupava di reati comuni (la Kriminalpolizei, abbreviata Kripo)”.». «Per tale motivo a Dachau, dopo essere stati inizialmente (dal 22 settembre al 28 novembre) classificati come Schutzhäftlinge (cioè politici, e quindi segnalati da un triangolo rosso cucito sulla divisa di tela a righe), vennero considerati “asociali” (ed inseriti perciò nel gruppo Arbeitszwang Reich, che definiva gli assegnati al KL per “devianza” sociale) e venne loro attribuito quindi un triangolo nero.».
La domanda di Tibaldi e la spiegazione di Mantelli possono apparire estremamente specialistiche, ma va ricordato che la vita o la morte di un deportato poteva dipendere anche dalla classificazione che gli veniva attribuita all’ingresso nel Lager. Turchetti non resterà a Dachau fino alla liberazione del Campo, avvenuta il 29 Aprile del 1945 ad opera dei soldati della 42^ e 45^ Divisione di fanteria USA. Come abbiamo scritto in precedenza – tra il 15 ed il 18 Gennaio del 1945 – verrà infatti trasferito a Sachsenhausen. Quando poi – il 6 Marzo del 1945 – entrerà nel Campo di Buchenwald, a seguito dell’ennesimo trasferimento, verrà classificato non più come “lavoratore forzato”, ma di nuovo come “politico”. Sulla sua divisa a strisce sarà dunque cucito nuovamente un triangolo rosso con, all’interno, due lettere maiuscole: “IT”, che indicavano la sua nazionalità.
Alcune note su Turchetti – pubblicate nel Volume “Il Libro dei Deportati” – opera importante sulla deportazione dei soldati italiani negli anni 1943-1945, curata da Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia – riportano un suo ulteriore trasferimento a Sachsenhausen «[…] dove arriva il 30 Marzo del 1945.». Questa informazione non è riportata sulla Scheda del Servizio Ricerche della Croce Rossa Internazionale, che si ferma alla data del 28 Marzo del 1945.
Poiché la maggior parte della documentazione di quel periodo è stata distrutta dai nazisti in fuga (da qui l’estrema difficoltà di ricostruire quei momenti), non si è potuto appurare con precisione il luogo, la data ed il motivo della morte di Teofrasto Turchetti. Si può solo ragionevolmente presumere che a stroncarlo siano state la “vita” da internato, lo sfinimento da lavoro coatto o le marce (spesso forzate) che dovette – certo – sopportare per raggiungere i diversi Lager ei quali veniva, di volta in volta, trasferito.
Oggi – in via dell’Argilla 15, dove Turchetti visse – una “pietra d’inciampo” ricorda ai passanti la storia di questo militare italiano ennesima vittima di una guerra certamente non voluta, ma che i nostri soldati combatterono con spirito di abnegazione e sacrificio. Un piccolo rettangolo di ottone dorato nel quale – quotidianamente – “inciampa” la memoria “distratta” della gente di Borgo e dei molti turisti che lo visitano. Un piccolo segno sul terreno che chiede solo un momento di attenzione e di riflessione sul senso profondo delle parole che porta incise:
«QUI ABITAVA TEOFRASTO TURCHETTI NATO 1921 ARRESTATO COME MILITARE 22.9.1943. DEPORTATO DACHAU SACHSENHAUSEN BUCHENWALD MORTO IN LUOGO IGNOTO IN DATA IGNOTA.»
Nota: la pietra d’inciampo in memoria di Teofrasto Turchetti è stata fatta istallare, nel 2017, dalla nipote Francesca Turchetti. Va ancora ricordato che Teofrasto Turchetti era il cugino di Mario Carucci, abitante in Vicolo del Gelsomino, 61, dove una pietra d’inciampo lo ricorda https://romah24.com/prati/news/a-gregorio-vii-una-pietra-dinciampo-per-ricordare-mario-carucci-ecco-la-sua-storia-2
Carucci, militare paracadutista e Partigiano nella Banda dei Partigiani Piceni, venne catturato dai tedeschi sul Colle San Marco (AP) il 5 Ottobre del 1943 e condotto a Roma. Dopo essere stato torturato, stante il suo netto rifiuto di aderire alla RSI, Carucci verrà fucilato a Forte Bravetta (Roma) il 23 Dicembre del 1943.
(Scheda elaborata da Ugo Fanti sulla base della documentazione in suo possesso).
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