“VianDante”: i luoghi della “Divina Commedia” nel Lazio (1)

Brunella Bassetti - 16 Marzo 2021
Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita. // Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”.

Nel 1300, durante il periodo quaresimale, il sommo poeta – Dante Alighieri – iniziava il suo viaggio narrativo didascalico-allegorico così mirabilmente descritto nelle sempiterne terzine della “Divina Commedia”.

La selva oscura rappresenta simbolicamente il luogo in cui Dante si smarrisce all’inizio del poema: allegoria del peccato in cui ogni uomo può perdersi nel suo cammino durante questa vita. Il viaggio che egli farà nell’oltremondo, guidato da Virgilio inviatogli da Beatrice in suo soccorso, si dipana proprio da siffatto luogo dove il protagonista ed io-narrante ‘pien di sonno’ – cioè con l’anima gravata dal torpore spirituale – vi si smarrisce.

Gli elementi figurativi della selva: dall’intrico all’impenetrabilità, al sonno che coglie in viandante sono topoi cari quanto comuni alla letteratura religiosa e morale del Medioevo che, in parte o in tutto, li desumeva sia dalla tradizione biblica sia dalla letteratura classica.

La prima terzina (in realtà l’intera opera è scritta secondo una struttura di terzine incatenate di endecasillabi, poi chiamate per antonomasia “terzine dantesche”) molto probabilmente la più famosa e conosciuta di tutta la letteratura italiana e mondiale, negli anni si è prestata ad innumerevoli interpretazioni letterarie e non. Inoltre, a tutt’oggi, quasi unanimemente gli studiosi sono concordi nell’individuare geograficamente la celebre e tanto decantata ‘selva oscura’ nell’area appartenente alla “Silva Cimina”, in provincia di Viterbo. Quindi, non un’invenzione fantastica nata dall’immaginazione del poeta ma un luogo reale che Dante aveva avuto modo di vedere e visitare.

Tra i tanti pellegrini recatisi a Roma nell’anno 1300 in occasione del primo Giubileo della storia indetto da Papa Bonifacio VIII, molto probabilmente ci fu anche Dante (non ci sono, tuttavia, documenti in tal senso ma ipotesi e coincidenze narrative che si evincono dalla lettura, per esempio, di alcune terzine in Inferno, canto XVIII, vv.28-33). L’unica visita, sicuramente attestata, avvenne l’anno successivo – nel settembre 1301 – quando il nostro fece parte dell’ambasceria inviata da Firenze al Papa per ben disporne l’animo verso la città.

Comunque, nel suo viaggio verso Roma verosimilmente il padre della lingua italiana passò, quasi sicuramente, per la “città dei pellegrini” ossia Viterbo lungo la Via Francigena. Inoltre, non ci sono dubbi che lo stesso venne a conoscenza di avvenimenti accaduti nella cittadina medievale così come alcuni luoghi circostanti descritti o cui si rimanda all’interno della “Comedìa”.

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola, / dicendo: ‘Colui fesse in grembo a Dio / lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola” (Inferno, canto XII, vv. 118-120)

Questi versi si riferiscono alla vendetta di Guido di Montfort a spese di Enrico di Cornovaglia avvenuta il 12 marzo 1271 proprio a Viterbo presso la Chiesa di San Silvestro.

“Tacendo divenimmo la ‘ve spiccia / fuor della selva un picciol fiumicello, / lo cui rossore ancor mi raccapriccia. // Quale del Bullicame esce ruscello / che parton poi tra lor le pettatrici, / tal per la rena giù sen giva quello. // Lo fondo suo ed ambo le pendici / fatt’era ‘n pietra, e margini dallato”. (Inferno, canto XIV, vv. 76-83)

Per descrivere il fiume infernale Flegetonte Dante si serve di una similitudine paragonandolo alla famosa sorgente di acqua sulfurea del Bullicame, antica sorgente di acqua sulfurea situata appena fuori Viterbo.

Dar Ciriola
… ebbe la Santa Chiesa e le sue braccia: / dal Torso fu, e purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la Vernaccia” (Purgatorio, canto XXIV, vv. 22-24)
Ugo da San Vittore è qui con elli, / e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, / lo qual giù luce in dodici libelli …” (Paradiso, canto XII, v. 135)

Altri riferimenti a Viterbo e al territorio della Tuscia li ritroviamo, per esempio, nel canto XXIV del Purgatorio dove nel VI Girone, quello dei golosi, il papa Martino IV viene ricordato per la sua “passione smodata e peccaminosa” per le famose anguille del Lago di Bolsena. Oppure, riferendosi a papa Giovanni XXI (unico pontefice portoghese salito al soglio di Pietro, conosciuto come Pietro di Giuliano o Pietro Ispano, sepolto nella Cattedrale di Viterbo), Dante ne tesse apertamente le lodi come Autore di opere per le quali ‘riluce’, non solo in terra, ma anche in Paradiso.

