Raccontare le storie che non fanno la Storia

Come farlo senza retorica? Ce lo spiega lo Storico Carlo Greppi con un libro

Le strade erano tutte di Mazzini e di Garibaldi, dei papi e degli scrittori, di chi comanda e di chi fa la guerra: mai che ti capiti di vedere una via dedicata a uno che faceva i cappelli, a uno che stava sotto un ciliegio, a uno che non faceva niente perché andava a spasso sopra una cavalla.” (Giovanni Maria [Gino] Pedretti, 1923-1981, Poeta dialettale e traduttore romagnolo)

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“Giulio Cesare ha conquistato la Gallia, ma non aveva neanche un cuoco?”.  

Le parole che avete letto della poesia “Domande di un lettore operaio”, scritta da Bertold Brecht (1898-1956) nel 1935, sono certo più famose e citate di quelle che seguono:

“Capitano, che hai negli occhi – il tuo splendido destino – pensi mai al marinaio – a cui mancan pane e vino? – Capitano, che hai trovato – principesse in ogni porto, – pensi mai al rematore – che sua moglie crede morto?”.

Parole che ci arrivano dai versi di “Itaca”, canzone che Lucio Dalla scrive, insieme a Gianfranco Baldazzi e Sergio Bardotti, nel 1971, ma esprimono lo stesso concetto.

Spesso, quelle che io chiamo le storie minime, ovvero le storie della cosiddetta “gente comune”, sono dimenticate ma sono quelle che, insieme alle storie dei Grandi, fanno la Storia con la S maiuscola e senza di queste, la Storia non sarebbe.

Tutte queste righe di parole potremmo definirle come un segnale di attenzione verso “storie minime”, storie quasi mai considerate (e raccontate) che – come scrive lo Storico Carlo Greppi nel suo ultimo Saggio (“Le storie che non fanno la Storia”, edito quest’anno dalla Laterza, di cui qui vi propongo la lettura) “non fanno la Storia”.

Per rafforzare il concetto ci metto del mio e scrivo: cosa avrebbe fatto Giuseppe Garibaldi senza i garibaldini di cui, il più delle volte, nessuno ci racconta vita e imprese? Ci dicono solo – a parte qualche libro di Memorie che ormai possiamo trovare solo nelle Biblioteche – che erano in mille e noi, fin da piccoli, abbiamo il mito dei “Mille” di Garibaldi. Salvo scoprire – una volta cresciuti – che, in realtà, quei 1.000 erano. alla partenza dallo scoglio di Quarto. 1.084 e saranno, alla fine della spedizione garibaldina in Sicilia, ben 60.000, con circa 22.000 soldati piemontesi che figuravano come disertori e colpevoli di aver rubato agli arsenali militari del Piemonte cannoni, esplosivo, armi varie e molti combattevano addirittura con le loro divise, altri con delle decorazioni della guerra di Crimea. Normalmente, i disertori vengono fucilati, invece quei 22mila vennero ripresi nell’Esercito e qualcuno fece anche una bella carriera.

E ancora, chi sa qualcosa dei “Trecento” di Carlo Pisacane? Di lui si sa che – dopo avere difeso, con Garibaldi, la Repubblica Romana del 1849, insieme a molti altri volontari, arrivati da ogni parte di quella che non era ancora Italia – nel 1857 tentò, con un gruppo di mazziniani, di accendere il “fuoco” della rivoluzione a Sapri, piccolo Borgo campano affacciato sul Golfo di Policastro. ma – come è noto – non ci riuscì.

