Referendum: ragioni e limiti di una vittoria
Il risultato numerico del referendum è chiaro: notevole partecipazione 68,48% i votanti, No 59,11% Sì 40,89%. Abbastanza uniforme in tutte le regioni e con picchi oltre il 70% in Sicilia e Sardegna al sud. Il risultato politico, pure: Renzi e il suo governo hanno perso.
Tuttavia nel voto per il No si sono intrecciate sovrapposte diverse motivazioni politiche e sociali. Quelle sociali sono quelle già operanti nel voto amministrativo di giugno 2016, e già anticipato da quello dell’autunno del 2015 in Liguria, in Veneto, in altre numerose città e piccoli centri. In sostanza il racconto renziano di un’Italia fuori dalla crisi, in via di ripresa, con e lavoro in crescita, ha cozzato contro una realtà diversa percepita dagli italiani.
L’insicurezza sociale, il diffondersi del lavoro precario, una continua erosione del welfare, non si è rispecchiata nello storytelling renziano sostenuto da un apparato comunicativo di tutto rispetto e un appoggio spropositato dei poteri economici domestici e anche esteri. Anche i provvedimenti di legge positivi di natura civile come le Unioni civili e quelle sul dopo di noi, sull’autismo, sul divorzio breve ecc. non hanno sopravanzato il perdurare e l’aggravarsi di una “questione sociale” che sta alla base in tutto l’Occidente dell’avanzare delle forze populiste.
Per esempio, il risultato eclatante del voto giovanile dovrebbe far riflettere coloro che hanno messo dentro allo scontro elettorale la polarizzazione fra chi voleva cambiare e chi no, a prescindere di come e che cosa si cambiava nella Costituzione, se meglio o in peggio.
I millennials che negli Stati uniti hanno votato la Clinton, e che se fosse dipeso da loro Trump avrebbero prevalso solo in cinque stati, e che in Gran Bretagna hanno votato leave e non Brexit, in Italia hanno votato No con una percentuale dell’81% nella fascia d’età fra i 18 e i 34 anni.
Nella fascia media di età fra i 35 e 54 anni il No continua a vincere col 67% mentre il Sì ha avuto più successo fra gli strati più anziani e più garantiti della popolazione vincendo col 53% fra gli over 55. Cioè, in altre parole, il voto giovanile sarebbe stato, se fossero veri certi cliché dei sostenitori del sì, sorprendentemente più conservatore di quello anziano volto al cambiamento.
Tutto ciò sembrerebbe contro natura se nell’analisi del voto non intervenisse, appunto, la valutazione della “questione sociale” che in larga parte è anche questione giovanile. Il racconto renziano nutrito dai dati percentuali dell’Istat, ma non dell’Inps, sui 600.000 posti di lavoro, sul Pil comunque in crescita, dai benefici sociali, emblematizzati dai bonus, distribuiti in modo abbastanza discutibile a destra e a manca, ha fatto a cazzotti con la crescita esponenziale dei voucher, delle prestazioni lavorative a ore, con la non diminuzione drastica delle tipologie di lavoro precario. E ha litigato ulteriormente con i dati sul crescere della povertà, assoluta (4,5 milioni di persone) e relativa (8 milioni di persone), della rinuncia alle cure sanitarie per ragioni economiche di 11 milioni di persone, e, da ultimo, con i dati del Censis, contemporanei a quelli un po’ farlocchi dell’Istat a due giorni del referendum, che fotografavano un’Italia ferma, in preda alla denatalizzazione con giovani generazioni angosciate e prive di futuro. Persone con un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini e una ricchezza familiare che, per i nuclei under 35, è quasi la metà della media (-41,2%).
“Nel confronto con venticinque anni fa – affermava il rapporto – rispetto ai loro coetanei di allora, gli attuali giovani hanno un reddito inferiore del 26,5% (periodo 1991-2014), mentre per la popolazione complessiva il reddito si è ridotto ‘solo’ dell’8,3% e per gli over 65 anni è invece aumentato del 24,3%”.
Ma prima che con i dati il racconto renziano volto a vendere ottimismo, si è scontrato con il vissuto quotidiano di milioni di persone. Per contro il Sì, non a caso, ha vinto all’estero, col 64,70% contro il 35,30 dove questo “vissuto” non ha influito. La “questione sociale” ha pesato, pur nell’uniformità del risultato, più al sud che al nord, motivando, secondo l’Istituto Demopolis, i due terzi del No mentre un terzo è stato motivato dal merito della riforma.
