Memoria della “Ratline”
Il soggiorno italiano del "burocrate dello sterminio" (prima dell'Argentina e della cattura)Epilogo di una storia, la cattura
La sera dell’11 Maggio del 1960 un piccolo gruppo di uomini attendeva nervosamente, a bordo di un’automobile nera con targa argentina, parcheggiata lungo Calle Garibaldi, una strada isolata a circa venti chilometri da Buenos Aires. Quando un uomo di circa una cinquantina d’anni, calvo e con un paio di caratteristiche orecchie a punta, scese ad una fermata dell’autobus poco lontana, i quattro uomini uscirono dall’automobile cercando di dissimulare la loro eccitazione. Lentamente si avvicinarono alle spalle dell’uomo e uno di loro attirò la sua attenzione, dicendo al suo indirizzo: «Un rattito, señor». Erano le uniche due parole che conosceva in spagnolo. L’uomo si voltò e prima che potesse rispondere venne immobilizzato al suolo e caricato nell’automobile che partì a tutto gas.
Se un giorno, di sera, a Buenos Aires, anzi Bajres …
Se un giorno, di sera a Buenos Aires, anzi Bajres (come gli argentini amano chiamare la loro Capitale) – prima di quell’11 Maggio del 1960 – vi fosse capitato di incontrare Ricardo Klement, Capo Reparto Saldatura alla Mercedes Benz, d’incontrarlo magari alla fermata dell’autobus che prendeva tutte le sere per tornare nella sua casa in Calle Garibaldi, estrema periferia della città, forse avreste scambiato con lui due parole, durante quei 40 minuti di viaggio. Capita, quando si prende l’autobus sempre alla stessa ora e sempre nello stesso luogo, di incontrare sempre le stesse persone e alla fine di scambiare con loro due parole, anche se non le si conosce. Se questo incontro vi fosse capitato Klement – dopo avervi studiato attentamente con quel suo sguardo da miope, dietro i grossi occhiali neri con le lenti spesse come fondi di bottiglia – pur mantenendo un atteggiamento guardingo, come ormai era sua abitudine da quando, diversi anni prima, aveva messo piede in Argentina – si sarebbe certo presentato così:
- “Il mio nome è Ricardo Klement. È scritto sul cartellino che passo dentro la macchina punzonatrice, prima di superare i tornelli per uscire dalla Fabbrica. Sotto è indicata la mia qualifica: caporeparto saldatura. In alto, invece, la stella a tre punte della Mercedes, l’azienda per cui lavoro. Anche se sono passati anni, ogni volta che timbro l’entrata l’uscita, quel simbolo mi ricorda le stelle gialle a sei punte. Un’altra vita, un altro lavoro”.
Certo, vi sarebbe sembrato un discorso abbastanza normale e tutto sommato sensato e mai, mai e poi mai, nemmeno per un istante, vi avrebbe sfiorato il sospetto di avere parlato con un mostro “in forma di essere umano”.
Nota: nelle righe che avete letto, la parte tra virgolette è tratta dall’incipit del Romanzo di Riccardo Gazzanga “In Forma di Essere Umano, Storia di Adolf Eichmann e dell’uomo che lo catturò”, Rizzoli, 2022.
Un passo indietro, ovvero la storia di una fuga
Così, con quel rapimento riuscito in una strada periferica di Buenos Aires, finisce la carriera assassina e la libertà rubata alla Storia e alla sue vittime di Otto Adolf Eichmann, l’Obersturmbannfuher (Tenente Colonnello) delle SS che nel 1942, il 20 Gennaio, durante una importante Conferenza organizzativa, venne incaricato dai pezzi grossi del Terzo Reich nazista – riuniti in una Villa, situata al civico 56/58 di una Via che si affacciava sul Lago di Wannsee (da cui il nome passato alla Storia di quella Conferenza) – di organizzare la “Soluzione finale del problema ebraico”.
Di quella Conferenza, Otto Adolf Eichmann – che era il Responsabile dell’Ufficio (Referat) IV-B4 della RSHA, la Reichssicherheitshauptamt (Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich), creato nel 1941 e deputato allo studio dell’ebraismo e alla soluzione del “problema ebraico” – fu incaricato di stendere il Verbale che è passato alla Storia come il “Protocollo di Wannsee”.
