Quarant’anni fa i sindaci comunisti. La rinascita di Roma
L’arrivo delle giunte di sinistra in una città stremata, urbanisticamente e socialmente divisa. L’opera di Argan, Petroselli e Vetere. Una nuova idea di Roma capitale come questione nazionaleIl 20 e 21 giugno del 1976 si svolsero a Roma, insieme a quelle politiche generali, anche le elezioni amministrative che segnarono una svolta politica. Se a livello nazionale quelle elezioni passarono alla storia come dei “due vincitori”, Dc e Pci, nella Capitale ad uscire vincitore fu solo il partito di Berlinguer che ottenne 676.207 voti e il 35,48%.
La città arrivò al voto con enormi problemi. Due anni prima anche la Chiesa, che per anni aveva sostenuto la Dc, ne aveva preso atto per denunciarli nel famoso convegno sui “mali di Roma” promosso dal Vicariato di monsignor Poletti. Nel trentennio democristiano Roma era cresciuta disordinatamente, la speculazione edilizia aveva diretto quell’espansione. Rendita fondiaria e spesa pubblica derivante dalla presenza della Pubblica Amministrazione dello Stato, erano stati i due motori principali dell’economia cittadina.
Dal punto di vista sociale a farla da padrone nell’Urbe era stato un blocco sociale proprietario-speculativo attorniato da una piccola e media borghesia degli affari e delle professioni con adesioni non secondarie anche tra le fasce più popolari. Sul piano politico era stata la Dc a mediare politicamente questo blocco, prima nell’ambito di alleanze centriste e poi di centro-sinistra. I pilastri di questa mediazione affondavano sul piano economico nelle politiche clientelari del partito democristiano cui si erano, nel loro piccolo, acconciati anche gli alleati minori e, con qualche iniziale resistenza riformatrice, anche il Psi romano. Sul piano politico e culturale era la Chiesa a fornire alla Dc il maggior consenso popolare, tramite la fitta presenza delle parrocchie e delle loro molteplici attività assistenziali e ricreative.
Ma quel blocco sociale e quella dominanza politica Dc e del centro-sinistra erano già stati scossi l’anno prima nella tornata delle elezioni regionali che aveva visto il balzo in avanti dell’opposizione comunista e la conquista della Regione da parte del Pci, divenuto a Roma il primo partito. L’allora segretario della Federazione comunista romana, Petroselli, che poi diverrà un grande sindaco, poté affermare con orgogliosa ragione, per dare la misura del successo comunista in una piazza San Giovanni straripante di bandiere rosse e di folla festante per la vittoria, che nella consultazione regionale in nessuna borgata di Roma il suo partito era sotto del 50% dei voti validi. L’anno successivo il successo si ripeté ancor più estesamente.
La Roma che arrivava al cambio di governo era una città stremata, soffocata da questioni economiche e sociali di prima grandezza. Le ricordò qualche anno dopo il giornalista Andrea Barbato in Parlamento alla Camera: quattromila miliardi di lire il deficit di bilancio; ventimila famiglie nei borghetti di catapecchie fatiscenti aggrappate agli antichi acquedotti o alle massicciate ferroviarie; settantamila famiglie in coabitazione; novecentomila abitanti in borgate abusive senza fogne, luce e acqua. Una vera e propria città illegale. Roma era stata “abbandonata – disse Barbato – al saccheggio e agli interessi privati della speculazione fondiaria; con l’assenza di qualsiasi politica culturale in un deserto urbanistico”.
Le classi popolari al governo di Roma
La città, però, non era stremata nell’animo. Quello che si affacciava al governo dell’urbe non era un semplice nuovo schieramento elettorale, una nuova formula di governo, ma un nuovo blocco sociale e politico che faceva perno sulle forze lavoratrici. Un blocco che, da una parte, includeva fasce estese di piccola e media borghesia progressista e d’intellettualità, e, dall’altra, piccoli artigiani e commercianti e fasce di popolo minuto definito, all’epoca, come il sottoproletariato dei borghetti e delle borgate di periferia che viveva di espedienti e di lavori occasionali.
Questo blocco sociale nuovo affondava le sue radici nella stagione della Resistenza e si era andato costruendo con lotte sindacali e politiche di più varia natura nel corso del trentennio dominato dalla Dc. Le lotte per il lavoro, per la casa, per i servizi nei quartieri di periferia edificati dalla più sfrenata speculazione edilizia e nelle borgate; le lotte per i trasporti, per le scuole, per i permessi di residenza agli immigrati dalle altre regioni; le lotte per la democrazia contro ogni tentativo autoritario come con “la legge truffa” del ’53 o come nel luglio ’60 a Porta San Paolo contro il governo clerico fascista di Tambroni; le lotte per la pace, contro il pericolo atomico, per la libertà dei popoli aggrediti dall’imperialismo e contro i regimi fascisti che continuavano a persistere in Europa, in Spagna, Portogallo e Grecia. Lo schieramento popolare, che nei comunisti romani aveva la sua punta avanzata, era una compagine colta, con gli occhi aperti sul mondo capace di tenere insieme le questioni più alte come la pace e la democrazia con quelle più immediate del vivere quotidiano: dal salario ai servizi.
