Memoria della palla ovale

Dopo 200 anni dall’invenzione del rugby si è svolta, a Parigi, la finale dei Campionati mondiali 2023 tra Sudafrica e Nuova Zelanda, il replay della mitica finalissima mondiale del 1995.
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini” - 29 Ottobre 2023

“Gli altri Mondiali non contano, perché noi non c’eravamo”, disse il Presidente della Federazione Sudafricana di Rugby, commentando la vittoria del suo Paese nella Terza Edizione del 1995 dei Mondiali di Rugby Gli All Blacks (i neozelandesi) uscirono sdegnati dalla Sala. Si era nel 1995, la finalissima si giocò all’Ellis Park di Johannesburg, davanti a 62.000 spettatori e gli Spring-boks (i sudafricani) la vinsero per 15 a12, ai supplementari. 

Siamo in Inghilterra nel 1823 quando, durante una partita di calcio nell’aristocratico College della città di Rugby (Regione dello Warwickshire) lo studente sedicenne William Webb Ellis fa un gesto che sovverte ogni regola: afferra la palla con le mani, comincia a correre verso la porta avversaria e deposita il pallone a terra. I giornali dell’epoca, scandalizzati, scrivono: “Con un bel disprezzo per le regole del calcio ha preso la palla tra le sue braccia e ci ha corso!”, ma quello scatto in avanti, con la palla sotto il braccio, entra nella Storia. 

College della città di Rugby

La notizia di un nuovo gioco è un passaparola che si propaga ad altre Università della Regione, poi a quelle dell’Intero Regno Unito. Nasce così il “Calcio alla Rugby”, la sua parabola sarà inarrestabile. Per ricondurre le varie versioni sotto uno stesso Protocollo, nel 1871 viene redatto il primo Regolamento scritto e viene fondata la Rugby Football Union (cioè l’Associazione del “Calcio alla Rugby”, dal nome della città resa famosa dal gesto ribelle di Ellis. Così nasce lo sport della palla ovale che oggi conosciamo come Rugby e che porta negli Stadi di mezzo mondo milioni di tifosi, senza che accadano incidenti.

 Perché queste righe? Perché ieri sera, allo Stade De France di Parigi, si è giocata la finalissima dell’Edizione 2023 dei Mondiali di Rugby, finalissima che ha visto, ancora una volta, di fronte gli All Blacks neozelandesi e gli Sping-boks sudafricani. Si è trattato di una sorta di rivincita della mitica finalissima della Terza Edizione dei Mondiali di Rugby del 1995, giocata nello Stadio Ellis Park di Johannesburg e – come avete letto – vinta dai sudafricani per 15 a 12, ai supplementari. 

Quell’anno il Sudafrica – uscito dall’apartheid e avendo come Presidente della Repubblica Nelson Mandela, che durante il regime razzista bianco si era fatto 27 anni di galera – era stato riammesso ai Mondiali di Rugby ed era arrivato alla finalissima contro i neozelandesi che si giocava a Johannesburg, nello Stadio intitolato proprio al 16enne studente ribelle inglese che quel gioco lo aveva inventato.

Nelson Mandela e la sua seconda occasione, ovvero quando la vita ricomincia

  • “Quando finalmente varcai quel cancello per salire a bordo di un’auto dall’altra parte, ebbi la sensazione che nonostante i settantun anni, la mia vita stesse per ricominciare. Mi lasciavo alle spalle diecimila giorni di carcere.”

Così Nelson Mandela  ricorda nella sua autobiografia il momento in cui torna a essere un uomo libero. Sono le 15,00 dell’11 Febbraio 1990, quando Nelson Mandela, Presidente dal 1950 dell’ANC, l’African National Congress, si lascia il carcere alle spalle dopo 27 anni di detenzione. La sostanza di quella lunga battaglia che ha accompagnato gran parte della sua vita e che lo ha condotto in carcere non esaurisce ancora il profilo e il senso del suo impegno pubblico, culminato con gli anni in cui è stato Presidente della Repubblica sudafricana. Nelson Mandela è morto il 5 Dicembre 2013, a Johannesburg, all’età di 95 anni.  

Timbrificio Centocelle

Ci sono fotografie che immortalano eventi sportivi importanti. Due esempi per tutti: la foto dei velocisti neri americani Tommie Smith e John Carlos, arrivati rispettivamente primo e terzo nella finale olimpica dei 200 metri su pista i quali – saliti sul podio di Città del Messico, il 16 Ottobre del ’68, per prendersi, insieme all’australiano Peter Norman, arrivato secondo, le meritate medaglie olimpiche (che poi saranno loro tolte) – alzano al cielo i loro pugni guantati di nero, in segno di lotta e libertà del popolo nero d’America. 

