

Noi italiani, purtroppo, conosciamo bene le crisi di governo. Quelli della mia generazione, venuti alla luce all’inizio della seconda guerra mondiale, sono cresciuti a pane e latte nell’infanzia, per passare poi a una dieta più bilanciata, composta da lipidi, glucidi, protidi e crisi di governo.
Se fin dalle prime elezioni del 1948, era stabilito che il governo dovesse restare in carica 5 anni (o se preferite, un lustro), se fosse durato l’intera legislatura, uno come me avrebbe dovuto mantenere memoria di circa una quindicina di governi, uno più, uno meno. La frase però è viziata dal fatidico se, perché in realtà, il governo attualmente in sofferenza è: udite, udite… il sessantaseiesimo! A significare che in Italia, il governo, di qualsiasi colore – bianco, rosso, verde e financo scureggiallo – è durato mediamente poco più di un anno. Un avvicendamento che fa onore al principio democratico: un po’ per uno, non fa male a nessuno. O meglio, per tradizione, fin dall’inizio, un governo resta in vita come un gatto sul Grande Raccordo Anulare. Eh già, però non è così che si fa il bene dell’elettore, perché questa è forse la principale delle cause per spiegare come mai nessuno dei governi succedutisi negli anni abbia avuto modo di governare. Semplicemente una cattiva abitudine, niente di più. Se andate a vedere i primi governi della repubblica, quando la DC non avrebbe dovuto avere troppi impicci per durare. Eppure fin dall’inizio, i governi stavano e continuano a stare come / d’autunno / sugli alberi / le foglie.
Riassumendo, la inconsistente durata dei governi deve essere posta alla base della perdurante ingovernabilità della Nazione, ma non basta.
La pochezza politica degli eletti, la loro capacità di fare politica, col tempo è andata sempre più impoverendosi, come un alimento che si deteriora, perché di scarsa qualità, o perché mantenuto con sciatteria. Oggi, a distanza di più di settanta anni, lo spessore di chi ci governa è davvero scadente per capacità politica, o addirittura per la disonestà troppo spesso emergente all’interno di coloro che si sono, prima candidatati al seggio parlamentare con candore immacolato, e successivamente eletti dal popolo accorso alle urne. Quindi, se oggi ci troviamo mal governati – in the hands of the last owner (nelle mani dell’ultimo proprietario) –, frase ricorrente, che comincia a serpeggiare, con sorpresa e meraviglia, anche nella politica degli Stati Uniti), è troppo scontato e improprio rivolgere al colpa ai politici.
La colpa è soprattutto nostra, incapaci di reperire qualche probo viro, in sostituzione di chi abbiamo mandato a rappresentarci fino a ieri. Probabilmente, non lo troviamo perché non esiste. E questa considerazione è per noi la più inquietante, perché sta significare che nella pletora di aspiranti al seggio, i più non sono degni: non di essere eletti, ma manco di essere candidati, E’ mai possibile? Eppure è così, perché parallelamente all’imbarbarimento della politica e di chi ci sguazza, esiste mediamente un altrettanto degrado culturale nell’elettorato. In una parola, l’una è speculare dell’altro. Il cane continuerà a mordersi la coda, fin quando non si vorrà capire quanto sia necessario partire dalla cultura del Paese, punto nodale per sperare di risollevare una cittadinanza lasciata alla deriva da tutte quelle istituzioni che, in questi anni di democrazia repubblicana, hanno fallito nell’educazione civica, che è proprio lei, in fondo, alla base della crescita morale di una Nazione, formandone l’humus.
Soltanto il recupero culturale può far germogliare il senso di appartenenza, che ci è sempre mancato, non disgiunto dal principio di un’empatia reciproca, ancora tutta di là da venire.
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