Nota: oggi quella Villa è una Casa-Museo la cui visita è utile a capire meglio cosa fosse il nazismo e come venne preparato e attuato il tentato sterminio del popolo ebraico. Come quella storia sia finita è ormai noto: quell’uomo – che era arrivato in Argentina nel 1950, proveniente dall’Italia (poi raggiunto dalla moglie e da due dei quattro figli) aveva assunto il nome falso di Ricardo Klement e lavorava come Capo del Reparto Saldatura alla Mercedes Benz di Buenos Aires – era stato catturato da quattro Agenti del Mossad, il Servizio Segreto israeliano e portato in Israele dove era stato processato, condannato a morte e, dopo due anni dalla cattura, impiccato.
Ma non è questa la storia di cui leggerete qui. Quella di cui scrivo è, infatti, un’altra storia, meglio è la “puntata precedente” di questa storiaccia, ovvero quella che riguarda il soggiorno italiano (meglio sud-tirolese) di Eichmann-Klement. Si tratta di una parte poco nota di questa storiaccia, in salsa non solo nazista, e l’occasione per scriverne me la dà il libro di cui oggi vi propongo la lettura. Il libro s’intitola “Preludio e fuga di Ricardo Klement”, lo ha scritto Marco Balestracci, Classe 1962, scrittore, musicista blues, cantastorie e critico musicale, nato in Svizzera, ma da tempo cittadino di Castelfranco Veneto, e lo pubblica le Edizioni Alfabeta Werlac, di Merano (BZ).
“Preludio e fuga di Ricardo Klement” è un Romanzo storico e di questo suo lavoro Balestracci così scrive, nelle Note finali del Volume:
- “uno dei presupposti per scrivere ciò che viene comunemente definito un ‘romanzo storico’ è che l’intelaiatura dei fatti da cui prende spunto il racconto sia, dal punto di vista della veridicità storica, la più precisa possibile, quanto meno sulla base delle fonti disponibili. Nonostante mi sia affidato a testi che alcuni storici di riferimento – Leopold Steurer in particolare, prezioso consigliere durante la stesura di questo libro – considerano fondamentali, per quanto riguarda i temi trattati nel romanzo che avete appena letto, tale intelaiatura è tuttora oggetto di dibattito. Essa rimanda infatti all’inenarrabile abominio della Shoah, il principale argomento sottinteso in queste pagine, intorno al quale non è sempre facile ricostruire un quadro di eventi sulla scorta di prove inequivocabili, nel senso di chiare ammissioni dei responsabili …”.
La Ratline, ovvero cosa c’entrano i topi in questa storiaccia
Prima di entrare nel vivo del racconto, ancora qualche nota di contorno. Il termine “Ratline” (la “via dei topi”) che spesso si trova citato ad indicare la via di fuga dei nazisti verso l‘America Latina (maggiormente verso l’Argentina) è di origine marinaresca e indica la strada, in salita, sulle sartie di una nave, che resta appunto ai topi (ma anche all’equipaggio) per scampare la morte in caso di incendio o di affondamento della nave.
Il termine venne opportunamente utilizzato – non ricordo se dagli Storici o da qualche scrittore di Romanzi – per indicare la Rete che alla fine del Secondo conflitto mondiale i nazisti costituirono – con la complicità del Vaticano (alcune “stazioni di transito,” di questa Rete erano basate nei Conventi e dunque la Ratline si trova spesso indicata anche come la “Via dei Conventi”) della Croce Rossa Internazionale, dell’Argentina di Juan Domingo Peron, militare e per anni Presidente del Paese, nonché politico carismatico e di sicure simpatie naziste, in qualche caso anche dai Servizi Segreti alleati – per permettere ai criminali nazisti scampati alla galera a vita, alla fucilazione e/o ai Processi di Norimberga del 1946-1947, di vivere tranquilli – e in un ambiente confortevole, come fossero ancora in Germania – gli ultimi anni della loro vita da assassini, in attesa della nascita di un da loro desiderato quanto storicamente improbabile “Quarto Reich”.
Argentina, la “Direttiva 11” e i nazisti (ma non solo loro)
Anche se poco se ne parla e scrive, la Storia ci ricorda che già nel 1938, in Argentina, era stata emessa la “Direttiva 11”, Documento governativo, strettamente riservato, telegrafato ai diplomatici argentini di tutto il mondo per ordinare loro di “negare visti, anche turistici e di transito, a tutte le persone sospettate di abbandonare o di aver abbandonato il loro Paese di origine in quanto soggetti indesiderabili o di essere stati espulsi, qualunque ne fosse il motivo.”. Il gruppo di persone a cui la Direttiva faceva riferimento erano – è facile indovinarlo – gli ebrei in fuga dalle Nazioni finite sotto il controllo nazista. Dall’altra parte – è sempre la Storia che ce lo ricorda – c’era, invece, la simpatia del Governo argentino e di Peron per i nazisti (e i loro collaborazionisti di diversi Paesi, tra cui il nostro) in fuga dalla sacrosanta punizione; simpatia dimostrata ampiamente con la piena disponibilità di quel Governo ad accogliere il maggior numero possibile di questi fuggitivi.
