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Rocco Carbonella ci ha lasciato

Autore del libro “Il pastore che sognava l’officina” in cui racconta una straordinaria storia  di un sogno divenuto realtà negli anni Settanta

La carissima Donata, sua moglie, mi ha dato questa mattina la dolorosa notizia della morte dell’amico Rocco Carbonella. A lei ed ai suoi figli Matteo e Nazario le condoglianze e un forte abbraccio.

Rocco Carbonella, mio compaesano, nato a Ischitella (FG) nel 1945, è emigrato a 14 anni a Settimo Torinese lavorando fino al 1970 come dipendente. Da allora è vissuto a Brandizzo dove ha fondato, dirigendola (ora è condotta dai suoi figli), la sua impresa produttrice di minuterie metalliche tornite.

Ho avuto il privilegio di conoscerlo a fondo in occasione della tormentata edizione (con incontri, telefonate, scambi di mail con una sua segretaria veneta, in difficoltà nel riportare espressioni in dialetto presenti nel libro Il pastore che sognava l’officina, pp. 198, con illustrazioni, edito dalla nostra editrice Cofine che lo pubblicò e poi presentò a Settimo Torinese il 20 marzo e ad Ischitella il 7 agosto del 2010.

La gestazione del libro durò circa tre anni e in quella circostanza la nostra amicizia si rinsaldò per sempre.

Rocco teneva molto alla realizzazione del libro perché era convinto della necessità di lasciare una testimonianza che servisse da stimolo alle future generazioni perché non cessassero mai di inseguire i propri sogni e di impegnarsi con tenacia per realizzarli.

Nel libro infatti si racconta la straordinaria avventura di un ragazzo garganico che, pascolando il suo gregge, sogna di realizzare un’officina meccanica tutta sua. E vi riesce, emigrando al nord, lavorando prima come operaio e poi come imprenditore, coronando quel sogno.

Un’esemplare testimonianza dei cambiamenti intervenuti in sessant’anni di storia italiana, passando dalla civiltà contadina e pastorale a quella industriale e post industriale, fino alla globalizzazione.

Ora che l’amico Rocco ci ha lasciato e forse sta incontrando il comune amico Michele Castelluccia (ispiratore e complice del nostro incontro e del libro) che l’ha preceduto, interpretando un suo desiderio di far conoscere la sua storia, ve ne offro, di seguito, una sintesi.

https://www.carbonellarocco.it/chisiamo.html

Il pastore che sognava l’officina, di Rocco Carbonella – In sintesi

Nella premessa c’è la motivazione del libro: “Siamo (…) testimoni della civiltà contadina (e nel mio caso anche pastorale) soppiantate dall’avanzare della diffusione dell’industria per ritrovarci ora in una fase cosiddetta postindustriale, in piena globalizzazione. E tutto questo in appena una sessantina d’anni, quelli appunto della nostra vita. Non possiamo sottrarci quindi al dovere della memoria, rendendone partecipi le generazioni che verranno dopo di noi”.
L’autore invita anche i giovani “a coltivare il loro sogno, per quanto ambizioso e irrealizzabile possa sembrare loro, a fortificare la propria volontà (volere è potere), a non abbattersi mai, a non disperare mai. Non so se riusciranno a trarre insegnamenti dalla mia vicenda. Comunque voglio provarci.
So, per esperienza, che i giovani più che alle parole guardano agli esempi. Li vedo vivere precariamente le loro esperienze lavorative (come del resto è successo a noi e, ancor più, per lunghissimi anni, ai nostri genitori e ai nostri nonni), spero con tutto il cuore che possano trarre qualcosa di utile per loro dalla storia della mia vita”.

Segue il grande capitolo sull’infanzia e adolescenza a Ischitella, dai primi suoi ricordi, alla memoria dei nonni materni e paterni, in particolare nonno Angelo Raffaele: “Lo rivedo, seduto vicino al grande camino, intento a far bollire, cagliare e lavorare il latte preparando cacicavalli, mozzarelle, scamorze. Per i bambini, specie per i più piccoli, preparava trecce e taralli con tanti capezzoli che fungevano da ciuccetti (…) Ricordo con grandissima gioia la sua contentezza nel vedere noi bimbi con gli occhi spalancati alla vista del siero fumante ad alta temperatura. Solo delle mani abili potevano trasformare quella pasta naturale nelle varie forme che ci incuriosivano ed incantavano”.

