Memoria sarda: Samuele Stochino, la “tigre d’Ogliastra”
La storia in giallo di un bandito sanguinario“Quello che fa paura di Samuele è che arriva sempre a un passo dalla morte. Ma poi nemmeno la morte lo vuole veramente. E lo rimanda indietro.” (Marcello Fois.”Memoria del Vuoto”, Einaudi, 2015)
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“I morti non scappano, sono già scappati” (da “Samuele Stochino”, Racconto teatrale di Gianna Deidda, 2012)
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Nota; sulla testa di Samuele Stochino, soprannominato la Tigre d’Ogliastra, Mussolini fece mettere la taglia più alta mai fissata prima per un “brigante”: duecento-cinquanta-mila-lire.
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Che cos’ha di particolare la fine terrena di Samuele Stochino noto come “La tigre d’Ogliastra”, morto a 43 anni di febbre polmonare ad Ulassai, piccolo Borgo del Nuorese, perché Emilio Lussu – confinato politico antifascista, fondatore del Partito Sardo D’Azione, poi Padre Costituente per Giustizia e Libertà e infine Senatore della Repubblica per il PSI – lo ricordasse in un suo Intervento sulla criminalità in Sardegna, tenuto, in Senato nel Dicembre del 1953. con queste parole:
«Samuele Stochino era un sottufficiale nell’altra guerra, decorato con medaglia d’argento al valore militare, umano e mite. Il bandito Stochino fu poi un’altra personalità, non più il sergente Stochino, ma un’altra coscienza, non sua, venuta dal di fuori, dalle lontane tenebre di un mondo bestiale ed estranee alla sua infanzia e giovinezza.».
E così Lussu – che durante la Grande Guerra era stato un Ufficiale della Brigata Sassari – concluderà quel suo intervento:
«Spesso è un imputato, per falsi indizi, per malvagità dei nemici, per un vuoto nel senso di responsabilità dell’autorità inquirente. Spesso è un innocente che si butta alla macchia perché gli manca la fiducia nella giustizia.».
Non che Stochino, nei panni della “Tigre d’Ogliastra” sia stato un angioletto. Aveva ucciso e aveva ucciso con ferocia. Ma Lussu poneva l’accento sul perché Stochino fosse diventato un feroce criminale e sul fatto che nulla aveva fatto – e faceva – lo Stato, democratico da appena una manciata d’anni, per migliorare una condizione di vita che nella terra in cui Stochino (1895-1928) era vissuto ed era morto, era rimasta praticamente quella dei suoi tempi.
“Samuele Stochino”, Racconto teatrale di Gianna Deidda, 2012
«…Samuele Stochino… lo conoscevo, siamo stati sempre solitari, ci siamo parlati poco… era furbo, anche troppo. Lo sapevano i carabinieri, che non lo hanno mai acchiappato. Solo quando era morto, lo hanno preso. I morti non scappano, sono già scappati…»
Così ha inizio il racconto sulla breve vita della cosiddetta “Tigre d’Ogliastra”: un giovane pastore di capre, sergente di Fanteria della Brigata Sassari decorato con medaglia d’argento al valor militare, eroe de Sa gherra manna [la “Guerra Grande”, Ndr.], uomo “umano e mite” (come lo definì Emilio Lussu) divenuto un ferocissimo latitante che si fece beffe della “giustizia” fascista per quasi dieci anni e finì ucciso in un agguato dai Carabinieri. Morto sparato, secondo la versione ufficiale oppure – secondo la voce del popolo – morto di polmonite e “venduto” cadavere a maggior gloria del duce
L’unica vera macchia nella sua memoria – e forse la reale causa della sua fine – è “la storia della bambina” uccisa dal bandito, contro ogni regola della comunità, pochi giorni prima della sua morte e che, nei racconti dei pastori fra Arzana ed Escalaplano, rimane come un sordo dolore senza spiegazione.
Fonte: https://giannadeidda.wordpress.com/portfolio/samuele-stochino
Dunque, è il caso di approfondire e di cercare di conoscere la vera storia di Samuele Stochino, bandito sardo per vendetta, e per raccontarla, inizierò dalla fine.
Dietro la morte di Samuele Stochino non c’è solo la trasformazione di un uomo da eroe di guerra a feroce criminale. Dietro quella morte c’è una storia inventata per coprire un vilipendio di cadavere (che già al tempo era reato): si disse che Stochino era morto in un conflitto a fuoco con i Carabinieri, ma in realtà il bandito di Arzana era morto di febbre polmonare, patologia che non lo aveva più abbandonato fin dal suo ritorno dal Fronte, al termine della Prima guerra mondiale.
Certo, l’inganno sulle cause della sua morte e il successivo vilipendio del cadavere, che pare – anzi è certo – fosse stato effettuato, non depongono a favore dell’operato degli Inquirenti e delle Forze dell’Ordine del tempo, ma si era nel 1928, c’era il fascismo e con i criminali come Samuele Stochino il regime non ci andava leggero. Per fare solo un esempio, dal 1924 il Prefetto di Palermo Cesare Mori (1871-1942), noto anche come il “Prefetto di ferro”, era stato inviato in Sicilia da Mussolini in persona per combattere la mafia e la Storia racconta che i suoi erano modi assai spicci di risolvere le cose, che comunque non lo portarono ad avere ragione di quella che già allora era e si comportava come una piovra criminale.
