“Oggi soli, domani sicuri. Le proposte dei Ds per la sicurezza dei cittadini”. Su questo attuale problema si terrà giovedì 30 marzo alle 17,30 presso l’hotel Metropole in via Principe…
Trump ha vinto. Dies nigro signanda lapillo
Innanzitutto una traduzione della citazione latina nel titolo. Vuol dire, per chi non conoscesse il latino: Giornata da segnare con una pietruzza nera (Allusione all’uso dei Romani di segnare i giorni felici con sassolini bianchi, e quelli avversi con pietruzze nere).
Trump ha vinto. E non è una buona notizia. Ma perché ha vinto? Perché un miliardario senza buona creanza politica ha potuto battere l’esponente democratica? E perché ha vinto dopo la presidenza Obama che aveva segnato al suo attivo, a differenza di quel che accade in Europa, una crescita economica di un certo spessore?
Come si sa, gli americani, più che ai risultati in politica estera, quando vanno a votare guardano alla propria condizione economica e sociale. Bush padre, per esempio, uscito vincitore dalla Guerra del Golfo non ne uscì dalla cattiva performance economica, e fu battuto da Clinton nel ’92. Obama vinse a valanga in seguito all’esplosione della crisi finanziaria ed economica del 2008 a cui si aggiunsero i disastri repubblicani di Bush figlio in Medio oriente che, però, non furono di per sé determinanti. Poi, il primo presidente nero fu riconfermato nel 2012 perché aveva rimesso in moto economicamente gli Stati Uniti, fatto qualche intervento sociale significativo come nel campo dell’assistenza sanitaria, con l’”Obamacare”, e anche sulle banche, ma senza che tutto ciò modificasse la condizione di fondo dei “colletti blu” e del ceto medio che hanno continuato a subire in casa gli effetti perversi della globalizzazione e della deindustrializzazione. La “questione sociale”, per dirla in sintesi, ha sovrastato ogni altra considerazione e contraddizione di Trump. Essa aveva già determinato dentro ai democrats statunitensi il successo di Bernie Sanders, la cui spinta, soprattutto fra i giovani, a un cambiamento anti establishment con un segno di sinistra, è stata considerata troppo estrema e poco competitiva con l’eventuale avversario repubblicano che poteva scaturire dalle primarie, pensando, come da tradizione, che lo scontro si vincesse al centro, nell’attrarre il voto moderato, colto e benestante. Mentre era nel corpo sociale della working class di istruzione bassa e popolare che Trump ha impegnato e vinto la sua battaglia.
I suoi sostenitori, infatti, si trovano, essenzialmente, nel ceto medio e operaio precarizzato e senza lavoro per le delocalizzazioni industriali. A essi il Tycoon ha detto che il loro profondo disagio è colpa, da una parte, dal venir meno dei dazi protezionistici delle merci prodotte negli States che, secondo lui, le metterebbe al riparo dalla competizione mondiale, e, dall’altra, degli immigrati: i latinos che portano insicurezza economica e i musulmani i pericoli terroristici. Poi su queste cose ha colto l’occasione di innestare la rabbia anti establishment – la figura della Clinton gliel’ha offerta su un piatto d’argento – e l’appello, “America first”, alla revanche dell’americano bianco-anglosassone-protestante-portatore di armi, padre fondatore degli States. Più qualche altra cosetta di contorno. E il cocktail velenoso è stato servito e bevuto.
Cosa ci dicono quindi queste elezioni che portano ai vertici del mondo lo screanzato – con le donne, i neri, gli immigrati – Tycoon newyorkese?
Primo, ci dicono che la crescita economica nell’attuale condizione tecnologica non porta con sé la sicurezza sociale. In altri termini i processi di globalizzazione finanziaria neoliberista che presero avvio alla fine degli ‘70, innestatisi sulla rivoluzione tecnologica e produttiva, hanno continuato, anche nell’America col Pil + 2,9%, a precarizzare il lavoro. Il vecchio mondo della produzione fordista, collocato prevalentemente negli Stati della cosiddetta “cintura della ruggine”, sottoposto alla competitività globale, è stato destabilizzato e frantumato, impoverendo la classe operaia e il ceto medio.