Di Carlo Pisacane (1818-1857), continuiamo ad avere Memoria perché, a scuola, si impara a memoria (almeno ai miei tempi era così) la “Spigolatrice di Sapri”, la poesia che il marchigiano Luigi Mercantini (1821-1872) – anche lui patriota risorgimentale e autore di Inni rivoluzionari come, ad esempio, quello di Garibaldi – aveva scritto l’anno dopo quella sfortunata spedizione in cui tutti e trecento furono uccisi. E ancora perché, molti e molti anni dopo quell’impresa, a Carlo Pisacane venne intitolato un Gruppo di Azione Patriottica (GAP) del PCd’I che, durante l’occupazione nazifascista di Roma, prese parte all’attacco partigiano di Via Rasella; GAP comandato da Rosario Bentivegna, nome di battaglia “Paolo”(1922-2012), Medaglia D’Argento al Valor Militare. Ma di quei 300 di Pisacane chi sa qualcosa? Di loro si sa soltanto che erano “giovani e forti. E sono morti”. (*)

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Ma veniamo al Saggio di Carlo Greppi (nella foto). Smilzo nel numero delle pagine, ma corposo per le storie che racconta e sulle quali ci fa riflettre. In quelle pagine, c’è, ad esempio, la storia di Adolf Eichmann (1906-1962) l’”il travet dello sterminio” che – anche se è utile conoscere la sua storia e soprattutto come questa è finita – francamente è difficile considerare una ‘storia minima’ per il posto che Eichmann occupava nella gerarchia delle SS e per il ruolo che ha avuto nel mettere in pratica la “Soluzione Finale del Problema Ebraico”, compito che gli era stato assegnato dai partecipanti alla famigerata Conferenza di Wannsee, del Gennaio 1942 a lui che era il Capo dell’Ufficio IV-B4 dell’RSHA, Il Reichssicherheitshaupthamt, ovvero l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich.

E c’è la storia di Rudolf Jacobs (1914-1944), il Capitano della Marina da Guerra germanica che, in Liguria nel 1943,disertando con il suo attendente e un carico di armi, decide di passare con i Partigiani e muore a Sarzana (La Spezia) mentre, alla testa di un gruppo di Partigiani, attacca la locale Caserma delle Brigate Nere (su questa storia di riscatto Greppi scriverà, nel 2021, il suo “Il Buon Tedesco”, per i tipi della Laterza). Sulla storia di Adolf Eichmann, come su quella di Franz Stangl (1908-1971), Comandante dei KL di Sobibor TreblinkaCarlo Greppi scriverà nel 2020, per i tipi della UTET, il Saggio intitolato “La Storia ci salverà”, in cui riempie molte pagine con le storie minime di alcune “persone comuni” che seppero scegliere anche nei momenti più bui della storia, come scrive nel suo Saggio. “anche il bene, e non solo il male, può essere contagios.o”.

Ancora, nel suo Libro Greppi ci racconta la (e ci fa ragionare sulla) storia di Lorenzo Perrone (1904-1952), “il Tacca”, l’operaio che, ad Auschwitz, salvò Primo Levi, il deportato A-174517, dalla morte per fame portandogli, quotidianamente, una gavetta di avanzi del suo pasto e di quello dei suoi compagni, capace di compensare in calorie il nutrimento di cui gli aguzzini nazisti, artatamente, privavano i deportati li ristretti a forza.

Primo Levi definirà Lorenzo Perrone “un uomo di poche parole” e Greppi riprenderà questa espressione come titolo del Saggio che su questa “storia minima” scriverà, nel 2023 (“Un Uomo di Poche Parole, Storia di Lorenzo che salvò Primo”, Laterza). E poi ancora, c’è la storia (e non è l’ultima) di Antonio M., “sbirro” in servizio presso l’UPI, l’Ufficio Politico della Questura Repubblicana (leggi RSI) di Torino che «con una mano salvava e con l’altra condannava i perseguitati». Su quest’altra “storia minima” Greppi ha incentrato il suo “Uomini in grigio, storie di gente comune nell’Italia della guerra civile”, Feltrinelli, 2016 e sotto trovate la recensione che di quel Saggio ha fatto la Storica Chiara Colombini per la Rivista online “Doppiozero”.