A essa si sono intrecciate le cause più propriamente politiche del voto, in particolare gli errori di impostazione e conduzione della campagna elettorale e, prima ancora, di avvio del processo di riforma. Su quest’ultimo aspetto prima di Renzi ci sono le responsabilità del Presidente emerito Giorgio Napolitano. E’ lui che, passando sopra alla sentenza della Corte costituzionale pubblicata nel gennaio del 2014 dichiarante incostituzionale la legge elettorale del “porcellum” con cui si era eletto anche il Parlamento in carica, invece di mettere all’ordine del giorno una nuova legge elettorale per nuove e immediate elezioni politiche, ha incoraggiato il governo Renzi a perseguire, dandogli apposito mandato, una riforma di vasta portata eleggendo il Parlamento, de facto, a assemblea costituente. Nonché a dare la sua benedizione a una nuova legge elettorale, l’“Italicum”, poco dissimile dal “porcellum”. Salvo poi tornare sui suoi passi negli ultimi mesi.
Il Presidente, noto per il suo interventismo politico, non ha battuto ciglio nemmeno sul “patto del Nazareno” con il pregiudicato Berlusconi da cui è nata la scrittura sia della riforma sia dell’“Italicum”. La conduzione parlamentare della discussione sulla riforma è stata poi puntellata da altre forzature, oltre che verso le opposizioni anche all’interno stesso del PD verso la minoranza interna anche dopo la semi rottura con l’ex cavaliere di Arcore, gestita dal manipolo di forzaitalioti guidati da Verdini.
Alla fine, coerentemente con l’impostazione iniziale, è stata politicamente partorita dal governo, più che dal Parlamento, una riforma su cui Renzi, forse circuito dal suo stesso storytelling, ha messo non una ciliegina sulla torta, ma una bomba a orologeria. Quel “sulla riforma costituzionale mi gioco tutto”, seguito dal “se perdo lascio tutto anche la politica”, è rimbombato come un segnale per coagulare contro di lui sia gli avversari della riforma che quelli del suo governo. Praticamente tutto l’arco delle opposizioni.
Ma la Costituzione che esce vincitrice da questo referendum potrà vivere sonni tranquilli, acconciandosi a futuri e mirati ritocchi come auspicava il costituzionalista Michele Ainis? Non credo. La nostra Carta esce viva da un agguato debellato anche grazie al voto di uno schieramento di destra, non maggioritario ma determinante, composto da FdI della Meloni, FI dell’ambiguo Berlusconi e della Lega dello scatenato Salvini, che ha contrastato la riforma per motivi puramente strumentali di avversione al governo. Ma c’è qualcosa di più che agisce contro la natura della nostra Costituzione, ed è un disagio, un rancore, una disperazione sociale provocati dalle politiche neoliberiste che oggi ha giocato a favore della Carta, ma che nulla vieta che nel prossimo futuro possa travalicare anche l’argine del M5s per ingrossare le file della destra schiettamente populista e xenofoba, storicamente acostituzionale e anticostituzionale.
Questa destra non ci metterebbe cinque minuti a fare molto peggio di quel che ha combinato Renzi e prima di lui il centrodestra con la sua riforma nel 2005. Se oggi la “questione sociale” si è ancora sposata, per certi versi anche fortunosamente, con la “questione democratica”, il prossimo futuro non garantisce per niente la continuazione di questo “combinato disposto”.
L’insegnamento politico del risultato referendario che dovrebbe essere immediatamente colto da tutte le forze politiche progressiste, a cominciare dal PD nelle sue varie componenti, è che il programma fondamentale ed emergenziale di cui dotarsi si dovrebbe compendiare in tre punti: lavoro, lavoro e ancora lavoro. Lavoro, non voucher, da creare attraverso l’attivazione di un poderoso complesso di interventi pubblici di natura keynesiana. Poi c’è tutto il resto, che non è poco ovviamente.
E’ un tema su cui anche il M5s appare parecchio inadeguato con la sua proposta di reddito di cittadinanza, dal sapore assistenziale più che emergenziale. Altrimenti resterà la disperazione di nuove generazioni che potrà, a breve, essere trasformata in ariete contro la Costituzione dopo esserne stata oggi la salvaguardia.
Stando ai primi commenti e alle prime mosse degli attori politici principali, a cominciare da quelle solitamente retoriche di Renzi, non pare che a dominare sia questa preoccupazione.
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A parlare siamo tutti bravi il difficile è applicare quello che si dice.
Il Lavoro chi lo deve costruire il Governo o gli imprenditoria che preferiscono dislocare all’estero le loro aziende perché la mano d’opera costa meno?
Nella prima repubblica le cose erano più facili perché assumevano e davano lavoro immediatamente lo STATO.le REGIONI e i COMUNI oggi non è più così perché si è voluto privileggiare la formazione delle COOPERATIVE che sfruttano i lavoratori e loro s’ingrassano.
Una volta negli ospedali si assumevano i portantini oggi ci sono le cooperative e così via basta pensare solo quanta gente assumevano le POSTE ITALIANE di chi è la COLPA di tutto ciò? Chi ha cambiato in peggio le cose? andate a verificare non certo RENZI e i voucher, dei quali si è fatto un uso improprio dai datori di lavoro (siamo italiani e lo dimostriamo in ogni occasione) hanno prodotto la rabbia dei giovani,ma io credo soprattutto che i giovani siano stati influenzati dai mas-media che non facevano altro che demolire Renzi.