La mafia in camicia nera
Nel biennio 1926-1927 il fascismo si propose di venire a capo del problema mafioso in Sicilia. Il Prefetto di Palermo, Cesare Mori, incaricato personalmente da Mussolini di risolvere la situazione, intraprese una serie di operazioni di polizia tra le province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta che portarono a 11mila arresti. Per Mussolini la mafia poteva dirsi sconfitta. In realtà quella sgominata da Mori, con misure fortemente repressive, era la cosiddetta “mafia degli stracci”, la delinquenza minuta, mentre agrari e notabili trovarono asilo, protezione, interessi e poi amnistie nel Partito Nazionale Fascista.
Per quanto riguarda, invece, la fine pubblicizzata di Samuele Stochino la mente torna ad un’altra storia con contorni simili, quella della fine di Salvatore Giuliano, detto Turiddu (1922-1950) che – è ormai Storia – non morì, come fu al tempo ampiamente pubblicizzato, durante un conflitto a fuoco con i Carabinieri e di lui, come titolerà la stampa per molto tempo dopo quel fatto, “di sicuro si sa solo che è morto”. (*)
“Venga a prendere il caffè da noi”
Il 9 Febbraio del 1954, nella cella n. 32 del Carcere palermitano dell’Ucciardone, muore Gaspare Pisciotta (1924-1954) bandito siciliano e braccio destro (leggi luogotenente) di Salvatore Giuliano, noto come Il bandito Giuliano, Bannera, Re di Montelepre, detto Turiddu. Pisciotta muore per aver bevuto una tazzina di caffè corretto alla stricnina.
Quando, quattro anni prima, muore Giuliano, Pisciotta è in carcere condannato all’ergastolo e ai lavori forzati. Al suo Processo, svoltosi a Viterbo e concluso nel 1952, Pisciotta aveva parlato, detto e non detto, senza però rivelare tutto quello che sapeva e lasciando aleggiare nell’Aula del Tribunale mezze verità e allusioni su quello che si teneva per sé.
In carcere poi, il 6 Febbraio del 1954, incontrerà l’allora Sostituto Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione (1906-1971) – che sarà assassinato da Cosa Nostra a Palermo diciassette anni dopo quell’incontro – e dichiara di essere intenzionato a raccontare quello che sa, ad esempio, sui mandanti della strage di Portella della Ginestra (1° Maggio, 1947) ma non farà in tempo a tenere fede alla promessa fatta a Scaglione, in virtù di quella tazzina di caffè che con la sua morta diventerà “famosa”.
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II metodo della tazzina di caffè corretta al veleno verrà replicato, nel Marzo del 1986. La vittima, questa volta, si chiama Michele Sindona (1920-1986), chiacchieratissimo e spregiudicato banchiere siciliano, piduista con consistenti agganci politici al di qua e al di là dell’Oceano (nel 1973 Andreotti lo aveva definito: ”Il salvatore della lira”) ma anche bancarottiere fraudolento in stretti rapporti con lo IOR Vaticano, allora diretto da Monsignor Paul Marcinkus, e con il ‘mondo a parte’ della mafia.
Sindona, condannato all’ergastolo dalla Corte D’Assiste di Milano come mandante dell’assassinio di Giorgio Ambrosoli – che era stato nominato Commissario liquidatore del Banco Ambrosiano e venne assassinato a Milano, davanti al portone delo Palazzo dove abitava, l’11 Luglio del 1979 – con Sentenza del 18 Marzo 1986, nel Supercarcere di Voghera – dove è detenuto – il giorno 22 di quel mese di Marzo, beve un caffè che non sa essere corretto al cianuro e muore, portandosi nella tomba i segreti di cui era depositario.
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Forse non molti ricordano il cabarettista siciliano Pino Caruso (1934-2019) il quale, in una delle sue performance teatrali, entrava in scena con un vestito a righe da galeotto, con tanto di cappellino in testa, e cantava, sussurrando perfido: «Venga a prendere il caffè da noi, Ucciardone cella 26». La gag era molto apprezzata anche da chi era, al tempo, troppo giovane per conoscere la storia che stava dietro quelle sue battute al vetriolo.
Ma vediamo di capire meglio chi era Samuele Stochino partendo da quanto di lui scrive Daria Lai, sul Sito web APS Agugliastra.it, il Sito dell’Ogliastra:
“Nato ad Arzana nella seconda metà dell’800, nel rione Preda Maore, figlio di Felice Stochino e Antioca Leporeddu, quartogenito di sette figli. Bandito sardo tra i più celebri e spietati del suo tempo, rimase ucciso il 20 Febbraio 1928 al termine di uno scontro a fuoco molto “chiacchierato” con i carabinieri. Era ricercato per una lunga serie di omicidi e di altri gravi reati. Secondo Elettrio Corda “uccideva e faceva scempio dei cadaveri senza rinunciare a lasciare sui corpi straziati messaggi per le autorità”. C’è chi sostiene che la “Tigre d’Ogliastra” fu ucciso da una spia e poi consegnato ai carabinieri, che simularono un conflitto a fuoco per le solite medaglie.
