Non è un Romanzo di Salgari
Carlo Greppi narra la Resistenza vista da un ragazzo per i nostri ragazzi“Nostra patria è il mondo intero / nostra legge è la libertà / ed un pensiero … ed un pensiero / Nostra patria è il mondo intero / nostra legge è la libertà /ed un pensiero ribelle in cor ci sta //.” (“Stornelli D’esilio, o “Nostra Patria è il mondo intero”, Pietro Gori, 1895).
I versi che avete letto sopra sono di un noto Canto anarchico della fine del 1800, ma avrebbero benissimo potuto essere intonati dai primi civili e militari sbandati che – dopo l’8 Settembre del 1943 – salirono in montagna o presero le armi in città come Roma, per contrastare i tedeschi che avevano occupato il Paese con l’”Aktion Alarich”.
Li chiameranno “Banditi” o “Ribelli” e loro ne saranno fieri e quegli appellativi infamanti li faranno propri, con orgoglio, trasformandoli in aggettivi positivi. tanto che un Canto Partigiano del 1944 “Dalle Belle Città” (“Siamo, i Ribelli della Montagna”) – scritto da due partigiani combattenti Emilio Casalini (Cini) e Angelo Rossi (Lanfranco) – dichiarerà: “Siamo i Ribelli della Montagna / Viviam di stenti e di patimenti / Ma quella fede che ci accompagna / Sarà la legge dell’Avvenir //”. (*)
“Achtung Banditen!”
Così recitava il cartello che i tedeschi posizionavano nelle zone “infestate” dai Partigiani. Quel cartello era come un paletto di confine e nello stesso tempo era l’immagine grafica della paura che coglieva tedeschi e fascisti alla sua vista. Quelle due parole sono diventate il titolo di un celeberrimo film del 1951, diretto da Carlo Lizzani, che nella Roma occupata era stato Partigiano, e nel quale, tra gli altri, recitava Giuliano Montaldo, anche lui regista e anche lui, nella Roma occupata, Partigiano con Lizzani.
Avevano fazzoletti di colori diversi, ma un unico “pensiero ribelle” nella testa e nel cuore: cacciare i tedeschi e i fascisti e fare dell’Italia liberata un Paese democratico. Erano i Partigiani, quelli che, dopo l’8 Settembre del 1943, non erano più stati a guardare, ma avevano preso le armi contro i nazifascisti ed erano saliti in montagna (ma combattevano anche in città). Non erano solo italiani, ma venivano da tutte le parti del mondo – ché le loro fila furono ingrossate da prigionieri di guerra americani, inglesi e russi, dai Rom e dai Sinti, di cittadinanza italiana e no, e perfino dai tedeschi disertori, che avevano scelto di schierarsi sul versante giusto della Storia. Uomini, donne e ragazzi che avevano deciso di combattere per la libertà di un popolo (il nostro), ma così anche per quella di tutti i popoli oppressi dal fascismo e dal nazismo.
Di loro parla l’ultimo lavoro dello Storico torinese Carlo Greppi. ”I Pirati delle Montagne”, Rizzoli, 2023. Il Racconto di Greppi è romanzato, ma dal suo essere uno Storico puntuale nelle ricostruzioni dei suoi Saggi, ci si aspetta che sia aderente alla realtà effettuale e l’attesa non viene delusa. Il protagonista del Romanzo e i suoi compagni ricordano i tanti ragazzi che hanno combattuto – e sono morti – nelle fila partigiane: Gennarino Capuozzo, a Napoli Ugo Forno, a Roma, Antonio Calvani e Maurizio Cecati, caduti combattendo a Roma negli scontri di Porta San Paolo, Michele Di Veroli, Duilio Cibei, alle Cave Ardeatine nel Marzo del ‘44 e… tanti altri. (**)
“I Pirati delle Montagne”, Rizzoli, 2023, il Romanzo
- Giorgio ha imparato a maneggiare le armi fin da quando è un bambino e, come prevede il regime fascista, è pronto a diventare un Avanguardista non appena compirà quattordici anni. Nel 1943, però, la guerra fino a quel momento esportata dal fascismo varca le montagne e arriva ovunque. Con l’occupazione tedesca e la guerra civile i ragazzi più grandi abbandonano le armi finte della propaganda e imbracciano quelle vere, ma Giorgio è ancora troppo giovane. In fuga dagli spari che invadono la sua casa, sale sulle montagne sopra Framonti, dove Walter e Boris combattono insieme a Gordon, Tony, Ester, Dimitri, Carlos, Ada, Kurt, Jean e gli altri. Sono partigiani. Hanno tra i diciotto e i ventisei anni e vengono da ogni parte del mondo. Sono temuti, rispettati, amati. Un battaglione, un piccolo esercito, nessuna bandiera. Si fanno chiamare I Pirati delle Montagne. Insieme a loro Giorgio, soprannominato Il Mozzo, si sente proprio parte di una ciurma, protagonista di una delle imprese più memorabili che gli potessero capitare: combattere per la libertà. (www.rizzoli.it)
Dunque, un Racconto quello di Greppi attraverso il quale i nostri ragazzi e le nostre ragazze (a partire dagli 11 anni di età) possono apprendere che cosa sia stata la Resistenza, raccontata come un’avventura salgariana, attraverso lo sguardo di un ragazzo di tredici anni. Su questo suo ultimo lavoro, appresso trovate l’intervista che Carlo Greppi ha rilasciato al Sito Web “Leggendo Leggendo”.