E ancora – sempre in quella Olimpiade messicana – la foto di Richard Douglas (detto Dick) Fosbury, l’inglese che il 20 Ottobre ’68, quattro giorni dopo quel podio “dello scandalo”, si prese l’oro nella finale del salto in alto e rivoluzionò la tecnica di quella specialità sportiva superando l’asticella, posta a 2 metri e 24 centimetri dal suolo, di spalle, anziché di petto (un salto laterale poi paragonato al pensiero altrettanto “laterale”, ovvero quel pensiero che ci permette di risolvere problemi che paiono irrisolvibili, spazzando teorie e idee precostituite che ci bloccano la creatività (copyright dello Psicologo maltese Edward De Bono). 

Si tratta di due momenti immortalati da quelle foto che hanno liberato lo sport dalle catene del razzismo, della segregazione e della normalità e palesato la forza di volontà degli esseri umani gridando, con forza, le parole uguaglianza e autonomia di pensiero. Bene, la foto di Nelson Mandela che, al termine di quella finale del ’95, indossa la maglia numero 6, quella di Joel Stransky che con un drop chilometrico e chirurgico (un drop si esegue calciando il pallone, dopo averlo lasciato rimbalzare a terra, facendolo passare in mezzo ai pali e al di sopra della traversa conquistando così tre punti) aveva propiziato la vittoria dei sudafricani – premia la sua Squadra, ha lo stesso identico valore di quel grido di libertà del ’68 olimpico messicano. 

Ma quella mitica finale riservò altre sorprese agli spettatori e ai giocatori, come il passaggio dell’aereo guidato da Laurie Kay, il Capitano della South African Airways che passò sull’Ellis Park, pochi momenti prima dell’inizio della finale, con dipinta sulla pancia del suo aereo la frase “Good Luck Bokke!”. In campo si vissero cento minuti intesi e battagliati e, per la prima volta in quel gioco, si utilizzarono i tempi supplementari. Fu un incontro che coinvolse non solo i 62mila spettatori presenti allo Stadio di Johannesburg, ma tutti i 43 milioni di bianchi, neri, coloured e indiani che componevano (e ancora compongono) l’arcobaleno del Paese chiamato Sudafrica. 

In realtà, le due Squadre si sono ritrovate di fronte ai Mondiali altre 4 volte, con una vittoria sudafricana (22-18 a Cardiff nella finale per il terzo posto del 1999) e 3 neozelandesi: 29-9 nei quarti in Australia nel 2003, 20-10 a Twickenham nella semifinale del 2015 e 23-13 in Giappone nel 2019 nella fase a gironi. Ma quella del 1995 è stata una finale leggendaria per una serie infinita di motivi, magari a cominciare da come è stata raccontata nello straordinario film Invictus (2009) di Clint Eastwood, con Morgan Freeman nel ruolo di Mandela e Matt Damon in quello di Pienaar, il Capitano della Nazionale sudafricana. Esclusa dalle competizioni ufficiali per via del regime di apartheid, la Nazionale di rugby del Sudafrica fece il suo debutto proprio in quella Terza Edizione dei Mondiali perché, per celebrare la ritrovata democrazia e l’elezione di Mandela a Presidente nel 1994, la Federazione mondiale del Rugby aveva assegnato alla Nazione arcobaleno l’organizzazione di quell’Edizione dei Mondiali.

Dunque, la storia degli incontri di rugby (meglio delle battaglie sul campo con la palla ovale) tra le due Squadre è lunga e ieri sera i francesi – sconsolati per l’eliminazione dai Mondiali 2023 della loro Squadra, (che era tra le favorite per la vittoria – ma non solo loro, hanno assistito ad uno scontro sportivo al cardiopalma finito 12 a 11 per i Sping-boks. Dunque, anche se il punteggio ha mostrato un sostanziale equilibrio tra le due compagini, alla fine i sudafricani l’hanno avuta vinta portandosi a casa la Ellis Cup, dopo avere onorato per 80 minuti lo scontro con i rivali All Blacks e quello sport che ieri compiva 200 anni di vita. (*)

(*) Ad ogni incontro, prima del suo inizio, gli All Blacks neozelandesi eseguono la haka. Si tratta di una danza tipica del popolo Maori, l’etnia originaria della Nuova Zelanda, e la selezione neozelandese ne danza uno stile particolare: si tratta del “Ka Mate”. L’Haka nasce originariamente come danza di guerra ma viene considerata un’espressione di gioia e una manifestazione di libertà: la più famosa (“Ka Mate”) veniva utilizzata fin dalle prime uscite dei nativi neozelandesi del 1888 e il motivo è stato inventato dal capo-tribù Te Rauparaha di Ngāti Toa intorno al 1820, dopo aver vissuto un’esperienza vicina alla morte.

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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