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Chiudo con una riflessione non mia, ma nella quale mi ritrovo totalmente. Si tratta della parte finale della recensione del Saggio di Carlo Greppi firmata dal Giudice Riccardo De Vito e pubblicata, il 27 Settembre scorso sul Sito Web “Volerelaluna” (https://volerelaluna.it/cultura/2024/09/27/storie-con-la-s-minuscola/) :

“[…]”. “L’attenzione alle storie di vite minute, inoltre, ci consegna un messaggio importante sul perché “fare storia”. Innestare la vita delle persone ordinarie nella “grande Storia”, nei quadri complessi di cui occorre sempre tenere conto, significa introdurre scorci prospettici diversi e alternativi, guardare in faccia le contraddizioni (anche del presente), porsi interrogativi. Le vite comuni rivelano sempre qualcosa di non comune, ed è per questo che interessano: sono portavoce, spesso al di là delle loro intenzioni, «di uno sguardo, di un problema, di un esercito, di una comunità».

Indagarle, oltre a incuriosire, permette di «continuare a percorrere la strada, mai semplice ma decisiva, della narrazione: raccontare, e raccontare a più persone possibili, guidati dall’onestà intellettuale e da un bagaglio di valori irrinunciabili per costruire comunità aperte, non escludenti». È attraverso il racconto delle vite delle persone in carne e ossa, guardate da vicino e non diluite dentro soggettività indistinte, che si scopre di poter demolire quelle “invenzioni della tradizione” che sono le nazioni. Falsi miti nel cui nome, ancora oggi, mettiamo il timbro sul perpetuarsi dell’orrore più grande che la storia possa raccontare: la guerra.”.

(*) Nel suo scritto intitolato “La guerra di guerriglia” Ernesto Guevara (1928-1967) sostiene, articolandola, la bontà rivoluzionaria della cosiddetta “teoria dei fuochi” o del “focolaio, secondo la quale pochi elementi, ben addestrati e motivati politicamente, sono in grado di accendere il “fuoco” rivoluzionario, senza la necessità di ricorrere a grandi organizzazioni di sostegno all’insurrezione armata.

Ho sempre pensato che sua fosse quella dottrina militare e politica insieme ma, conosciuta la storia di Carlo Pisacane e dei suoi 300 sfortunati compagni, sbarcati a Ponza e massacrati a Sapri ormai 217 anni fa, credo che è al rivoluzionario mazziniano napoletano (peraltro Duca di Sangiovanni) che si deve, senz’altro, ascrivere l’invenzione di quella teoria rivoluzionaria che – come è noto – non ebbe affatto fortuna. Infatti, non è mai andata a segno, salvo che in una occasione.

Mi riferisco, con tutta evidenza, all’impresa degli 82 rivoluzionari che, il 19 Marzo del 1956, sbarcarono dal “Gramma” sulle coste cubane e dettero inizio, sulla Sierra Madre, alla vittoriosa “rivoluzione degli ultimi”, come è stata definita quell’impresa, contro Fulgencio Batista (1901-1973), sanguinario dittatore di quell’’Isola caraibica.

Su quella barca – oltre al cubano Fidel Castro, al Medico asmatico argentino Ernesto Guevara e al cubano Camilo Cienfuegos Gorriàran – c’erano altri 79 uomini di cui poco si sa e si saprà in seguito. Di loro si sa che uno era messicano, nome di battaglia “Alfonso”, uno domenicano, nome di battaglia “Ramon” e uno argentino, poi divenuto noto come El “Che. Ma non tutti sanno che un altro di quei combattenti era italiano.

Si chiamava Gino Giacomo Dorè (1924-2023) era veneto, aveva combattuto nella nostra Resistenza, nelle fila di Partigiani Garibaldini e, a trent’anni suonati, si trovava sul “Gramma” per continuare – come aveva sempre fatto –per gli ultimi, gli oppressi, i dannati della terra.

Era l’unico italiano (ed europeo) di quel gruppo di rivoluzionari e ha scritto che non era lì per un’idea politica, ma solo per aiutare a costruire il riscatto dei disperati per i quali aveva sempre lottato: “Lui si definiva «un selvaggio», tenacemente ribelle, disposto a lottare contro i sistemi che opprimono quelli come lui, venuti dal basso, dalle paludi, da lavori estenuanti e mal pagati.” (Il Manifesto, 3 Dicembre 2023).