Toccanti sono i ricordi della madre, e soprattutto del padre: “Mi raccontava che quando gli capitava di trovare un pezzo di giornale diceva: questo comunica, parla, ma io non lo capisco e io voglio capirlo. Con il suo esempio e il suo incitamento mi ha trasmesso una grande sete di sapere, di imparare e di applicarmi nello studio. Questo suo ricordo mi commuove ancora oggi fino alle lacrime. (…) Uno degli insegnamenti di mio padre, rimasti impressi nella memoria e che spesso mi ripeteva è: la vera miseria ti fa venire anche il coraggio”.

Molto coinvolgenti sono i ricordi dei suoi primi anni di vita, funestati da una grave malattia (superata grazie al pronto intervento di un medico, il dott. Girolamo Pepe), vissuti nel paese garganico nel modesto appartamento in via Ventrella, prima preso in affitto dai genitori e poi acquistato: “facendo debiti e risparmiando. Era a piano terra e, come molti altri in paese, all’incirca di venticinque metri quadrati, consisteva in un unico vano con una piccola cucina munita di caminetto vicino alla porta d’ingresso, preceduta da un piccolo atrio esterno con una vite ornamentale che sbucava dal terreno roccioso.
All’interno, al fondo dell’unico grande vano, c’era il gabinetto, collegato direttamente con la cloaca che passava dietro il muro della casa. Solo una tendina lo velava agli sguardi.
Su un lato della stanza, per necessità di spazio, c’era il letto dei miei genitori, alto sui trìspete (cavalletti di ferro), con l’asse di legno e sopra il frusciante saccone (materasso imbottito di foglie di granturco).
Accanto c’era il letto di noi figli e, vicino ad esso, anche lo spazio per la giumenta. Sì, l’animale (l’unico capitale dei poveri) veniva ricoverato dentro la casa, per evitare che fosse rubato. Capitava talvolta che quando la giumenta era costretta a fare i suoi bisogni qualcosa di spiacevole poteva arrivare persino sul nostro letto. (…) In casa non c’era l’acqua corrente. Si doveva andare ad attingerla alla fontanella pubblica (…) Per lavarci in casa c’era il bacile, appoggiato su un trespolo che nella parte bassa conteneva la brocca dell’acqua. Ci lavavamo la faccia a turno in ordine gerarchico, prima i genitori poi noi figli per ordine d’età. Non si sprecava acqua, perché era scarsa e costava fatica a trasportarla. Si riciclava persino quella sporca, per la pulizia davanti casa; quella di cottura della pasta (a jotte) serviva a preparare il pastone per i maiali amalgamandola con la crusca. (…) Non si sprecava niente. Non ce lo potevamo permettere. Il pane veniva tagliato in fette sottilissime e mangiato con parsimonia. Se si ammuffiva, con il coltello veniva asportata la parte mucida, e si mangiava ciò che restava. Se un pezzo di pane cadeva in terra, lo si raccoglieva, lo si spolverava, lo si baciava e lo si mangiava. Sprecare il pane era puccate (peccato)”.

I ricordi del primo giorno di scuola, dell’apprendimento del mestiere di sarto presso la bottega di Giovanni Venditti, i giochi dell’infanzia ed altri episodi sono nitidamente descritti in ogni minimo particolare come, ad esempio, quello degli acquisti a credito: “Marietta usava un quaderno a righe dove segnava di volta in volta l’importo e il nome delle famiglie. Spesso ero io che andavo a fare la spesa, Marietta segnava sul quaderno e restava in attesa della conclusione della stagione per rientrare dei soldi, pregando che il raccolto andasse bene, altrimenti, suo malgrado, avrebbe dovuto attendere la stagione successiva. Questa procedura si basava sulla fiducia ed era usuale, in particolare per le famiglie povere e oneste”.

In un denso capitolo è approfondita, con ricchezza di particolari, l’attività di pastore alla guida del gregge svolta (all’età di appena 12-13 anni) che ha profondamente inciso nella sua formazione. Ed ecco, in sequenza, i brani dedicati alla produzione del caglio, alla bagnatura e alla tosatura delle pecore, agli incontri con ladri di bestiame, all’assistenza al parto prestata dal pastorello: “Una delle prime cose che mi insegnarono fu appunto come aiutare a far partorire gli animali, senza provocare danni alla madre e al nascituro. C’erano casi in cui tutto filava liscio e altri in cui il parto si presentava assai problematico. Dovevo introdurre con precauzione la mano dentro l’animale e delicatamente, afferrandolo con grande cautela per le fragilissime zampette, dovevo rigirare il nascituro in modo che potesse venire al mondo senza danno.

