La maternità, il lavoro (perso e riconquistato) e le donne
La donna che lavora, per questo nostro Paese, è sempre stato un problema. Le donne – si diceva una volta (ma ancora si dice) – “devono stare a casa e badare alla famiglia e ai figli”, volgarmente parlando devono “fare la calzetta”. Sembra di ricordare i tempi andati del “Dio, Patria e Famiglia”: la donna “angelo del focolare” e “regina della casa” che vive per l’uomo. Accudente (e accondiscendente) in casa, ma anche al bordello, prima della loro chiusura (*) nella più classica dicotomia Maria / Eva.Tempi andati, si diceva.
Ma quando sono venuto al mondo io, nel 1950 e poi ancora per più di un decennio, le poche donne che lavoravano erano mosche bianche, dovevano firmare una Dichiarazione in cui si impegnavano a non sposarsi e fare figli, pena il licenziamento, e spesso quella “Dichiarazione” veniva firmata “in bianco”, come proprio subdola arma di ricatto pronta all’uso in caso di bisogno del padrone, si capisce.
Ma come in tutte le cose di questo mondo anche in questo puzzle perfetto, c’era un pezzo “fuori posto”. Ricordo una “mitica” trasmissione RAI che s’intitolava “La Donna che lavora”, curata da Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, che raccontava agli italiani la fatica, ma anche la “novità” delle donne lavoratrici, la cui prima delle otto puntate andò in onda il 25 Marzo del 1959 e la di cui sigla musicale – intitolata “Stasera tornerò” e composta da Gino Peguri – era cantata da Miranda Martino, nota cantante e attrice dell’epoca che, per quella sigla, e perché era iscritta al PCI, non mise più piede in RAI.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti di questa Repubblica, che si dice “nata dalla Resistenza” e le donne si sono conquistate, con la lotta, il loro posto nella società e il diritto – vedi l’Articolo 3 della Costituzione – di vivere e lavorare in condizioni di dignità ed eguaglianza con gli uomini. Al riguardo va osservato e ricordato però che, mentre la parità giuridica effettiva uomo-donna si avrà solo nel Maggio del 1975 (a trent’anni dalla Liberazione e a ventisette dalla promulgazione della Carta Costituzionale) con la Legge n.151, sulla Riforma del Diritto di Famiglia, la parità salariale uomo-donna, a parità di lavoro, è ancora, per molte donne, un traguardo da raggiungere e spesso resta – come cantava Anna Maria Menzio, in arte Wanda Osiris (Osiri durante il fascismo) – una chimera, meglio una “dolce illusione”.
Dagli anni ‘50-‘60 del ‘900 molto si è fatto anche dal punto di vista della protezione della maternità delle donne che lavorano a partire, ad esempio, dalla Legge n.1204/71 che reca al titolo: “Tutela delle Lavoratrici Madri”. Ma anche qui, per esemplificare quello che ancora non va, si potrebbe usare l’antico e sempre valido adagio popolare che recita: “Fatta la Legge, trovato l’inganno”. Volete un esempio direi fresco quasi di giornata? Eccovelo.
Lei si chiama Katia Pellegrino, ha 39 anni e al ritorno in Ufficio (lavora per la Emmecitecnica di Leini, nel torinese) dopo la seconda gravidanza, non ha trovato più la sua postazione di lavoro. Al suo posto c’era una lettera di licenziamento, motivo: l’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia. Così, la crisi globale che il mondo intero sta attraversando la pagano, per prime, le donne che lavorano e che, insieme, decidono di “dare una spinta in su” alla scarsa natalità che si registra, da tempo, in Italia e della quale tutti, a cominciare dai politici, si lamentano.