A provarlo sta la richiesta – inoltrata al Governo di quel Paese latino- americano, dal Vescovo austriaco Monsignor Alois (o Luigi) Hudal, basato a Roma, presso la Chiesa di Santa Maria dell’Anima (sede della Chiesa Nazionale tedesca in Italia, di cui Hudal era il Rettore), di ben 5mila visti d’entrata nel Paese – come scrisse il Vescovo stesso in una lettera inviata a Peron e datata 31 Agosto 1948 – da utilizzare per “soldati” tedeschi e austriaci che, secondo il sacerdote, non erano nazisti, bensì combattenti anticomunisti il cui “sacrificio” aveva salvato l’Europa dal dominio sovietico. Quella di Hudal fu la singola richiesta di visti d’entrata più ingente mai ricevuta da Peron in quegli anni.
Fu proprio grazie ad uno di questi visti d’entrata e poi ad un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa Internazionale, che sbarcò a Buenos Aires Josef Mengele (il “Dottor Morte” di Auschwitz). Mengele – prima di imbarcarsi a Genova per l’Argentina (e dopo qualche anno raggiungere prima il Paraguay e poi il Brasile, dove morì annegato nel 1979) – aveva vissuto tranquillamente in Alto Adige, grazie ad una carta d’identità – vera ma contraffatta – rilasciata dal Comune di Termeno (Bolzano) e intestata a tale “Helmut Gregor”, “cittadino sudtirolese”, di “professione meccanico”, il tutto con il beneplacito del Vicario pontificio di Bressanone, Monsignor Alois Pompanin. (*)
Lo stesso Comune bolzanino, con il suo Ufficio di Stato Civile, aveva rilasciato un identico documento d’identità – anch’esso falso ma contraffatto – anche a due dei boia nazisti delle Ardeatine, Karl Hass ed Erich Priebke (il cui nome falso era: “Otto Pape”, “lettone” e “direttore d’Albergo”, con doppia residenza, Roma e Bolzano. All’elenco dei nazisti iscritti nelle Liste dello Stato Civile del Comune di Termeno va poi aggiunto proprio Eichmann/Klement che risultava essere “nato a Bolzano” e di “professione tecnico”.
Il Romanzo di Balestracci, ovvero fare luce (o almeno provarci) e Memoria su una storiaccia
Veniamo alla trama del Romanzo. Ricardo Klement è un nome falso, necessario al “burocrate dello sterminio” e architetto della soluzione finale, Otto Adolf Eichmann, per trovare un nascondiglio provvisorio e attendere il momento giusto, quello della fuga. Per salvarsi la pelle ovvero “rinascere” con un’altra identità, però, non serve solo un nome di copertura, ma anche un ambiente in cui potersi mimetizzare, dove, ad esempio, si parli la lingua del fuggitivo: il tedesco. Per questo motivo il Sudtirolo è il luogo ideale.
Serve inoltre una rete di complicità e protezioni, che solo persone che hanno condiviso ideologia e demonizzazione di un unico nemico sanno garantire. E quando queste persone vestono perlopiù l’abito talare, i meccanismi della fuga sono così collaudati che il tentativo ha il successo sperato e si concretizza, non fosse che per un dettaglio: il desiderio irresistibile di sentirsi ancora chiamare col proprio autentico nome, nel nostro caso quello di Adolf Otto Eichmann, Il nome di uno dei più noti criminali nazisti. (**)
Nota finale, ovvero il destino che si fa beffe del fuggitivo – Adolf Eichmann venne scoperto in Argentina grazie al fatto che il figlio ventenne, Klaus, si era innamorato di una ragazza ebrea di 16 anni, residente come la famiglia del criminale nazista a Buenos Aires, alla quale il ragazzo aveva rivelato il suo vero cognome, Eichmann.
Lo ha rivelato un Documentario della Rete televisiva tedesca Ard, basato sulle ricerche della Storica amburghese Bettina Stangneth. Nel 1956 il figlio di Eichmann, Klaus, si era innamorato di Silvia Hermann, il cui padre Lothar era riuscito a scampare alla Shoah dopo essere stato internato per sei mesi nel Campo di Concentramento di Dachau. Nessuno dei due ragazzi conosceva la storia delle rispettive famiglie, così quando Silvia condusse Klaus a casa dei suoi genitori, Lothar Hermann chiese al figlio del criminale nazista che cosa avesse fatto il padre in Germania, durante il nazismo.