La gestazione delle pecore e delle capre è di circa 5 mesi e il pastore doveva anche saper gestire il periodo di accoppiamento per far nascere tutti i piccoli nell’arco di 10 giorni. Si usava perciò l’accorgimento di porre sotto la pancia del maschio una tavoletta con due fori all’estremità e una corda che passando sulla schiena congiungeva i due fori non permettendo così all’animale l’accoppiamento. Mi colpiva la grande pazienza e capacità di sopportazione del dolore del parto da parte delle pecore e soprattutto la sottomissione delle capre che accettavano il mio intervento senza reagire. Poi, dopo il parto, mi giravano affettuosamente attorno lambendomi, quasi a mostrarmi la loro riconoscenza. Ammiravo la delicatezza delle madri che, subito dopo il parto, con abili colpi di lingua cercavano di liberare dal muco il musetto degli agnelli e dei capretti, per farli respirare bene”.

In questo contesto di penosa precarietà, di estenuante lavoro, suo e dei suoi, ecco maturare il sogno che dà il titolo al libro: “Nonostante la dura fatica e il nostro impegno, capitarono dei periodi in cui registrammo la perdita di numerose pecore. E ciò equivaleva al salario differito per un padre di famiglia o alla chiusura, da un giorno all’altro, di una fabbrica dalla quale un lavoratore aspetta il suo giusto salario per tirare appena avanti l’esistenza sua e della famiglia.
Il pensiero di queste tristi eventualità mi riporta a quei dolorosi momenti per la mia famiglia e ancora oggi mi si stringe il cuore. Pianto e sconforto non mancavano allora, ma non venne mai meno il sostegno di mio padre, di mia madre e degli zii, sempre pronti a reagire alla malasorte, (…) ma l’unica vera consolazione che mi restava era pensare a un futuro non più precario e lontano da quella triste vita di stenti e sacrifici. Quel futuro vagheggiato era sempre di più il mio pensiero dominante (…) nella mia mente si affollavano tanti pensieri su un futuro migliore. Uno però era fisso e ricorrente, quasi un sogno a occhi aperti: l’apertura di un’officina con mio fratello a Settimo Torinese. Un’officina meccanica come quella di Pasquale e Mariolino a Nonna in via Umberto I, vicino alla fontanina di via Enrico Toti, a Ischitella. Anzi più bella. Oggi sono fiero e orgoglioso di aver realizzato il sogno di quel piccolo bambino, povero, indifeso e che molti commiseravano”.

Le vicende di circa tre anni di vita da emigrante di suo padre Nazario e suo zio Agapito in Venezuela occupano un’intera sezione dell’autobiografia, descritti a due voci dal padre e dallo zio: “Siamo partiti (…) il 24 gennaio 1953. Abbiamo pagato il biglietto di andata, 119.800 lire ciascuno, comprensive di 2.800 lire di tassa d’imbarco. (…) Per trovare lavoro noi emigranti andavamo in piazza Bolìvar, soprannominata ‘piazza dei sospiri’, perché vi convenivano, con le loro angosce, quanti cercavano lavoro. Molti uomini, dopo lunghi giorni di attesa, a volte addirittura mesi, vinti dallo sconforto e dalla disperazione, non avendo più niente da mangiare e non potendo tornare a casa, perché non avevano neppure i soldi per il biglietto di ritorno, si suicidavano”.

La nave Urania II aveva impiegato sedici giorni per giungere in Venezuela. Erano partiti da Napoli, passando per il Mediterraneo, attraversando lo Stretto di Gibilterra. Arrivarono a destinazione al porto de La Guayra (dopo alcuni giorni dal padre e dagli altri paesani ribattezzato ‘il porto dei guai’). “Scendendo dalla nave videro dietro le corsie la grande piazza affollata di persone che gridavano: ‘Cosa siete venuti a fare qui? Non c’è lavoro, si muore di fame!’. E continuavano a ripetere questa frase così ossessivamente che mio padre, già amareggiato di suo, rispose con tutta la rabbia che aveva in corpo: ‘Se voi siete vivi, vivremo anche noi!’”. Infine dopo vicissitudini amare, senza aver trovato l’America, ma solo un piccolo gruzzolo di stentati risparmi il rientro in patria a Ischitella, alla precarietà e misera vita di prima.