Dopo un confronto serrato Azienda-Sindacati la retromarcia dell’Azienda sul licenziamento di Katia, tra l’altro RSU della UILM in Azienda, c’è stata, ma non è stata facile, come avrebbe dovuto essere, non rientrando il motivo addotto dall’Azienda tra quelli per i quali è possibile licenziare. Non è stato facile ridare a Katia il suo posto di lavoro. C’è voluta, infatti, la mobilitazione del Sindacato e l’intervento della politica regionale per far “tornare alla ragione” la Emmecitecnica che – come direbbero dalle mie parti – “c’ha provato”. E dunque, il licenziamento è stato ritirato e la lavoratrice è tornata al suo posto di lavoro, anche se demansionata (e per questo dovrà fare un Corso di reinserimento per capire se potrà tornare alla sua vecchia mansione) e ha conservato lo stipendio. Ma la sua storia ci dice che ancora oggi, anno 2023, per le donne che lavorano è duro resistere ché sono sempre le prime a pagare ristrutturazioni, delocalizzazioni e quant’altro i padroni (sorry, gli industriali) mettono spesso sul piatto della vita di chi lavora, per diminuire i costi e conservare, o aumentare, il profitto, dimentichi del fatto che chi si lancia nel campo industriale deve mettere in conto anche i cosiddetti “rischi d’impresa”.
Certo, la storia di Katia Pellegrino si è conclusa bene, ma ci dice che le parole di quell’Articolo 3 della Costituzione hanno – per molti cittadini anche lavoratori – pericolose assonanze e vicinanze con il significato del termine “utopia”:
s.f. dal nome di un paese ideale, coniato da Tommaso Moro, che così intitolò un suo famoso Saggio (1516). Termine composto dal greco “oy” “non” e “tópos” “luogo”; quindi “luogo che non esiste”.
Per restare nel torinese, Adriano Olivetti (1901-1960), da molti definito un industriale illuminato e per il tempo che ha vissuto certamente avanti e “fuori luogo”, riguardo l’utopia sosteneva: “Beh, ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande.”.
Parole chiare, di un uomo come, purtroppo, non ne fanno più. Parole che parlano di capacità, di volontà di “essere e fare”, ma anche di capacità di ascolto degli altri da sé e, se necessario, di lotta per ottenere ciò che è dovuto (leggi i diritti di tutti e tutte). Parole che ci dicono molto, anche oggi, se sappiamo coglierne il senso rivoluzionario che, ancora oggi conservano..
Nota Finale in tema: Lei è francese, si chiama Clarisse Cremér, ha 34 anni e su una barca a vela è la donna più veloce del mondo, infatti, ha compiuto il giro del mondo in solitaria in 87 giorni e 2 ore. Una campionessa, dunque, una di quelle donne che può dire – a ragione – “ce l’ho fatta, come e meglio di un uomo”. Al tempo. Perché quest’affermazione, alla prova dei fatti, si è rivelata quanto meno incauta. Perché? Perché ora che è diventata mamma, il suo sponsor, la Banque Populaire, l’ha mollata e, per il prossimo giro del mondo in solitaria su una barca a vela, l’ha sostituita con un uomo per paura che, per le fatiche della maternità, non riesca a qualificarsi. Che dire? Purtroppo, lo devo scrivere: “tutto il mondo è paese”.
(*) La legge n. 75 del 20 febbraio 1958 è meglio nota come Legge Merlin, dal nome della promotrice nonché prima firmataria della norma, la senatrice Lina Merlin, che fu la prima donna a sedere nel Senato della Repubblica Italiana; a lei si deve, tra l’altro, la frase dell’articolo 3 della Costituzione Italiana: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso … ». La Legge Merlin determinò la chiusura delle cosiddette “case chiuse” ma questa legge non vieta la prostituzione in sé, bensì chi la favorisce e la sfrutta. In Italia la prostituzione si configura quindi come un’attività in sé lecita, ma al tempo stesso la legge punisce tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino (ad esempio, la legge punisce i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione)
Il dibattito politico e pubblico sulle “case chiuse” in realtà non si è mai spento. Già nel 1963 era stata sollevata una prima questione di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale invece nel marzo 2019 ne ha confermato la validità e la legittimità costituzionale.
SI VEDA – Morosi S., Rastelli P.: I 60 anni della Legge Merlin e la fine delle “Case chiuse”, 20/02/2018, disponibile on line su http://pochestorie.corriere.it/2018/02/20/i-60-anni-della-legge-merlin-e-la-fine-delle-case-chiuse/