- “È stato in guerra ed abbiamo fatto numerosi trasferimenti, abitando per un certo tempo perfino a Praga. Papà diceva che eravamo lì per diffondere nel mondo i valori tedeschi”.
Dopo pranzo Hermann chiese alla figlia come si chiamasse il suo ragazzo, ma dopo aver appreso il nome di Eichmann era rimasto sconvolto. Poco fiducioso nelle autorità argentine, Lothar Hermann aveva scritto al Dr. Fritz Bauer [sulla storia di questo Magistrato vedere il Film “Lo Stato contro Fritz Bayer”, diretto nel 2015 dal regista tedesco Las Kraume] il Procuratore Generale tedesco che stava dando la caccia ai nazisti superstiti.
– “La informo che, secondo le mie informazioni, qui a Buenos Aires vive il criminale nazista Adolf Eichmann”, aveva scritto Hermann, il quale aveva pregato la figlia, che nel frattempo aveva lasciato Klaus Eichmann, a riallacciare i suoi rapporti con il figlio del criminale nazista, in modo da verificarne, con assoluta certezza, l’identità. Da quel momento si era messa in moto la macchina che nel Maggio del 1960 avrebbe permesso la cattura di Eichmann. Per timore di rappresaglie da parte dei nazisti superstiti, Lothar Hermann aveva fatto emigrare nel 1974 la figlia negli Stati Uniti, dove vive tuttora con un’altra identità. Laddove le ricerche degli Storici sono riuscite solo in parte a fare piena chiarezza – lasciando sfumati i contorni di vicende talora incredibili e alimentando ipotesi, congetture e teorie – è la letteratura che prova a fare luce su episodi oscuri e segreti inconfessabili. Per questo il Romanzo di Balestracci richiede una lettura attenta e non episodica e la vale tutta.
(*) Sulla storia di Josef Mengele nel 2013 è uscito il film “The German Doctor”, scritto e diretto da Lucia Puenzo, figlia del regista argentino Luis Puenzo, noto in Italia per il film “La Historia Oficial” (1985) sulla dittatura militare argentina e sul furto dei figli neonati alle madri desaparecide.
(**) Così scrive Marco Ansaldo nel suo “Nazisti in Sud Tirolo, il rifugio delle SS in fuga”, dal Quotidiano La Repubblica del 16 Ottobre 2008: “[…]. “Dopo la disfatta del Terzo Reich, i massimi dirigenti delle SS, e con loro migliaia di criminali nazisti, vennero salvati e ospitati in Sud Tirolo, regione germanofona, a quell’ epoca dotata di un confine poroso e considerata quindi un nascondiglio perfetto, priva di spiccare il balzo con documenti nuovi verso il Sud America attraverso il porto di Genova. A procurare gli incartamenti falsi, e ad assicurare per settimane, talvolta per lunghi mesi, un rifugio sicuro, furono sovente sacerdoti compiacenti con il regime di Hitler. I prelati, dietro lo scudo della Pontificia commissione assistenza profughi creata da Pio XII nel 1944, prima ribattezzarono in chiesa i nazisti sotto nuovi nomi. Poi fecero assegnare loro documenti della Croce Rrossa, capaci di garantire l’espatrio dall’Italia, soprattutto verso l’Argentina, ma anche in Egitto o in Siria. Le rivelazioni provengono da diverse carte ritrovate negli archivi di Bolzano, Merano e Bressanone, oltre che dai registri di molte parrocchie dell’Alto Adige e in alcuni fondi negli Stati Uniti. I documenti inediti sono stati portati alla luce da uno Storico di Innsbruck, Gerald Steinacher, che per cinque anni ha lavorato sulle fonti dirette in Italia, Germania e America, pubblicando per l’editore StudienVerlag un corposo libro uscito in Svizzera e in Austria, intitolato “Nazis auf der Flucht” (Nazisti in fuga). Nel dopoguerra, diversi dirigenti nazisti riuscirono a farla franca portando in salvo le proprie famiglie. E, assieme alla grande e genuina massa di profughi, scapparono anche una serie di personaggi legati al mondo del contrabbando, della prostituzione e dello spionaggio. Per costoro l’importante era assicurarsi una nuova esistenza. E il Sud Tirolo si rivelò in questo caso un territorio ideale. Adolf Eichmann aveva vissuto in Germania, sotto falso nome, fino alla primavera del 1950. Era riuscito a risparmiare abbastanza denaro per la progettata fuga in Sud America. Nella cerchia delle SS era nota la sua possibile via di fuga attraverso l’Italia, e Genova costituiva per tutti, insieme con Trieste, una méta nevralgica prima del salto oltre Europa. Vestito in abiti di montagna, in testa un cappello tirolese col pennacchio, Eichmann passò il Brennero con l’aiuto di traghettatori di frontiera, che lo consegnarono una volta raggiunto il confine al parroco di Sterzing (Vipiteno) il quale lo confortò con del vino tirolese. Il suo prossimo rifugio fu un chiostro dei francescani nella provincia di Bolzano. A Merano ottenne infine documenti falsi, e a Genova, come mostrano i documenti pubblicati in questa pagina, gli venne consegnato in data 1 giugno 1950 il «permesso di libero sbarco».