Gino Giacomo Dorè, “El Italiano”, ex Partigiano garibaldino che aveva comandato il Plotone di retroguardia dei rivoluzionari del “Gramma” – è morto il 2 Dicembre del 2023, a 99 anni, ed è stato sepolto a Cuba, nel Panteon dei combattenti della Rivoluzione. Qui: qualche riga di parole sulla sua vita: https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/partigiano-dei-due-mondi-el-italiano-e-tornato-a-cuba-per-sempre/.

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Torino 1943-1945 / Carlo Greppi, Uomini in grigio di Chiara Colombini  – 29 Giugno 2016

24 ottobre 1945: la Corte straordinaria d’assise di Torino condanna a dieci anni di detenzione il quasi cinquantenne Antonio M., originario di Paternò. Una sentenza che, come molte altre, è annullata un anno dopo dagli effetti dell’amnistia Togliatti. Prima della Liberazione Antonio M. è stato un brigadiere dell’Upi, l’Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana, autista e – forse – addetto alla persona del maggiore Gastone Serloreti, anima nera della caserma di via Asti, sinistro simbolo della violenza del fascismo repubblicano a Torino. Dopo l’8 settembre 1943, Antonio M., appartenente alla Milizia, ha disertato, si è dato malato ma, arrestato, al principio del 1944 ha accettato di servire la Repubblica sociale nella Gnr.

Durante il dibattimento gli specifici capi d’accusa a suo carico – avere arrestato due partigiani, Carlo Pizzorno, poi fucilato, e Pierino Cerrato, deportato a Dachau e sopravvissuto – si rivelano fragili. Per contro si accerta che, senza volere compensi, ha dato aiuto ad alcuni suoi coinquilini perseguitati, in un caso addirittura nascondendo uno di essi, ebreo, in casa propria. Eppure, Antonio M. ha continuato fino alla fine a prestare la propria opera all’Upi, al fascismo repubblicano nelle sue ultime e brutali convulsioni.

«Perché Antonio M. aveva avuto un atteggiamento così ambivalente? Aveva salvaguardato le sue “piccole patrie”, il suo condominio di corso Moncalieri e la caserma di via Asti, e nel resto della città si era limitato a fare il suo lavoro di cacciatore di uomini?» (p. 220). Se lo domanda Carlo Greppi che, ricostruendo la vicenda giudiziaria, e le stranianti contraddizioni, di questo “pesce piccolo” della Rsi, lo ha assunto come protagonista del suo ultimo lavoro: Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli 2016). Quella di Antonio M. è però soltanto una delle molte tonalità del grigio raccontate in queste pagine.

Come è chiaro fin dal titolo, all’origine del libro c’è la celebre riflessione di Primo Levi sulla zona grigia, il suo invito disincantato e penetrante a rifuggire da una «retorica schematica» che immagina vuota l’area che separa i persecutori dai perseguitati.

E c’è il confronto con il dibattito storiografico che ha esteso la categoria della zona grigia – come auspicato dallo stesso Levi – anche al di fuori dell’universo concentrazionario, impiegandola per descrivere l’atteggiamento di chi nella contrapposizione tra fascismo e nazismo da un lato e Resistenza, armata e civile, dall’altro sceglie di non scegliere, di non schierarsi, di provare a filtrare tra le maglie della grande Storia senza esserne travolto.

Perché immergere lo sguardo e le mani in questo magma sfuggente, dai contorni poco definiti e altrettanto poco tranquillizzanti? Non solo perché – ancora seguendo le parole di Primo Levi – affrontare le «figure turpi o patetiche» (o le due cose a un tempo) che popolano quello spazio serve per «conoscere la specie umana», ma perché quel territorio è vasto e gremito.

