Ricordando piccoli/grandi Maestri
Storia di Giovanni e Lorenzo, del loro (e del nostro) MaggioLa Deputata di Fratelli D’Italia, Chiara Colosimo, è stata eletta Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, proprio nel giorno in cui si ricordava la strage mafiosa di Capaci, del 1992. Certo non è stata una coincidenza studiata, ma è stato comunque qualcosa di doloroso, soprattutto per i familiari delle vittime di mafia e di terrorismo che alla nomina della Colosimo si erano opposti con forza, dati i rapporti della Deputata di FDI con Luigi Ciavardini ex NAR, condannato a 30 anni di carcere per la strage di Bologna (2 Agosto 1980), l’omicidio del Giudice Mario Amato (23 Giugno 1980) e quello dell’Agente Francesco Evangelista, detto “Serpico” avvenuto il 28 Maggio 1980, davanti al Liceo romano “Giulio Cesare”. La Deputata Colosimo, romana della Balduina, fin da quando militava come Consigliera regionale nelle fila del PDL ha intrattenuto rapporti stretti con Ciavardini e il suo “Gruppo Idee”, Associazione costituita in carcere dall’Ex NAR. Passata poi tra i fan di Giorgia Meloni la Colosimo ha continuato a tenere questi rapporti stretti. I contatti tra i due risalgono al 2010 anche se adesso, sull’onda delle contestazioni per la sua nomina, la Colosimo ha chiuso il suo Sito web e il suo profilo Facebook “per aggiornamenti”, tentando di cancellarne le tracce. Ma – come è noto – la Rete non perdona e quanto la Deputata di FDI ha scritto e fatto sul e con il “Gruppo Idee” di Ciavardini è tornato, inesorabilmente, alla luce per inchiodarla.
Ma la Colosimo non è la sola che si dovrebbe dolere (leggi vergognare) di questi rapporti. Infatti – come scrive Andrea Palladino in un pezzo pubblicato sul Quotidiano La Stampa del 24 Maggio scorso – anche Giorgia Meloni, quando era una giovane dirigente del Settore Giovanile di Allenza Nazionale, scriveva in difesa dei neri accusati della strage di Bologna e via ammazzando, in altre “performance” nere di simile natura, cercando di alzare una coltre di nebbia sulle responsabilità di quei camerati nello stragismo. Peccato che in quel tempo – si era nel 2004 – fossero già state provate le responsabilità di Francesca Mambro e di Giuseppe Valerio Fioravanti (ex NAR) per la strage di Bologna. E sempre in quell’anno – e sempre Giorgia Meloni – organizzò, per chiarire meglio come la pensasse sullo stragismo nero (c’è un volantino ancora presente e visibile in Rete sul sistema archive.org), un evento a Catania in difesa dei terroristi neri. Accanto a lei – la Rete non mente – c’era proprio Luigi Ciavardini, all’epoca ancora imputato per la strage di Bologna, ma già condannato per l’omicidio del Giudice Amato.
Capirete da voi come la questione dell’elezione della “nera” Colosimo alla Presidenza della Commissione Parlamentare Antimafia non sia affatto una questione di polemica ideologica, come qualche commentatore e la stessa Colosimo hanno affermato, bensì una questione di forma e sostanza istituzionale.
Nota 1: saputo dell’avvenuta nomina della Deputata Colosimo alla Presidenza dell’Antimafia Paolo Bolognesi, Presidente dell’Associazione dei Familiari delle Vittime della Strage di Bologna, l’ha diffidata dal presentarsi alla prossima commemorazione di quella strage fascista e piduista.
Nota 2: Rifondazione Comunista ha comunicato di avere – in poco meno di due mesi – raccolto 104mila firme di cittadini per chiedere le dimissioni del Presidente del Senato, Ignazio Benito La Russa. Le firma saranno consegnate oggi 25 Maggio a Palazzo Madama, Sede del Senato della Repubblica.
“La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine.” (Giovanni Falcone 1939-1992, Magistrato della Repubblica Italiana)
“Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale.” (Don Lorenzo Milani,1923-1967, Prete scomodo).
