Memoria della Shoah
Per conoscere la differenza tra "Olocausto" e "Shoah", vedi alla voce "Resistenza"“Compagno Pablo Neruda, Presente!”
Il 23 Settembre del 1973 muore, a Santiago del Cile, Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto. Nato a Parral, in Cile, nel 1904, durante la guerra civile spagnola aveva parteggiato per la Repubblica Spagnola e dopo l’assassinio di Federico Garcia Lorca da parte di falangisti si era iscritto al Partito Comunista cileno, ricoprendo diversi incarichi politici e diplomatici. Neruda muore esattamente 12 giorni dopo il Colpo di Stato della Giunta militare guidata dal Generale Augusto Pinochet, al tempo Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. In Cile, in quei giorni, c’è lo stato d’assedio, ma quel 23 Settembre, sfidando il divieto di assembramento e manifestazione, diverse migliaia di persone accompagnano il feretro di Neruda al Cimitero della città al grido di “Compagno Pablo Neruda, Presente!”.
Spesso quando si legge del tentato sterminio del popolo ebraico per indicarlo si trova il termine “Olocausto”, termine che è ancora comunemente usato, anche se, per il suo reale significato può trarre in inganno rispetto alla realtà effettuale delle cose. Mi spiego; “olocausto” è parola che deriva dal greco (e poi dal latino) e vuol dire “tutto bruciato”, ma traduce anche un termine biblico legato alla sfera dei sacrifici cruenti di animali. Con tale termine si indica, infatti, in lingua greca il sacrificio ebraico detto ‘olah, (innalzamento), un sacrificio nel quale, appunto viene “tutto bruciato”, questo perché Il fumo che sale “è odore gradito al Signore”.
Quando questo termine viene accostato al tentato genocidio del popolo ebraico, per indicarlo, può indurre a credere che gli ebrei andassero passivamente al macello, quasi come se la loro fine fosse cosa scritta nel destino e, come tale, ineluttabile, mentre la Storia degli anni tragici della Seconda Guerra Mondiale racconta, concretamente, che così non fu e sotto riporto alcuni esempi che corroborano questa mia affermazione (ai quali vanno aggiunti i numerosi esempi nei quali uomini e donne ebrei / ebree si sono battuti / battute nella Resistenza antinazifascista in diversi Paesi europei occupati dai nazisti, compreso il nostro e per quella lotta hanno dato la vita).
Nascita del termine “genocidio”
Il termine giuridico “genocidio” (dal greco genos, razza, stirpe e dal latino cidere, uccidere) fu invece coniato dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin nel 1944 e con esso si intende: “ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
(a) uccisione di membri del gruppo; (b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; (d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.”
Come tale venne definito crimine internazionale il 9 Dicembre 1948, con l’approvazione da parte delle Nazioni Unite della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio (efficace dal 12 Gennaio 1951)
Ma da qualche decennio – per lo più nei Paesi di tradizione non anglosassone – è invalso l’uso di utilizzare un termine ebraico, ritenuto più pertinente. Il termine “Shoah”. Traducibile con “Distruzione totale” questo termine veicola, nel lessico biblico, diversi significati legati all’idea di distruzione. Esso è certamente più neutro, meno connotato in senso religioso e dunque meglio rende palese il tentativo di sterminio di quel popolo, non implicando atteggiamenti passivi e/o rinunciatari.
Come ho anticipato, sotto trovate alcune righe di Storia su tre episodi di rivolta antinaziste, organizzati e condotti, nei Campi di Sterminio di Auschwitz, Treblinka e Sobibor, dai deportati che erano stati li ammassati per essere sterminati. Il pezzo è tratto dal Sito Web “Scuola e Memoria”.
Treblinka, Sobibor, Auschwitz: le rivolte ebraiche nei Campi di sterminio
Il 2 agosto 1943 i prigionieri del lager di Treblinka insorgono contro i nazisti: è la prima delle grandi rivolte ebraiche all’interno di un campo di sterminio. Nei mesi successivi anche i prigionieri di Sobibor e Auschwitz combatteranno per salvare la propria vita e per fermare la macchina della morte nazista. La Resistenza ebraica contro il nazifascismo non si organizzò solo nei ghetti cittadini e nelle formazioni partigiane, ma anche all’interno dei lager. In decine di campi di concentramento e di lavoro forzato prigionieri ebrei si unirono in gruppi clandestini per mettere in atto rivolte e organizzare tentativi di fuga. Tre grandi sollevazioni ebbero luogo anche nei campi di sterminio di Treblinka, Sobibor e Auschwitz. Furono rivolte nate per salvare le proprie vite e quelle dei propri compagni che non potevano combattere, ma anche una forma di resistenza individuale e collettiva. Gli insorti non accettarono più di attendere passivamente la morte ma scelsero di opporvisi.
La prima grande rivolta all’interno di un campo di sterminio scoppiò a Treblinka. Qui, dai primi mesi del 1943, uomini e donne che erano stati “selezionati” per il lavoro forzato crearono un’organizzazione clandestina di resistenza per mettere in atto una sommossa che permettesse la fuga dei prigionieri. Il gruppo era guidato da un ex capitano dell’esercito polacco, Julian Chorazycki, e comprendeva altri prigionieri con competenze militari, come i cecoslovacchi Rudolf Masarek e Zelomir Bloch, così come numerosi civili, tra i quali un ruolo di primo piano ebbe la dottoressa Irena Lewkowska.