Dopo la carriera militare, Samuele venne rispedito in Ogliastra e dopo alcuni mesi venne sorpreso a rubare dei maiali, tradito da aluni suoi amici che lo volevano in carcere; venne arrestato ma riuscì a divincolarsi dai carabinieri e da lì diventò latitante.
La latitanza sotto il fascismo risultò difficile, per via del fatto che il Regime si scagliò contro la sua famiglia, bruciando prima la casa dei suoi nonni e poi arrestando la sorella Maria per favoreggiamento, anche se la ragazza era all’oscuro delle vicende di Samuele.
In preda all’ira, Samuele commise una serie di omicidi, tra cui donne, uomini e una bambina di dodici anni, figlia di Antonio Nieddu, suo nemico di Arzana. I suoi omicidi vennero commessi in tono di sfida alle forze dell’ordine, susseguiti da diversi scontri a fuoco, da qui gli venne attribuito il soprannome “Tigre d’Ogliastra“.
Durante la latitanza strinse amicizia con un altro bandito di Orgosolo, Onorato Succu, che perse la vita in uno scontro a fuoco in “Sas Fossas” nel 1927 in territorio di Mamoiada. Venne travolto in delitti, che però non furono commessi da lui e molto malato di broncopolmonite, era suo solito rifugiarsi nei territori di Gairo e Ulassai. La sua ultima notte la passò proprio in questi territori, presso l’ovile di capre di “Su Eremule” e il giorno seguente il 20 Febbraio 1928 perse la vita in uno scontro a fuoco con i carabinieri in località “S’Orgiola e Sa Perda” nel tacco, in territorio di Ulassai. I carabinieri trascinarono il suo corpo con i cavalli per tutto il paese, mentre la gente tirava cibi guasti e sputava sul suo corpo.
Il medico legale, però, smascherò il fatto: i carabinieri finsero di averlo ucciso dando fuoco sul suo corpo già defunto e spargendo su di esso del sangue animale. In realtà Samuele era stato ucciso all’ovile “Su Eremule” accoltellato, a tradimento, da due ulassesi, mentre sorseggiava un bicchiere di acqua. Tutti gli ulassesi che fecero parte di questo complotto vennero tragicamente assassinati negli anni a seguire.
Antonio Pilia noto come “Caffeu”, nato a Ulassai agli inizi del ‘900, dopo l’uccisione di Stochino si diede alla macchia e venne trucidato in località Gertassu, agro di Ulassai, nel 1952. La taglia venne incassata da un noto personaggio di Osini.”. (Fonte: https://www.agugliastra.it/cultura-tradizione-in-ogliastra/banditismo/item/4204-la-tigre-d-ogliastra-samuele-stocchino.html) .
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Ecco raccontata la storia di Samuele Stochino, una ‘storia minima’, ma poi nemmeno tanto: due guerre alle spalle (una mondiale e l’altra personale) e una vita da bandito, tirata avanti a fatica fino all’ultimo respiro e finita in solitudine, per una febbre polmonare. Di lui ha scritto Marcello Fois, Scrittore, Commediografo e Sceneggiatore nuorese:
“Dio sparge i cuori a forma di testa di lupo, di scimmia, di pesci dentro ai petti di certi umani, perché sono cuori senza scelta, col destino scritto. […] Poi a qualcuno Nostrosegnore gli dà la maledizione del cuore a forma di brocca che è quello peggiore di tutti, quello che raccoglie e versa, quello che contiene ma non può star chiuso.”.
Forse il cuore di Samuele Stochino, la Tigre d’Ogliastra, aveva proprio quest’ultima forma, la peggiore di tutte, ma nemmeno il vilipendio del suo corpo senza vita risolse quell’enigma che ancora oggi resta tale.
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Libri consigliati: “Memoria del vuoto” di Marcello Fois, Einaudi; “Samuele Stocchino, vita breve di un bandito leggendario” di Lina Aresu, Edizioni della Torre; “Banditi di Sardegna” di Franco Fresi, Newton&Compton, Paolo Pillonca, “Samuele Stocchino, controstoria del bandito di Arzana”, Domus de Janas.
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Questa Nota è stata resa possibile anche grazie all’ascolto del Podcast di RAI Radio3: “Samuele Stocchino, la tigre dell’Ogliastra” della Serie “La Storia in Giallo”, a cura di Antonella Ferrero.
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.(*) Sulla storia e sulla fine di Salvatore Giuliano, vedere (o ri-vedere) il film dall’omonimo titolo diretto, nel 1962, dal regista Francesco Rosi.
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