Il 23 Maggio 1992, si consumava la strage mafiosa di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, Magistrato sua moglie Francesca Morvillo, anche lei Magistrato, e gli Agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. A distanza di 52 giorni anche il collega di Falcone, il Magistrato Paolo Borsellino veniva ucciso – in via Mariano D’Amelio, a Palermo – con un’auto bomba. Con lui moriranno i cinque Agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina.
Dalle 17 e 58 di quel 23 Maggio 1992, l’ora della strage, sono trascorsi ormai 31 anni e siamo oggi a ricordare quel sacrificio di sangue e di carne. In questi 31 anni la mafia che aveva decretato – con quei 500 chilogrammi di tritolo posti sotto quella autostrada in località Capaci – la fine di un uomo, un Magistrato che l’aveva studiata, capita, braccata e colpita a morte con il maxi-Processo di dieci anni prima di quella strage (che porterà a 346 condannati, 19 all’ergastolo ed a 2.265 anni di carcere complessivamente comminati), ha subito colpi durissimi, ma ancora è viva e uccide. La “piovra” dunque non è stata decapitata.
I fascisti, consiglieri e collaborazionisti dello stragismo mafioso
Occorre qui ricordare il legame che corre tra la mafia e i fascisti neo-stragisti. Come è, noto, Palo Bellini (ex di Avanguardia Nazionale) e condannato per la strage di Bologna, è stato l’ispiratore della strategia mafiosa di attacco al patrimonio artistico italiano degli anni 1993-1994. Pietro Rampulla (ex Ordine Nuovo) risulta essere stato l’”artificiere” della strage di Capaci. Piersanti Mattarella, all’epoca Presidente della Regione Sicilia, venne ucciso a Palermo, il 6 Gennaio del 1980, da Giuseppe Valerio Fioravanti (ex NAR), come sosteneva Falcone; infine Stefano Delle Chiaie era a Palermo nel periodo delle stragi.
Quella strage, così come quella successiva di Via Mariano D’Amelio – ha visto palesarsi le connivenze tra la criminalità organizzata e pezzi infedeli dello Stato, ha visto messi in atto pesanti depistaggi e silenzi colpevoli. Che cosa ci insegna, oggi, quella strage? Ci insegna che – come diceva Giovanni Falcone – «La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine.». Ma ci dice anche che «Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni». Dunque l’impegno, non solo quello delle Istituzioni, ma quello di tutti noi, ogni giorno, sempre deve continuare, concretamente e senza alcuna ipocrita retorica. L’impegno per la Giustizia giusta, la solidarietà sociale, la democrazia e i diritti di tutti deve proseguire con forza. L’impegno che sta scritto nella Costituzione della nostra Repubblica; l’impegno che si può condensare in una sola espressione “M’interessa”. “I care”
Con questo ricordiamo anche Lorenzo, piccolo/grande maestro … anche perché il suo motto era “M’interessa, ho a cuore” – il contrario esatto del fascista “Me ne frego” – Don Lorenzo Milani, nato a Firenze il 27 Maggio 1923, divenne un prete scomodo e quindi passibile di essere “punito”; con questo peso Don Lorenzo Milani arriva a Barbiana – Paese di 127 (leggasi centoventisette) anime piazzato al centro del Mugello, nel Comune di Vicchio a 460 metri sul livello del mare – il 23 Novembre del 1954, provenendo da San Donato di Calenzano, dove era stato Cappellano militare per sette anni.