Dopo mesi di preparativi, il 2 agosto 1943 il gruppo passò all’azione impossessandosi delle armi leggere custodite in un deposito e poi appiccando il fuoco a numerosi edifici. Centinaia di prigionieri, sfidando il fuoco dei mitragliatori, assaltarono allora il cancello principale per forzarne l’apertura. La maggior parte degli insorti morì durante la rivolta, ma circa 300 riuscirono a fuggire. Immediatamente partì la caccia all’uomo da parte dei militari nazisti e più della metà dei fuggitivi venne presto ricatturata e uccisa. Solo pochi, quindi, aiutati dalle formazioni partigiane polacche o da semplici contadini dei villaggi vicini, riuscì a salvarsi. E’ grazie alle testimonianze di questi superstiti che il mondo ha potuto conoscere a pieno l’orrore del campo di Treblinka e la storia della rivolta: i gerarchi nazisti, infatti, poco dopo la sommossa dei prigionieri, decisero lo smantellamento del lager e cercarono di occultare le prove dello sterminio di circa 900mila ebrei che vi era stato consumato.
Pochi mesi dopo Treblinka, furono i prigionieri del campo di sterminio di Sobibor a insorgere. Il 14 ottobre 1943 il gruppo clandestino creato dal polacco Leon Feldhendler, ex membro del consiglio ebraico di Zolkiewka, e poi guidato dall’ufficiale sovietico Aleksandr Aronovic Pecerskij, dopo settimane di pianificazione, passò all’azione. Nonostante dubbi e paure, Pecerskij, arrivato a metà settembre nel lager insieme ad altri soldati sovietici ebrei, aveva convinto i membri dell’organizzazione clandestina che non era possibile continuare ad aspettare la liberazione da parte di eserciti o formazioni partigiane:
– “Se vogliamo che qualcosa avvenga – disse, come riportano le testimonianze di quei giorni – dobbiamo farlo noi”. La formazione militare di Pecerskij fu di importanza fondamentale per portare a termine la rivolta. L’azione partì con la preliminare, ingegnosa quanto rischiosa, eliminazione singola degli ufficiali delle SS e fu seguita dall’assalto all’arsenale del campo per procurarsi le armi e combattere contro la guardie per aprirsi la strada verso la fuga. Fu una vera e propria battaglia campale, con numerose vittime tra i nazisti e i loro collaboratori polacchi e ancor di più tra i rivoltosi. Circa seicento prigionieri riuscirono a scappare, la metà però fu catturata e uccisa poco dopo la fuga. Molti altri morirono prima della fine della guerra, ma 42 dei ribelli riuscirono a sopravvivere alla Shoah: tra questi anche Pecerskij, che subito dopo la fuga riprese le armi all’interno dei gruppi partigiani per continuare la lotta contro il nazifascismo. Dopo la rivolta, il lager, gravemente danneggiato nelle sue strutture, fu abbandonato e demolito dai nazisti, che anche qui cercarono di occultare le prove dello sterminio.
Nel lager di Auschwitz-Birkenau, il più grande dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, furono attivi diversi gruppi clandestini di resistenza, sia ebraici sia comprendenti diverse “categorie” di prigionieri. Numerosi atti di eroismo riuscirono a concludersi con la fuga di oltre cento tra gli internati che erano stati “selezionati” per il lavoro forzato.
Quello che avvenne il 14 ottobre 1944 fu, però, diverso: centinaia di Sonderkommando, gli ebrei costretti a rimuovere i corpi dalle camere a gas e a incenerirne i resti, si sollevarono attaccando le SS con pietre e bastoni e dettero fuoco a una struttura utilizzata per le uccisioni con il gas e al crematorio IV al quale erano addetti. Gli insorti si impossessarono poi dell’esplosivo che alcune donne ebree, addette al lavoro in una vicina fabbrica di armi, erano riuscite a trafugare e portare all’interno del lager. Fu una rivolta non pianificata, scoppiata dopo che era iniziata a circolare la notizia che numerosi tra i Sonderkommando sarebbero stati “trasferiti”, tragico eufemismo utilizzato dai nazisti per indicare l’uccisione degli ebrei utilizzati per i lavori forzati. La sommossa nel crematorio IV accese però la scintilla di un’ulteriore sollevazione tra gli addetti al lavoro forzato nel crematorio II, che portò alla fuga di molti di questi. I nazisti, per quanto inizialmente presi alla sprovvista dall’insurrezione , ebbero però presto la meglio sulla rivolta, e chi era riuscito a scappare fu rintracciato e ucciso.
Quella di Auschwitz fu l’ultima delle grandi rivolte nei campi di sterminio. L’avanzata delle forze sovietiche e anglo-americane avrebbe liberato i lager nei mesi successivi, salvando i pochi prigionieri ancora vivi.
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”