Individuata la Torino del 1943-1945 come caso di studio, è lo stesso Greppi a spiegarlo con chiarezza: «Tra vittime e carnefici (se definiamo, con approssimazione, tutti i nazisti “carnefici” e tutti i deportati e i civili assassinati “vittime”), dovendo partire da un dato numerico netto, inquadriamo meno dell’uno per cento della “popolazione” […]. Se includiamo tutti i fascisti, arriviamo a stento a due. Settecentomila persone – tutti gli altri – sono una massa eterogenea e complessa, un groviglio di sottoboschi difficile da fotografare» (p. 14).

Il contesto, come richiamato esplicitamente dal sottotitolo, è quello della guerra civile. Ma non è tanto sullo scontro tra Resistenza e fascismo di Salò che a Greppi interessa concentrarsi; è, questo, un orizzonte dato per assodato, che costituisce lo sfondo delle vicende affrontate, come sullo sfondo resta la presenza degli occupanti tedeschi. Sulla scorta dei suoi studi precedenti (L’ultimo treno, Donzelli 2012 e La nostra Shoah, Feltrinelli 2015), ciò che l’autore vuole esplorare parlando di guerra civile è principalmente la dimensione delle «cacce all’uomo», del rischio diffuso dell’arresto e della deportazione, di una paura pervasiva che spinge ciascuno a diffidare degli altri.

È questa impronta analitica a definire gli estremi dello spazio entro cui si allargano i grigi presi in esame, uno spazio che si estende, appunto, tra i “persecutori” e i “perseguitati”, tra i “carnefici” e le “vittime”; i partigiani – gli “eroi”, volendo mantenere un riferimento a figure archetipiche – quando entrano in scena (come Cerrato e Pizzorno, o come Aurelio Peccei, Massimo Ottolenghi, Bruno Segre) sono già caduti, o rischiano di cadere, diventando vittime, nella rete dei fascisti.

Risiede in questa specifica declinazione del concetto di guerra civile, credo, l’origine delle perplessità espresse da Corrado Stajano, che ha ricordato all’autore l’esistenza di scelte e contrapposizioni nette, la presenza di una Resistenza salda nelle sue decisioni a fronte di un fascismo repubblicano «più nero che grigio»  (“Corriere della sera”, 4 maggio 2016).

Ma se la Resistenza non è assunta come fuoco del ragionamento, che nelle file della Rsi ci sia stato un nero “integrale” mi pare emerga senza equivoci da questo studio, a partire da figure «tridimensionali nella loro spietatezza» (p. 184), come Serloreti o il federale Giuseppe Solaro o, ancora, don Edmondo De Amicis, cappellano della Gnr nella caserma La Marmora che non disdegna di partecipare alle torture sui detenuti, o Giovanni Cabras e Gaetano Spallone, con Serloreti ai vertici di via Asti.

Sono le figure “nere” chiamate a far risaltare uno spettro di grigi che – prima di arrivare alla tonalità pallida delle vittime – si affolla di spie, infiltrati nell’uno o nell’altro schieramento, doppiogiochisti, maneggioni, approfittatori, ricattatori, volenterosi, ottusi o sprovveduti esecutori di compiti abietti… Una massa dai contorni incerti, a tratti inquietante, che l’autore affronta con attenzione e onestà, «senza indulgenze, ma anche senza furori vendicativi» (De Luna, “La Stampa”, 13 aprile 2016), a partire da una consapevolezza non scontata e sicuramente scomoda. L’«uomo nel tempo è in divenire, cambia passo» (p. 10), nota Greppi, e aggiunge: «pure loro, le vittime e i carnefici, anche solo per un giorno furono altro, e va sempre tenuto a mente: non esistono gli atteggiamenti assoluti, ma gli atteggiamenti rinnovati» (p. 16).

Dunque, un invito a considerare l’esistenza di sfumature e movimenti complessi non solo in quella vasta zona grigia ma all’interno di ciascuno dei suoi abitanti, una prospettiva che lo porta a impiegare in modo problematico le stesse categorie analitiche di partenza, mutuate da Raul Hilberg, di “carnefice”, “vittima” e “spettatore”, in quanto statiche e destinate a cristallizzare in un ruolo preciso atteggiamenti e posizioni che possono variare nel tempo e coesistere negli stessi individui.