Una compagine fittamente intessuta di organizzazioni popolari che, insieme e in autonomia dall’organizzazione dei partiti di sinistra, facevano vivere la democrazia partecipata: dalle consulte popolari alle organizzazioni degli inquilini (Unia e Sunia), dai comitati di borgata (Unione borgate) a quelli di quartiere, dai gruppi sportivi (Uisp) alle associazioni e ai circoli culturali. E poi sui posti di lavoro il sindacato unitario della Cgil. I comunisti romani traevano da questa partecipazione popolare, abituata a fare politica nel territorio e sui lughi di lavoro con le lotte e l’iniziativa politica, i quadri e i dirigenti politici e anche la propria rappresentanza nelle istituzioni: Comune, Circoscrizioni, Provincia, Regione, Parlamento.
La città, dunque, nel momento della sua massima crisi poteva contare su energie popolari e competenze intellettuali, si pensi al sindaco Argan, che seppero farsi valere e che misero subito mano con dedizione ai problemi conducendo con successo in poco tempo un’azione di risanamento urbano e sociale che diede o avviò a soluzione i problemi ricordati da Barbato. Ma mentre si risanava si aveva ben presente che bisognava indicare una prospettiva nuova di sviluppo alla città. I dirigenti del Pci romano erano ben consapevoli che, come ebbe a dire Quintino Sella, “A Roma non si può stare senza avere un‘idea universale”. Lo statista risorgimentale piemontese pensava a una “Terza Roma” dopo quella antica e imperiale e quella cristiana. Una Roma città laica e della scienza, nell’aura del positivismo allora prevalente. I comunisti romani guardavano intanto alla funzione di Roma come capitale della Repubblica fondata sul lavoro e come capitale universale di pace, punto di congiunzione e di comprensione fra est e ovest fra nord e sud del mondo che nel Mediterraneo avevano uno dei punti d’incontro geopolitici e religiosi fondamentali. Era quella che Petroselli, prima da segretario del partito comunista romano e poi da sindaco, chiamò “una nuova idea di Roma”.
I sindaci comunisti
Il primo sindaco, espresso dal Pci, a farsi carico dell’opera di risanamento fu, come abbiamo detto, Giulio Carlo Argan esimio intellettuale piemontese, critico d’arte e docente universitario di fama, eletto come indipendente nella lista comunista. Tre anni di lavoro intensissimi in una Roma assediata dal terrorismo ma che reagiva con l’invenzione di Nicolini dell’”Estate romana” riportando nelle strade cittadine la gente che i quotidiani attentati terroristici contro forze dell’ordine, magistrati, giornalisti, politici volevano impaurire e rinserrare nelle case. Argan si dimise per ragioni di salute e gli successe Luigi Petroselli. Con lui arrivò un funzionario di partito quando i funzionari e i dirigenti del Pci anche a livello cittadino e perfino di quartiere non erano gente sconosciuta, bensì personaggi popolari e conosciuti all’opinione pubblica e al popolo. A Roma prima di Petroselli chi non conosceva i segretari di federazione come D’Onofrio, Nannuzzi, Bufalini, Trivelli? O consiglieri comunali come Natoli, Maria Michetti, Piero della Seta o senatori come Edoardo Perna o deputati come Claudio Cianca, o dirigenti sindacali come Giunti e Canullo? Per non dire di tanti altri, decine e centinaia di altri.
Dal vestito del funzionario uscì subito la figura di un grande sindaco, ancora oggi rimpianto e ricordato con nostalgia; ma il vestito della sobrietà, del rigore, della dedizione al bene comune rimase lo stesso.
“Giggi”, come lo chiamarono subito amichevolmente i romani, non solo continuò energicamente l’opera di risanamento ma cominciò a impostare il futuro di Roma secondo quell’“idea nuova” che univa la valorizzazione del passato, le giacenze stratificate della città storica, riassumibili nel grande patrimonio culturale e archeologico unico al mondo, al futuro di città capitale della ricerca, della scienza, dell’industria multimediale. Una città che andava urbanisticamente trasformata e non più estesa. Incontrando con questa impostazione la cultura dell’ambientalismo più avanzato, rappresentato da Antonio Cederna allora Presidente della sezione romana di Italia Nostra. Il progetto Fori, la riunificazione dell’area archeologica centrale dal campidoglio al Colosseo, del Foro repubblicano con quelli imperiali e di tutta l’area con il Parco dell’Appia antica, rappresentò emblematicamente questo incontro innovativo ancor oggi attuale.