(*) “Disertori Sbandati Partigiani”, così s’intitola il Recital che dieci anni fa Marco Rovelli, insieme a Erri De Luca, Wu Ming e Maurizio Maggiani, ha portato in giro per l’Italia per raccontare la Resistenza e chi le diede vita e forza vincente, attraverso ballate popolari, canzoni militanti e testi firmati a più mani.
(**) Occorre ricordare che dopo la guerra – con uno specifico Decreto Legge Luogotenenziale – i 335 martiri della Cave Ardeatine sono stati tutti riconosciuti come Partigiani combattenti.
Lo Storico Carlo Greppi Su “I Pirati delle Montagne” (intervista)
1) A un lettore attento non sfuggirà di certo la particolarità del titolo che mette insieme due scenari di solito contrapposti, il mare e la montagna.
Chi sono, quindi, i Pirati delle Montagne?
Sono partigiani. Ma soprattutto sono dei ventenni: sono ragazzi e ragazze, provenienti da diverse nazioni, che vivono l’avventura più entusiasmante – e impegnativa, e drammatica – che si possa immaginare: la lotta per la libertà. Lo sguardo che ce li racconta è quello di un ragazzino, che come molti di noi è cresciuto con il mito dei pirati, e in qualche modo li vede riflessi tra le montagne della lotta partigiana. In fondo anche loro sono dei fuorilegge, che hanno il sogno di “rifare” il mondo da capo, combattendo come possono contro forze soverchianti e apparentemente invincibili.
2) Tra di loro c’è appunto Giorgio, un ragazzino che ci racconta gli eventi della guerra dal punto di vista di chi non sempre capisce cosa sta succedendo intorno a lui. Come nasce il suo personaggio?
Ho scelto fin da subito di raccontare questa storia un po’ lateralmente, di sbieco, per poterci entrare gradualmente, anche con un po’ di delicatezza, e Giorgio ha preso vita con grande facilità. Naturalmente ci sono due modelli insuperabili che risuonano nella mia memoria da decenni: Pin, che ci guida ne Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, e Janek, il protagonista (con la quasi coetanea Zosia) di Educazione europea di Romain Gary. Forse lo sguardo del ragazzino di ieri aiuta anche quelli e quelle di oggi a prendere familiarità con le ragioni, con le modalità e con il senso profondo di quella lotta. Sebbene Giorgio – detto “Il Mozzo” – abbia solo pochi anni in meno di Walter, Boris, Gordon, Ester e di tutti gli altri, vive una fase della vita decisiva, in ogni tempo e ancor di più ai tempi di quella “guerra alla guerra”. La fase in cui un ragazzino matura, e si fa uomo.
3) I temi del romanzo sono tanti e complessi. Tra questi troviamo l’amore per la libertà, la fiducia in un futuro migliore, l’amicizia e il rispetto per i propri ideali. Secondo te come si potrebbe riflettere su questi temi a scuola oggi?
Credo che nessuno possa saperlo meglio di un docente o di una docente. Sono parallelamente convinto del fatto che la storia sia un bacino inesauribile di storie, per di più vere – documentate, verificabili –, alle quali possiamo ispirarci per affrontare temi come questi. E penso che sia assai prezioso rendersi conto di quanta vita e quante vite ha saputo mettere in gioco quella generazione, ottant’anni fa, per conquistare un futuro di libertà: forse converrebbe partire proprio dal fatto che anche loro erano ragazzi, anche se li vediamo di norma in bianco e nero, con degli ideali magari ancora acerbi, ma capaci di radicarsi in profondità.