Don Lorenzo era stato nominato Priore della Chiesa di Sant’Andrea a Barbiana, dunque il percorso da Cappellano a Priore non era una promozione, bensì una punizione, ché quella Chiesa non era ambita da nessun Sacerdote per la sua scomodità e rischiava di essere chiusa. In conclusione , un prete “scomodo” in una chiesa scomoda: tutto torna al suo posto, secondo Santa Madre Chiesa, poiché Sant’Andrea a Barbiana, era rimasta aperta proprio per punire lui, Don Lorenzo Milani, per insegnargli (senza lasciare segni visibili, parola del Cardinale Elia Dalla Costa) un po’ di sacrosanta obbedienza, ovvero la virtù di saper obbedire. E Lorenzo obbedì. Salì a Barbiana e – sebbene fosse quasi distrutto (dentro e fuori) – decise di restare (andò anche al Comune di Vicchio per comprare il pezzo di terra, al cimitero, dove voleva essere seppellito) sebbene quello fosse un terreno di lotta difficile lui, per la sua Chiesa e la sua idea di mondo, ma era pronto ad ingaggiarla quella lotta con l’arma della fede (che non gli mancava) ma anche con l’arma della certezza che l’impegno civile lo avrebbe portato alla vittoria.
Intendiamoci, non si trattava di un eroe romantico, ma di un uomo in carne ed ossa con le sue idee, ma anche con le sue debolezze e disperazioni, spesso aveva pensato al suicidio ma Barbiana e le sue 127 anime lo avevano, alla fine, dissuaso, ché altro c’era da fare. Così si riapre la Chiesa e si fa scuola, si costruisce anche una piscina – perché quei ragazzi, ignoranti e montanari, non dovevano avere paura dell’acqua. Si fa scuola tutti insieme, accogliendo i ragazzi che il modo “civile”, là fuori, respingeva, si impara a leggere, a fare Geografia e Storia a “far di conto” e a scrivere. E si decide che tutto quel lavoro, quello sforzo, quella fatica e la conoscenza conquistata per “essere e fare” meritano le pagine di un libro.
Nasce così “Lettera a una Professoressa”. E dentro ci si mette – tutti insieme – anche quello che non si era avuto il coraggio di dire, essendo soli, in faccia a chi (gli insegnanti della scuola dei ricchi) ti respingeva, ributtandoti e consapevolmente, nell’ignoranza delle cose, accusandoli di essere “cretini e svogliati”. E così quel Libro comincia: – “Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che «respingete». Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate”. Così continua: “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi.”.
Dispetti? Niente affatto. Solo una questione di classe (meglio classista). Ma questa parola Don Lorenzo Milani non la usa. Ce la fa intendere, riga dopo riga di quel libro collettivo, a patto di essere bravi a leggere tra le righe, soprattutto perché – dice la Costituzione – “La scuola è aperta a tutti” e la cosa più importante della scuola è insegnare a ragionare con la propria testa.
“L’obbedienza non è più una virtù”, sarà il titolo invece del suo libro che costò a don Lorenzo Milani, Priore del minuscolo e poverissimo borgo montanaro di Barbiana nel Mugello, un processo per apologia di reato. Scritto nel febbraio del 1965, era indirizzato ai cappellani militari toscani che in un comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza (fino al 1972 assimilata alla renitenza alla leva e alla diserzione) «estranea al comandamento cristiano dell’amore» ed «espressione di viltà» ) e lo fece unendo strettamente il Vangelo e la Costituzione, le due cose che aveva più care. Lo fece, partendo dai giovani, quelli emarginati, dimenticati e lasciati soli nell’ignoranza
Il 15 Febbraio del 1966 a Roma il Processo per “incitamento alla disobbedienza civile” per avere scritto – da Cappellano militare – ai come lui Cappellani militari, una Lettera in cui aveva difeso l’obiezione di coscienza al servizio militare (al tempo un reato penale) e il dovere della disobbedienza a ordini sbagliati. Assolto in primo grado, il Priore di Barbiana fu, “In Nome del Popolo Italiano”, condannato nel Processo d’Appello, tenutosi nell’Ottobre del 1967, ma la pena fu estinta per la morte del ‘reo’, sopraggiunta il 26 Giugno dello stesso anno.
In sua difesa, Don Lorenzo Milani aveva scritto:
- “Dovevo ben Insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.”