In questo contesto di desolazione, più forte di prima: “L’idea di avere un’officina meccanica di proprietà prende corpo “ e viene incentivata da una promessa di sua madrina, emigrata, come molti ischitellani in quegli anni, a Settimo Torinese: “Rocchino – mi disse (…) – ti voglio fare un bel regalo. Appena avrai compiuto 14 anni, ti voglio portare a Settimo, così ti trovi un bel posto di lavoro, con una bella busta paga tutti i mesi.”

E così partono verso il nord, prima il fratello maggiore Raffaele, poi Rocco e infine i suoi genitori con il fratellino Antonio. E dopo anni di sacrifici la famiglia si ricompone (“La soddisfazione più importante per noi fu quando papà, che ci aveva raggiunto a Settimo Torinese, ricevette anch’egli la sua prima busta paga. ‘L’America è a Torino e non in Venezuela!’, ci disse mescolando gioia e amarezza”) e con uno sforzo solidale di tutta il nucleo si creano le premesse per la realizzazione del sogno del pastorello garganico. Dopo aver superata l’ostilità preconcetta dei nativi verso i “Napuli”, le difficoltà dovuta alla diverse mentalità e lingua. Progredendo, con il lavoro, da apprendista, a operaio, a operaio-studente, a operaio specializzato, a capo squadra nella ditta Fratelli Ceccon; abitando prima in una soffitta, poi in un alloggio in affitto, e successivamente in proprietà. Passo dopo passo (interrotto dal servizio militare a Viterbo e a Ghedi, BS, cui pure è dedicato un breve capitolo) prosegue il cammino dei fratelli Carbonella verso la concretizzazione di una loro autonoma impresa a Brandizzo, in un terreno da loro acquistato, dove vengono realizzate sia le loro abitazioni che le rispettive aziende.

Avvenimenti tristi (le morti del fratellino Antonio, poi della madre e infine quella prematura di Raffaele) e lieti (i matrimoni dei due fratelli e la nascita dei loro figli, i successi nel lavoro) segnano il percorso duro e rischioso della fondazione dell’impresa, e poi del suo decollo e del superamento delle diverse fasi di crescita e di crisi, l’acquisizione di clienti (“I numerosi clienti che abbiamo avuto nel corso degli anni operavano nei settori più vari, dai materiali per la scrittura, alla bigiotteria, ai lampadari, dall’auto alle cabine telefoniche, alle macchine da caffè”).

Nell’attività imprenditoriale non sono mai venuti meno i valori “nei quali siamo cresciuti e che ci sono stati trasmessi dai nostri genitori, soprattutto con gli esempi, e aggiungendovi la nostra determinazione nel perseguire e ottenere ciò che avevamo progettato di realizzare, abbiamo attraversato gli anni buoni e quelli meno buoni, difendendoci nelle difficoltà ed espandendoci quando le circostanze erano più favorevoli. Abbiamo imparato a fronteggiare la concorrenza, così insidiosa nel nostro settore, attraverso l’aggiornamento tecnologico, l’estrema accuratezza delle produzioni, la puntualità delle consegne e con il prezzo più vantaggioso”.

Gli anni trascorsi, dalla crescita industriale impetuosa, al post industriale e al post-post industriale, sono stati anni di sfide difficili e l’autore lo dice a chiare lettere: “Ho già dovuto confrontarmi con sconvolgenti fasi evolutive del nostro lavoro (della minuteria stampata, della materia plastica e, per ultimo, dalla meccanica all’elettronica) … Il mondo cambia rapidamente e non ci si può fermare. (…) Entrando nell’epoca della globalizzazione sono cambiate diverse cose rispetto a prima. È diventato indispensabile accantonare le passate abitudini e in parte anche il modo di pensare per affrontare la competizione con più tenacia e fermezza nelle decisioni”.

Con preveggenza la ditta Carbonella ha saputo aprirsi al mercato internazionale scegliendo con cura artigianale clienti e fornitori, optando per la permanenza in Italia e mantenendo il controllo dell’impresa.