4) Giorgio si porta dentro un rancore inguaribile fino all’età adulta e, quando gli si presenta l’occasione di regolare i conti con il passato, fa una scelta ben precisa, perché la guerra gli ha insegnato tanto. Cosa vorresti rimanesse ai ragazzi che leggono questa storia?
Non lo so con esattezza. Rispondo di getto, aggirando il possibile spoiling e mutuando e addolcendo la celebre lettera di Ernesto Guevara ai figli: la capacità di essere radicali, senza mai rinunciare all’umanità.
5) In questo libro la Storia s’intreccia con le storie, quelle dei personaggi, ma anche delle persone, se si pensa alla dedica ai nonni mai conosciuti, Teresa e Giorgio, che danno un nome ai personaggi del libro. Perché, secondo te, è importante trovare sempre nuovi modi di raccontare la Storia e le storie della Resistenza, soprattutto a scuola?
Perché sono trascorsi oltre tre quarti di secolo, e spesso rimaniamo avvinghiati ai grandi classici – e sono insuperabili, come dicevo prima – come Calvino, Fenoglio, Meneghello, Gary, che a loro volta intrecciarono in misura diversa l’esperienza e la realtà – la Storia – con l’invenzione – le storie. Abbiamo, comprensibilmente, un disperato bisogno del loro vocabolario e del loro sguardo, ma parliamo di autori che avevano vissuto quegli anni, e che avevano combattuto personalmente. Si tratta delle storie dei miei nonni, appunto, per la generazione successiva alla mia dei bisnonni, addirittura, e vale solo per i nativi – figli, nipoti e pronipoti di nativi. Bisogna considerare il fatto che, come chi insegna ben sa, un numero crescente di studenti e di studentesse in Italia ha alle spalle altre storie: i genitori o i nonni di milioni di italiani e italiane non sono nati qui. Bisogna ripartire un po’ da capo, dunque, cercando di non dare troppo per scontato, raccontando i tratti universali di questa lotta e allo stesso tempo mostrando i tanti passi fatti dalla ricerca e dagli studi in questi ottant’anni. La storia della Resistenza non è un monolite, ma conoscenza in movimento. E i valori che svela sono quanto di più prezioso esista nella storia del Novecento italiano, per come la vedo io. Anche perché proprio questi studi ci svelano una lotta partigiana molto più plurale di come la immaginavamo, che percorre trasversalmente la società e i confini – simbolici e reali – dell’epoca. Come i pirati che nel Settecento solcavano l’Oceano Atlantico, e che si definivano “gente senza nazione”.
6) Come accennato in precedenza, dietro a questo libro c’è un grande lavoro di ricerca e di studio, che lo rende uno strumento molto utile per integrare quanto già affrontato a scuola. A una/un docente cosa suggeriresti per scegliere il libro come lettura per la classe?
È imbarazzante suggerire il proprio libro come lettura, ma in ogni caso un consiglio lo vorrei dare: parlate ai ragazzi di Resistenza internazionale, uno dei campi di ricerca più entusiasmanti degli ultimi anni e di norma ancora assente dal “canone”. Furono parecchie migliaia, verosimilmente almeno 15-20 mila, i non nativi nella lotta partigiana in Italia, e decine di migliaia di ragazzi dell’epoca combatterono i fascismi non sul suolo del loro paese di provenienza, dall’Etiopia alla Francia, dalla Spagna alla Polonia: pensate che sono 39.353 solo i partigiani combattenti italiani certificati dalla Commissione riconoscimento partigiani italiani all’estero – decine di migliaia combatterono in Francia e in Jugoslavia. Per molti anni questi “partigiani senza nazione” non sono stati visti, raccontati, celebrati – al netto di poche eccezioni. Anche per questo ho voluto inserire una Nota dell’autore piuttosto articolata, alla fine del libro: per dare a chi lo vorrà spunti di lavoro, piste di ricerca, per lasciare la voglia di approfondire ancora. Che è poi la ricchezza inesauribile delle nostre vite: il bisogno di capire, di saperne di più, di farsi sempre domande. Abbattendo, quando possibile, i confini.
Fonte: https://www.leggendoleggendo.it/2023/11/07/la-resistenza-dei-bambini-raccontata-da-carlo-greppi/
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”
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