

Marzo 2005, in un Liceo del Minnesota va in scena una sparatoria che causa la morte di quattro persone, due studenti (fratelli) e due Insegnanti; sparatoria per la quale sarà incriminato uno studente 17enne dello stesso Liceo. Le cronache dagli USA ci hanno purtroppo abituato a questi eventi tragici. Ma questo ha una particolarità: il Liceo nel quale si è avuta la sparatoria si trova nella Riserva Indiana del Lago Rosso, il Red Lake. La abitano i nativi americani della Tribù dei Chippewa.
I Chippewa sono i pellerossa più poveri tra i nativi americani, che certo non nuotano nell’oro. Quasi il 40% dei componenti della loro Tribù vive al di sotto della soglia di povertà. La loro terra è così lontana dalle principali città che sono rimasti tagliati fuori anche dal boom dei Casinò, che ha arricchito molti altri pellerossa negli Usa.
Gli indiani Chippewa del Minnesota sono un popolo con poche fortune. La Tribù conta circa 9.400 anime, di cui 5mila vivono all’interno della Riserva del Red Lake, situata nel Nord del Minnesota, poche decine di chilometri a Sud del confine con il Canada. Conosciuti anche come Ojibwe, gli indiani Chippewa sono migrati verso il Lago Rosso dalla Regione dei Grandi Laghi intorno al 1750, andando a riempire un’area lasciata libera da una grande Tribù indiana nel suo spostamento verso Sud (e verso i tragici scontri con i “visi pallidi” dei nostri film giovanili): i Sioux.
Diversamente da loro i Chippewa scelsero la strada di una convivenza il più possibile pacifica con i bianchi, in un’epoca in cui Tribù come i Cheyenne e i Sioux, nelle distese oggi occupate dai due stati del Dakota e dal Montana, davano vita a ripetute guerre con l’Esercito americano (le “Giacche Blu”). Varie Società, che gestivano il commercio delle pellicce, crearono avamposti nell’area dei Chippewa e il Governo federale aiutò il loro insediamento con Scuole, Ospedali e Uffici pubblici, per ripagarli della loro scelta di convivenza pacifica. Nel 1842 arrivarono nell’area anche missionari cristiani, che convertirono parte della popolazione e crearono la missione di St.Mary, ancora oggi una delle pochissime attrazioni della Red Lake Indian Reservation.
Oggi, la situazione dei Chippewa non è più così rosea e loro si battono, quasi in solitudine e fin dagli anni ’50, contro il proposito governativo – strappando gli antichi Trattati – di riappropriarsi del terreno della loro Riserva, proposito definito come “Cessazione”: (leggi denuncia unilaterale di quei Trattati, da parte dello Stato dei bianchi); “Cessazione” dei “buoni propositi” bianchi verso i pellerossa (meglio nativi americani); “Cessazione” dei loro diritti e della “convivenza pacifica” di cui è intrisa la loro Storia.
Ho scritto “quasi da soli” perché alla battaglia per il diritto alla loro vita, alla loro terra e alla loro cultura originaria, si è unita, da tempo (meglio da sempre) una scrittrice e poetessa famosa. Si tratta di Louise Erdrich che si potrebbe definire una mezzo sangue, essendo di padre tedesco americano e di madre Chippewa. Cresciuta nella Red River Valley, la Erdrich – che fa parte della Turtle Muntain Band dei Chippawa e che per questo suo essere parte della lotta per i diritti di quel popolo ha soggiornato per qualche tempo in carcere – è una scrittrice prolifica quanto versatile. Scrive, infatti, libri per ragazzi, Poesie e Romanzi.
Con uno di questi ultimi, La Casa Tonda (in Italia per i tipi della Feltrinelli) ha vinto, nel 2012, il National Boock Award mentre, nel 2021, si è aggiudicata il Premio Pulitzer con Il Guardiano Notturno (in Italia sempre per la Feltrinelli). Ora, la Erdrich arriva di nuovo in Libreria con L’anno che bruciammo i fantasmi, Feltrinelli, 2023. Il Romanzo è ambientato in una Libreria di Minneapolis (che somiglia molto a quella che la scrittrice gestisce in quella città) e in esso la Erdrich torna ai temi a lei familiari (la vita e la lotta dei Chippewa) con però, una novità: l’immersione della storia del Romanzo nella realtà attuale, dal Covid alla morte di George Floyd e alle proteste che ne sono seguite.
Nella primavera del 2020, mentre il mondo è in lockdown e Minneapolis vive giornate di rabbia e guerriglia urbana a seguito dell’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto bianco, la protagonista Tookie, una donna di mezza età con un passato difficile e turbolento, si ritrova a fare i conti con l’inopinato ritorno sotto forma di spettro di una petulante cliente della libreria in cui lavora, morta di infarto poco prima. Mentre la tensione cresce in parallelo nelle strade della città così come nell’animo e nella vita personale della protagonista, Tookie scoprirà qualcosa su di sé e sulla propria storia che nella sua infanzia defraudata era andato smarrito. Un romanzo spiazzante e avvincente che impasta, fra lampi di black humour, ironia e abbacinanti sprazzi poetici, il tema della cultura tradizionale degli indiani d’America e quello dei diritti delle minoranze etniche, demolendo sistematicamente i luoghi comuni che dominano l’immaginario collettivo sui popoli nativi, cantando la passione e l’amore per la letteratura. Perché i libri, dice la Erdrich (che nella trama si riserva un sorprendente cameo) contengono tutto ciò che vale la pena di sapere, tranne ciò che conta veramente. Fonte: www.feltrinelli.it)
Dunque, qualche pagina sulla Storia colpevolmente “dimenticata” dei nativi americani, alle prese non solo con questa “dimenticanza” dei bianchi (per loro foriera di discriminazione ed emarginazione sociale) ma anche con una realtà, dura per tutti ma maggiormente per gli ultimi della terra, come loro sono sempre stati considerati.
Dunque, un Romanzo da leggere tutto d’un fiato dove, come ha scritto la Rivista Letteraria del New York Times: «L’arguzia giocosa e lo stile disinvolto della Erdrich sono smentiti dalla serietà degli intenti, che nel caso di questo romanzo riuscito, comportano affrontare la pandemia, la morte di George Floyd, le tribolazioni che vengono dall’aver passato del tempo in carcere e, non da ultimo, il potere dei libri di cambiare la vita.».
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”
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