Petroselli morì improvvisamente, colto da infarto, subito dopo aver riportato al successo il suo partito nelle comunali del 1981 col 36,1%; in controtendenza con l’andamento elettorale nazionale che aveva registrato, dopo la rottura dei governi di solidarietà nazionale, un arretramento elettorale del Pci.
Gli succedette Vetere che dovette fronteggiare una situazione in rapido e negativo mutamento politico e sociale sia sul piano nazionale: governi di pentapartito dominati dal craxismo; sia internazionale: crisi profonda del socialismo realizzato a Est e vittoria del reaganismo e del thatcherismo in Occidente.
Si era già entrati nell’epoca della “rivoluzione neoliberista” che traeva forza dalla rivoluzione tecnologica che andava scomponendo, anche a Roma, il vecchio blocco sociale della sinistra insieme alla demolizione dell’impianto fordista dell’industrialismo.
Nel 1985 le elezioni posero fine ai nove anni delle giunte di sinistra. Non è qui il caso di approfondire i perché di quell’esito. Certamente oltre al mutar del vento politico e sociale contribuirono anche errori, ritardi di analisi e un logoramento della presa sociale dei comunisti romani. Basti pensare a come nelle borgate ex abusive cambiò di segno il voto. Evidentemente la stessa opera di risanamento che aveva reso città quegli agglomerati residenziali aveva altresì prodotto un “cambio proprietario” di quei ceti sociali divenuti percettori di rendita sia pur piccola e periferica. Un cambio sociale che non fu accompagnato da un’adeguata politica volta a ricondurre quel mutamento dentro una prospettiva, anche culturale, di unificazione ulteriore della città sul piano dei servizi e delle funzioni. Per questo lì si è rimasti ancora nella condizione di periferia e non solo per la distanza chilometrica dal centro storico. Oppure, per altri versi, l’errore di continuare la dismissione delle linee tranviarie e segnatamente quelle da Termini verso Cinecittà e Capannelle in concomitanza con l’entrata in funzione della linea A della metropolitana.
Un lascito attuale: la legge su Roma capitale
Quello su cui, invece, è opportuno concentrare l’attenzione è un lascito delle giunte di sinistra che ancora oggi, essendo stato sostanzialmente disatteso anche dalle successive giunte di centrosinistra di Rutelli e Veltroni, mostra la sua validità e di cui sarebbe utile tornare a parlare nell’incipiente campagna elettorale. Si tratta della legge su Roma capitale. Essa fu un prodotto politico lungamente elaborato, che nacque dall’impostazione politica dei comunisti romani e dall’esperienza delle giunte di sinistra dell’epoca. In sostanza il Pci pose la questione di fondo su cui ancora oggi si dibatte la nostra città: Roma in quanto capitale era un problema nazionale dello Stato italiano al quale lo Stato medesimo avrebbe dovuto provvedere o, per meglio dire, concorrere a provvedere. Dopo una lunga gestazione politica, il Consiglio comunale, con Vetere sindaco, arrivò il 12 febbraio del 1984 a votare un documento in proposito.
In aprile i comunisti presentarono alla Camera dei deputati una mozione che ebbe come primo firmatario Enrico Berlinguer che volle così porre l’accento sull’importanza nazionale che alla questione Roma capitale dava il suo partito. Anche altri partiti seguirono i comunisti con altre mozioni: Psi, Psdi, Pri, Pli e Dp. Nel dibattito che ne conseguì, si arrivò ad una mozione unitaria che assumeva l’impianto voluto dai comunisti. Votata a larghissima maggioranza il 6 febbraio dell’anno successivo, ebbe l’appoggio del governo Craxi tramite l’intervento del sottosegretario Giuliano Amato. Il primo firmatario per i comunisti fu Paolo Ciofi che, intervenuto nel dibattito a nome del gruppo comunista, sottolineò l’occasione che in quel momento si offriva al Parlamento, alle forze politiche e al governo, di “risarcire Roma di quell’attenzione che le è dovuta in quanto capitale della Repubblica” dando alla città l’orizzonte produttivo basato sulla valorizzazione del patrimonio culturale e scientifico con un collegamento organico con le forze produttive nazionali e internazionali. “Roma capitale – era vista da Ciofi – come moderna metropoli europea cerniera fra il nord e il sud del mondo.”
