Milan Kundera, tutt’altro che leggera la sua scrittura
Con Milan Kundera se n’è andato lo scrittore che ha connotato sicuramente una generazione, la mia, iniziata a datare dall’inizio del decennio che copre tutti gli anni “40 del secolo scorso.
In molti in Italia hanno letto il romanzo di Milan Kundera, pubblicato da Adelphi nel 1985 e divenuto subito un successo editoriale, ma quasi sempre con scarso interesse, spinti dal passa parola di qualche amico. C’è chi l’ha snobbato qualificando l’autore un radical chic ceco-francese, contro il comunismo russo che ha bruciato, insieme a Jan Palach, il sogno di libertà in Cecoslovacchia; e chi lo ha amato proprio per quel romanzo, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, letto tuttavia da molti, senza soffermarsi né sulla sua scrittura innovativa, né sui risvolti nascosti tra le pieghe del racconto.
Nel suo “Lezioni Americane”, Italo Calvino lo prende ad esempio come romanzo che, nascondendosi dietro un discorso sulla leggerezza, ha come vera essenza la dimostrazione di quanto siamo schiacciati dalla pesantezza del vivere. Con poche parole, lo scrittore, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, ne riassume il messaggio.
C’è infine chi lo ha rifiutato aprioristicamente, innamorato di una scrittura stereotipa e avverso a qualunque innovazione stilistica nel descrivere una morale da tempo sulla via di quel cambiamento irreversibile che oggi mi appare sull’orlo di un baratro, nella speranza di sbagliami, abbarbicato al convincimento di mio padre, uditolo più volte dichiarare che ogni generazione è migliore della precedente.
Personalmente, di tutti i suoi romanzi sono stato immediatamente affascinato da “L’Immortalità”, dove affronta il vizio, comune a molti mediocri sotto diversi aspetti, che non si trattengono dal salire, in qualsiasi modo, sul carro di un Grande, pur di passare alla storia con lui, magari per avergli spedito una cartolina di saluti, ritrovata poi da qualche storico e riportata in qualche saggio sul Maestro con la risposta al mittente, dove gli stroncava, con sentenza inappellabile, il manoscritto o spartito di musica ricevuto. Eppure, con la citazione del suo nome e la valutazione negativa sul suo lavoro, testimoniante l’effimero rapporto epistolare mantenuto col Grande, il mediocre si illude di essersi guadagnato l’immortalità passando in tal modo alla storia. Esempi sull’argomento ne esistono in abbondanza e sarebbe troppo lungo e inutile riportarne qualcuno. Se interessati, leggetevi il libro.
Infine chiudo questo mini coccodrillo, ricordando l’autore scomparso due giorni fa, più volte candidato al Nobel, con la battuta rilasciata scherzosamente da Diego Abatantuono, ormai da diversi anni. Durante un’intervista dove gli chiedevano che cosa pensasse di Milan Kundera, rispose:
“Mo guarda: sai la fede che porto a la mia squadra del cuore, ma io questa partita qua, Milan-Kundera, sai che no la ricordo mica?”
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Caro Ettore come sempre dimostri brio, acutezza e vivacità in ogni commento o riflessione che fai, riuscendo ad esprimere sempre opinioni ponderate con fondati giudizi critici.