Josef Mengele, dopo Auschwitz, lavorò in Baviera in un’azienda di materiali agricoli. La domenica di Pasqua del 1949 scattò il suo piano per arrivare in Argentina, dove imperava Peròn e ben disposta verso la Germania. In Italia, Mengele giunse con l’aiuto di due passatori di Merano. Sotto falso nome, si fermò per quattro settimane all’hotel «Goldenes Kreuz» (Croce d’ oro) di Sterzing, fino a quando non fu dotato di un’altra identità, come rivela il certificato N. 100501 del Comitato internazionale della Croce Rossa: «Helmut Gregor, nato a Termeno (Alto Adige), nazionalità italiana, professione meccanico, celibe, indirizzo via Vincenzo Ricci 3 Genova». Incredibile appare oggi il motivo della sua richiesta di viaggio: «Il richiedente è stato prigioniero di guerra – internato – deportato». Erich Priebke, dopo la sconfitta dell’Asse già risultava residente con la famiglia a Sterzing nel 1943. Fu catturato a Bolzano dalle truppe americane nel maggio del 1945, portato ad Afragola e quindi a Rimini. Da lì fuggì, portandosi a Roma dove ebbe contatti con il superiore generale dei padri salvatoriani, Pancratius Pfeiffer, e da Bologna in treno riuscì a tornare a Sterzing sotto la nuova identità di Otto Pape, ottenuta con il rito del battesimo. In molti casi infatti l’aiuto del Vaticano, al cui interno alcuni consideravano i nazisti come i salvatori dal bolscevismo, fu determinante. Dopo il “ribattesimo”, pratica formalmente considerata illegale dalla Chiesa, e l’assegnazione di un nuovo nome, alle ex SS venivano consegnati documenti di espatrio da parte della Croce rossa, che non sempre operava controlli stretti e infine accettava gli incartamenti dotati di identità, dati di nascita, nazionalità e professione. Così accadde per Klaus Barbie, il capo della Gestapo di Lione, divenuto Klaus Altmann, cittadino rumeno. O per Franz Stangl, il boia di Treblinka, fatto «emigrare» in Argentina da «monsignor Luigi», il potente cardinale Alois Hudal.”
Nota finale – Parlando del nostro Paese, fu in Alto Adige invece – lo ricordo per completezza d’informazione – che venne rintracciato e ucciso il fascista repubblichino, Mario Carità, Sergente dell’Esercito che si era autonominato Maggiore. Fondatore della Banda fascista che portava il suo nome, una delle Squadre autonome di Polizia della RSI, Carità opera a Firenze. Poi, sempre a Firenze, è a capo del Reparto Servizi Speciali e poi dell’Ufficio Investigativo II. Trasferitosi successivamente nel Veneto e a Padova, continua la sua carriera di torturatore e assassino.
Al momento della caduta della Repubblica Sociale Italiana, Carità sparisce, ma nel mese di Maggio del 1945, i militari statunitensi lo trovano entrando armi alla mano nella stanza di una Pensione dell’Alpe di Siusi, in Alto Adige, dove il “Maggiore” crede di essere al sicuro. Al momento dell’irruzione è a letto con l’amante; appena vede le divise alleate afferra la pistola che ha a portata di mano e spara. Nel conflitto a fuoco Carità riesce ad uccidere un soldato americano, ma infine muore colpito da una sventagliata di mitra, mentre la donna che è con lui viene ferita e dopo essere stata medicata viene condotta nel Campo di concentramento americano di Coltano.(Pisa).
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”
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