Considerando, quindi, queste spie narrative la selva oscura, impraticabile, spaventosa che finì per coincidere – metaforicamente – nella mente di Dante con uno dei periodi più bui della sua vita personale divenendo addirittura il preambolo della discesa agli inferi può ben identificarsi la famosa “Silva Cimina”.

D’altronde, la stessa, già anticamente era stata descritta in maniera similare dallo storico romano Tito Livio nella sua monumentale opera sulla storia di Roma “Ab urbe condita”:

 Silva erat Ciminia magis tum invia atque horrenda quam nuper fuere Germanici saltus” (“A quei tempi la Selva Ciminia era più impervia e spaventosa di quanto siano apparsi, in tempi recenti, i boschi della Germania”), e che “nulli ad eam diem ne mercatorum quidem adita” (“nessuno fino ad allora aveva osato avventurarvisi, nemmeno i mercanti”).

A quei tempi costituiva la difesa naturale e il confine tra le terre etrusche e l’Impero Romano. Sarà solo il console Quinto Fabio Massimo Rulliano a riuscire ad attraversarla nel 310 a.C. quando il fratello, Marco Fabio, conoscendo molto bene la lingua etrusca si offerse di esplorarla accompagnato da un suo servo anch’egli profondo conoscitore della lingua e degli usi e costumi etruschi. Al ritorno dalla loro spedizione in incognito poterono riferire notizie utili per programmare quella che sarebbe stata la strategia di penetrazione nel cuore dei territori etruschi e che segnò la fine di questa grande civiltà.

Cosa rimane oggi della “selva inespugnabile”?

Un vero monumento naturale a cielo aperto che il 7 luglio 2017 ha ottenuto l’ambìto riconoscimento di “Patrimonio Naturale dell’Umanità” (UNESCO) con la denominazione: “Faggeta Vetusta dei Monti Cimini” (nel territorio del comune di Soriano nel Cimino) selezionata per la sua unicità biologica ed ecologica, per l’eccezionale valore naturalistico e per l’incredibile biodiversità che la contraddistingue.

Circa sessanta ettari ricoperti, perlopiù, dal faggio “Fagus Sylvatica” con esemplari di dimensioni maestose alcuni dei quali raggiungono anche i quaranta metri di altezza creando la cosiddetta “fustaia a cattedrale”. Una faggeta tra le più maestose di tutto il centro Italia, antichissima e “primordiale” non avendo subìto cambiamenti nel corso dei secoli.

Un luogo incantato, sospeso, fuori dal tempo e dallo spazio. Un luogo che ricorda le tipiche atmosfere narrate dal Tolkien nel celebre romanzo “Lo Hobbit”. Passeggiare tra questi faggi ultracentenari è un’esperienza sensoriale, visiva, psicologica che ci mette in relazione, in contatto con il lato più antico della natura e dell’essere umano.

Storie millenarie, storie letterarie, storie leggendarie sono custodite in questi scrigni preziosi, in questi monumenti e cattedrali della natura. Sono silenti depositarie di sapere: ogni tronco, ogni ramo, ogni foglia racchiude una natura nascosta e affascinante, mutevole nelle stagioni e perpetua nell’aspetto. Alberi che parlano alle nostre radici e raccontano storie straordinarie della nostra evoluzione millenaria impressa nella natura. Tesori naturali da conservare, tutelare e tramandare.

Se Dante la percorresse oggi non proverebbe un senso di smarrimento ma, sicuramente, di “beatitudine”.

“… e la forte Etruria crebbe:

di’ come sovra le congiunte ville

dal superbo Cìmino a gran passo

calò Gradivo poi, piantando i segni

fieri di Roma”

(G. Carducci, Alle fonti del Clitumno)

 

Per saperne di più

Si veda “Antiche e primitive foreste di faggio dei Carpazi e di altre regioni d’Europa”.  In Italia ci sono dieci siti naturalistici protetti dall’UNESCO: Nel Lazio, oltre la Faggeta dei Monti Cimini, ricordiamo anche la “Faggeta di Monte Raschio” nel territorio di Oriolo Romano e situata all’interno del Parco Naturale Regionale di Bracciano-Martignano.

Maggiori info: www.prolocosoriano.it o www.caiviterbo.it

Cosa vedere all’interno della Faggeta:

Torretta e sito proto-storico in vetta – Il Sasso menicante o ‘naticarello’ – I massi trachitici – I faggi secolari più alti d’Europa

Cosa vedere in zona:

Soriano nel Cimino (Castello Orsini e Scuderie Chigi-Albani); Viterbo, la “città dei Papi”; Caprarola (Palazzo Farnese); Vignanello (Castello Ruspoli e il suo magnifico giardino all’italiana).


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