Cosa ci aspetta nei prossimi anni? E’ la domanda che l’autore si pone giunto quasi al termine del racconto ed ecco la risposta: “Oggi ci dibattiamo in una difficile fase di transizione, in cui dobbiamo competere con le altre nazioni, mantenendo però un livello alto e qualitativo nella nostra sfida. Il problema investirà soprattutto le nostre nuove generazioni. Ma io ho fiducia. Anche perché in quei paesi la povera gente non sopporterà a lungo quella disumana situazione, si ribellerà e quindi chiederà condizioni di lavoro più accettabili.
La crisi economica che stiamo vivendo dal 2008 è di un’entità che oserei confermare tremenda e ognuno di noi è preoccupato, soprattutto perché i fattori che l’hanno causata sono tantissimi e la sua durata ha superato di molto quelle che l’hanno preceduta. (…) Il mio augurio è che tutto si risolva in bene nel più breve tempo possibile. Secondo la legge della natura, dopo la tempesta ritorna sempre il sereno (anche se la tempesta può lasciare vittime e danni). La storia continua e credo fermamente nel passato, nel presente e nel futuro che sono sempre stati i miei compagni di viaggio”.

Dopo un capitolo dedicato al declino della sua salute in cui descrive la depressione che attanaglia oggi insieme all’autore tante persone, il suo invito è quello di non arrendersi mai e di lottare contro questo male insidioso. In conclusione Carbonella confessa che “l’impegno della scrittura del libro, durato circa tre anni, se da un lato è stato faticoso, dall’altro mi ha aiutato, obbligandomi a superare momenti e pensieri tristi e penosi, a volte giustificati a volte meno. Il riaffiorare continuo degli episodi della mia vita mi ha assorbito totalmente, aiutandomi a superare momenti difficili. Questi straordinari ricordi mi hanno riportato ai vecchi luoghi che hanno inciso in me le passioni che mi animano”.

Il libro si conclude con un accorato messaggio ai giovani: “Cari giovani, noi abbiamo attraversato molteplici difficoltà. Siamo riusciti con tanta fatica a superarle. Non possiamo che lasciarvi i nostri esempi, le nostre orme. Sta e voi seguirle, come del resto noi abbiamo calcato quelle dei nostri genitori, adeguandoci alla mutata realtà. Si tratta di costruire insieme per la vita. L’esperienza della mia vita mi ha insegnato a non arrendermi mai. Anche per questo sono fiducioso e conto molto sui giovani e sulla loro forza di volontà.
Oggi mi trovo a trasmettere gli stessi insegnamenti che ho ricevuto e, per quanto possibile, attuati, a coloro che ambiscono di realizzare i loro sogni, cercando di imparare un mestiere qualificato oppure specializzato, mettendoci la stessa voglia e passione che trovano nei momenti dei divertimenti.
Nel mio percorso lavorativo ho sempre cercato di seguire determinate regole, aggiornandomi gradualmente con il tempo, senza stravolgere nulla, perché certe regole di base sono sempre le stesse. E sono quelle che mi hanno consentito di compiere il mio dovere di figlio, di marito, di padre e di imprenditore. Si tratta di farne buon uso, applicandole giorno dopo giorno ed evitando influenze negative.
Dobbiamo essere noi i veri creatori e padroni di noi stessi, sapendo assumere le giuste decisioni e prevenire ciò che potrebbe accadere”.

In appendice al libro (che, non a caso, è arricchito da numerosi vocaboli ed espressioni dialettali, rimasti cristallizzati nella memoria di chi è stato strappato giovanissimo alla sua terra) un intero capitolo è dedicato ai proverbi (in dialetto e commentati) “che sono stati alla base della mia formazione e sono stati una bussola di saggezza nella mia vita, ho voluto trascriverli a beneficio dei giovani. Molti di essi sono presenti anche in altri paesi del Gargano e d’Italia e rappresentano la sintesi della saggezza della civiltà pastorale e contadina, nella quale quelli della mia generazione sono nati e in parte vissuti, assistendone all’irreversibile tramonto. Gli antichi proverbi contengono preziosi insegnamenti da non trascurare perché ci guidano nel nostro cammino”.

E infine una fotostoria che sottolinea con immagini d’epoca le fasi salienti di un’autobiografia italiana, al tempo stesso comune a quella di molti meridionali emigrati al nord e, per diversi aspetti, fortemente originale e significativa.

https://abitarearoma.it/il-pastore-che-sognava-lofficina-di-rocco-carbonella/


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