Ecco, il dovere che deriva dalla convinzione di essere nel giusto e che ti spinge a non stare alla finestra a guardare, ma a ‘prendere parte’ con tutto te stesso ad essere, dunque, un partigiano. Grazie, Lorenzo e buona permanenza lassù.
La storia di Lorenzo Milani, di Barbiana di Vicchio, delle sue 127 anime e dei suoi ragazzi ci riguarda e ci coinvolge, anche se a Barbiana non ci siamo mai saliti, cosa difficile anche oggi ché c’è solo una strada sterrata dove è complicato muoversi, anche in macchina (Papa Bergoglio, nel 2017, dovette arrivare a Barbiana in elicottero). Bene, ieri, 27 Maggio, si sono celebrati i cento anni dalla nascita del prete “scomodo” e per noi tutti c’era il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, arrivato fin lassù certo per ricordare (la Memoria non gli fa difetto), ma anche, forse, per chiedere scusa a Lorenzo Milani di quel “dispetto” della Repubblica Italiana (di cui Lorenzo era un servitore non infedele).
– (ANSA) – ROMA, 27 MAG – Mattarella, “I care” di don Milani contro l’indifferenza. Don Milani è stato “un grande italiano che, con la sua lezione, ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva. Il suo “I care” è divenuto un motto universale. Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza. A quella espressione se ne accompagnava un’altra. Diceva: “Finché c’è fatica, c’è speranza”. La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora. Impegno accompagnato dalla fiducia che illumina il cammino di chi vuole davvero costruire. E lui ha percorso un vero cammino di costruzione”. Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella chiudendo il suo intervento a Barbiana dove ha ricordato la figura di don Milani.
Perché ho messo insieme quelle due date di Maggio e quei due uomini? Perché, in fondo, non credo fossero molto diversi tra loro. Entrambi erano amanti della Giustizia e dell’eguaglianza tra gli umani. Entrambi erano votati ad un’idea di Giustizia universale; entrambi erano fedeli alla Costituzione; sicuri che l’uomo che ha gli strumenti per capire le cose e li padroneggia (la Scuola, l’Istruzione) può vincere tutte le battaglie e può resistere alle avversità mentre costruisce, giorno dopo giorno con gli altri come lui, la sua vittoria. (*)
(*) “La mafia teme la scuola più della giustizia, l’istruzione toglie erba sotto i piedi della cultura mafiosa.”, diceva Antonino Caponnetto. Il Magistrato che è stato uno dei personaggi simbolo della lotta contro il crimine organizzato in Italia. Nella sua carriera, a fianco di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, Caponnetto. consegnò alla giustizia oltre 400 criminali legati a Cosa Nostra.
Infine dopo avere letto il pezzo (stimolante) che Federico (Ruozzi ha scritto ieri – su Don Milani e su Barbiana, sul Quotidiano Domani “Il successo tragico di Don Milani. Barbiana iniziò come una punizione”, pag. 13) mi sono venuti in mente ricordi personali. Don Milani – ed in particolare il suo “Lettera a Una Professoressa” (Libreria Editrice Fiorentina, 1967) che è stata, per me, una lettura giovanile importante (in realtà, come ho scritto, quel testo non è stata opera di Don Milani, ma dei suoi ragazzi della “Scuola di Barbiana”, come recita la copertina, da lui guidati).
Avere letto, in gioventù, quel libro non è stato solo formativo (ché i libri di formazione allora esistevano ed esistono ancora) ma soprattutto un qualcosa di collettivo (ché la facemmo in classe, al Magistrale “Alfredo Oriani” di Roma, durante appunto il “collettivo” di una occupazione) e mi ricordo che quando al libraio vicino scuola ne ordinammo ben 34 copie – ché tanti eravamo in classe e perché avevamo deciso di leggerlo e commentarlo in quella sessione del collettivo, il tipo ci guardò stupefatto ed incredulo che avessimo, per davvero, le 600 Lire a copia che quel libro costava allora. Ma noi i soldi li avevamo per una coletta fatta in classe per partecipare alla quale avevo venduto la mia collezione di fumetti di Collana Eroica.
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”