Secondo, la questione riguarda tutto il vecchio occidente euroatlantico, anche se, politicamente, si manifesta in modi diversi nei singoli paesi. C’è una domanda di sicurezza sociale che proviene da quelle classi che un tempo, durante il “trentennio glorioso”, furono la solida base della democrazia, che le élite politiche, ovvero le classi dirigenti, soprattutto a sinistra, non riescono né a sentire, né a vedere, né a raccogliere. Neanche le élite della destra tradizionale ci riescono e vengono travolte dall’interno, come nel caso americano, o dall’esterno, come in quello europeo, con movimenti nuovi il cui segno unificante, però, com’è stato osservato e analizzato da più parti, è quello della protesta sociale delle periferie unito al rancore anti establishment.
Terzo, sono movimenti diversi tra loro, di cui sarebbe sbagliato fare di tutt’erba un fascio. Sono però movimenti le cui proposte tendono tutte, chi più chi meno, a rifiutare le conseguenze nefaste, almeno nell’Occidente euroatlantico, della globalizzazione offrendo come ricetta risolutiva una chiusura sul terreno nazionale e statale. Una chiusura che viene ad accentuarsi in conseguenza dei fenomeni immigratori, anche questi innescati, in ultima istanza, dai processi di globalizzazione e dalle guerre cui hanno dato luogo che hanno prodotto l’accrescersi dei conflitti di varia natura, etnici, religiosi, nutrienti il terrorismo islamico, e di potenza.
Quarto, sono ricette sbagliate e anche pericolose. Sbagliate perché non vanno alle cause del problema che sono appunto gli animal spirits del capitalismo liberati dalla globalizzazione finanziaria. Pericolose, perché invece di unire le vittime di quegli spiriti animali per contrastarli e modificarli, tendono a metterle le une contro le altre in una globale guerra fra poveri che, innescando nazionalismi, muri, divisioni e quant’altro, possono estendere i conflitti interstatali anche in Europa fino a nuovi pericoli di guerra, oltre ad accentuare e rendere cronici quelli già esistenti in Africa e in Medio oriente.
Quinto, come si rimuovono le cause e gli effetti di una globalizzazione perversa che sta destabilizzando le democrazie occidentali anche nei punti che, pur con tutti i loro limiti e contraddizioni, sembravano comunque più al riparo? Bisogna mettere sotto controllo con appositi strumenti e regole globali sia la finanza internazionale sia il potere delle multinazionali. Ciò non significa che la dimensione statale non abbia ancora una sua importanza nell’affrontare le questioni della sicurezza sociale ed economica, ma essa non è più sufficiente. L’anonima “sovranità dei mercati” occorre riportarla sotto la “sovranità della democrazia e della politica”. Le delocalizzazioni industriali e gli spostamenti di capitale finanziario vanno messi sotto controllo, le banche d’affari vanno separate da quelle commerciali, la questione della protezione del lavoro e dei lavoratori va posta al centro del discorso politico a livello continentale e mondiale. La competizione economica e di mercato non può essere abolita, sarebbe una pura utopia regressiva ma bisogna, con regole opportune e con un’azione di intervento pubblico statuale e sovranazionale, renderla virtuosa puntando sulla qualità e l’innovazione dei prodotti e dei processi produttivi, e non uno scontro senza regole, giocato tutto sui bassi costi del lavoro che mette in competizione i lavoratori tra di loro.
Sesto, ma chi può farsi portatore di una simile politica se non una sinistra rifondata che riacquisti una dimensione di azione internazionalista? Una sinistra che parli un unico linguaggio nei cinque continenti: in Europa, in America, in Asia, in Africa, in Oceania. Una sinistra dedita a reimmergersi e riorganizzare il “popolo degli abissi”, quello delle moderne periferie sociali, per unirlo e sottrarlo alle sirene del populismo demagogico che negli Usa ha assunto le sembianze inquietanti del grande magnate finanziario che marcia alla testa degli operai declassati. I problemi che l’hanno portato a vincere, Trump non li risolverà. Ma con le sue ricette potrà far male, molto male all’America e al mondo intero.
Per noi italiani tutti impegnati nello scontro referendario, il risultato elettorale americano ci dice, sostanzialmente, che stiamo parlando d’altro. Lontani dai problemi veri e socialmente corposi che minacciano di destabilizzare definitivamente anche la nostra democrazia.