C’è una forte congruenza tra le ipotesi interpretative di Uomini in grigio e il suo impianto narrativo: per restituire l’affastellarsi di scelte (o non scelte) e posizioni dalle più varie sfaccettature in quei cruciali venti mesi tra il 1943 e il 1945, Greppi ha ricostruito e intrecciato fittamente più storie che chiamano in causa un brulicare di personaggi (protagonisti, comparse, semplici meteore) e – appunto – di atteggiamenti.

E lo ha fatto affidandosi a una ponderosa mole di fonti di natura diversa, la cui ricchezza è stata sottolineata sia da Stajano sia, più di recente, da Raffaele Liucci (“Il Sole 24 ore. Domenica”, 29 maggio), concordi peraltro nel rilevare il rischio che il lettore smarrisca il filo di un “montaggio” eccessivamente aggrovigliato.

Un ruolo primario hanno le carte processuali e le sentenze prodotte dalla Csa di Torino (non solo il procedimento contro Antonio M., ma anche il processo contro i vertici di via Asti, quello contro la spia, abile e subdola, Antonio Franzolini alias “Kappa nove”, o il dibattimento che porta all’assoluzione di Giuseppe Caratozzolo, maresciallo della caserma del Nizza Cavalleria che per non insospettire i tedeschi mantiene un comportamento da volenteroso carceriere, ma in accordo con la Resistenza riesce a far fuggire più detenuti destinati alla deportazione). Ci sono inoltre memoriali e carteggi coevi (quelli inediti – intensi e commoventi – di Italo Momigliano, che dalla Francia occupata rientra in Italia sperando di trovare in patria la salvezza ma incrocia sul suo cammino “Kappa nove” e non sopravvive alla deportazione) o immediatamente successivi al 1945, come Quelli di via Asti di Bruno Segre, coevo però al processo contro i responsabili dell’Upi.

Segre, che di Momigliano è cugino e come lui incrocia l’insidioso “Kappa nove”, si salva perché paga i servigi di Mario Dal Fiume, avvocato di fiducia della Fiat che entra ed esce da via Asti, «porta girevole» (p. 139) ed equivoca tra due mondi: anche la sua memoria edita nel 1947 (Il mio processo) è una fonte rilevante, così come il diario inedito, e rimaneggiato fino agli anni Ottanta, di Fulvio Borghetti, altro personaggio che si muove con disinvolta e non chiara familiarità tra Alleati e vertici della Rsi.

Ampliano ulteriormente il quadro alcune interviste a testimoni ancora bambini nel corso della guerra civile (da una lato la figlia di Serloreti, Fiorella, videointervistata dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza nel 2005 e dall’altro Gino Saragaglia, intervistato da Greppi stesso).

L’oggettiva complessità del montaggio narrativo appare come una scelta deliberata, che discende non soltanto dalla proposta interpretativa dell’autore ma, ancor più direttamente, dalla selezione e dall’uso che ha fatto delle fonti, dalle domande che ha rivolto loro.

Sono fonti interrogate come sguardi incrociati, puntati da angolazioni differenti su uno stesso spazio, uno stesso momento, con un procedere che può richiamare un modello di tipo cinematografico, in cui la stessa scena, nella quale si intersecano più o meno strettamente le vicende di diversi personaggi, viene rivissuta e ripercorsa ripetutamente, a spirale.

Una scelta che, come notato da Liucci, forse fa di Uomini in grigio un ibrido tra «il saggio storiografico in senso stretto» e «un libro pienamente narrativo», ma a mio avviso un ibrido convincente sia nel suo proposito di comprendere e restituire la complessità di quei venti mesi (e più in generale dell’animo umano in un simile contesto), «restando granitici, al contempo, nel nostro personale […] giudizio morale» (p. 20), sia nella scommessa di poter raggiungere anche un pubblico di lettori non “addetti ai lavori” senza per questo rinunciare a un approccio scientifico.

(Fonte: https://www.doppiozero.com/carlo-greppi-uomini-in-grigio).


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