La mozione elencava una serie di obiettivi per modernizzare la città e valorizzarne il patrimonio storico culturale. Gli strumenti per conseguirli erano una commissione permanente mista fra governo ed enti locali e un adeguato stanziamento finanziario nel Bilancio dello Stato.
Ma prima di arrivare alla legge si dovette aspettare il 1990. Primo firmatario fu Antonio Cederna eletto come indipendente nella lista del Pci. Fu l’ultimo nobile lascito di quel partito che stava in fase di chiusura e scioglimento in conseguenza della “svolta” impressa da Occhetto.
La legge su Roma Capitale 396 del 1990 prescrive all’art. 1 con grande chiarezza gli interventi di “preminente interesse nazionale” volti “all’assolvimento da parte della città di Roma del ruolo di capitale della Repubblica”.
In 7 succinti commi è delineato il quadro della trasformazione da perseguire:
- a) “realizzare il sistema direzionale orientale” dove allocare la direzionalità statale per “una riqualificazione del tessuto urbano e sociale del quadrante Est della città”;
- b) conservare e valorizzare il patrimonio monumentale, archeologico e artistico, creare parchi archeologici e in particolare quello dell’area centrale, dei Fori e dell’Appia Antica, incrementare e valorizzare il sistema di parchi urbani e suburbani;
- c) assicurare la più’ efficace tutela dell’ambiente e del territorio, anche attraverso il risanamento dei fiumi Aniene e Tevere e del litorale;
- d) adeguare la mobilità urbana e metropolitana con un sistema di raccordi intermodali e di navigabilità del Tevere, la sistemazione e riorganizzazione delle attività portualità e aeroportuali nonché il potenziamento del trasporto pubblico su ferro;
- e) qualificare le università, i centri di ricerca e le strutture culturali e realizzarne di nuovi;
- f) costituire un polo europeo dell’industria dello spettacolo e della comunicazione e realizzare il sistema congressuale, fieristico ed espositivo anche attraverso il restauro, il recupero e l’adeguamento delle strutture esistenti;
- g) provvedere all’adeguata sistemazione delle istituzioni internazionali operanti in Italia e presenti a Roma.
Il disegno delle trasformazioni della legge 390, tuttora in vigore, va certamente aggiornato, ma le linee strategiche rimangono più che mai attuali.
Quello che purtroppo non è all’orizzonte, come invece quarant’anni fa, è il nuovo blocco politico sociale pronto ad assumere con energia ed entusiasmo il governo di una città martoriata, deturpata e fiaccata da “mafia capitale” e dalla corruzione che quasi ogni giorno nuove inchieste, nuove indagini e nuovi indagati, stanno facendo emergere nell’ambito dell’amministrazione comunale.
Con il pericolo che le vecchie consorterie speculative, le vecchie lobby finanziarie, il vecchio ceto politico trasversale che ha prodotto “mafia capitale” rimetta pienamente le “mani sulla città”, per continuare a depredarla e illuderla con nuovi grandi opere per nuovi grandi affari. L’astensionismo di cui è pregna l’aria è il segno di questo lungo sfiancamento democratico che i versi di Montale possono bene esprimere:
“ […] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo“.
Ma se guardiamo a quel giugno di quarant’anni fa, si deve credere possibile nella nostra città un lavoro di lunga lena per la costruzione di uno schieramento sociale e politico, popolare e progressista, imperniato sul lavoro e i lavoratori di oggi, alternativo a lor signori e ai prestanome politici di lor signori. Le elezioni vicine potrebbero dare un qualche segnale positivo a sinistra per avanzare su questa strada. Cominciando col ridire con chiarezza quello che si è e quello che si vuole. Traendo criticamente anche dalle esperienze del passato ispirazione e insegnamenti per il futuro di Roma.
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Analisi lucida e stringente con indicazioni politiche “preziose”. Si, il programma politico di sinistra deve svolgersi, per chiamarsi tale, su queste direttrici. Che non sono affatto “vecchie”, ma nuovissime se confrontate alla situazione odierna.
Francamente si tratta di un articolo agio grafico in modo imbarazzante. Solo per fare un esempio il buon Argan e Petroselli con la sua breve esperienza non erano Anas e, sempre per rimanere a Milano, il Vetere ottimo quando faceva l’opposizione a Daria da sindaco non era paragonabile a Tonioli. Insomma è ridicolo attribuire lo stato spaventoso in cui versa Roma interamente al penoso quinquennio di Alemanno assolvendo gli oltre venti anni di sindaci di sinistra…..proviamo ad essere seri smettendo con le autodemolizioni!