

Da 4 anni gestisce il banco di viale Regina Margherita, all’incrocio con la Nomentana
Di imprenditori stranieri in Italia, e a Roma soprattutto, ce ne sono tanti. Alla parola “imprenditore” capita di pensare subito al tipo “yuppie”, in osmosi con il suo iPhone o palmare che sia e sempre di corsa tra riunioni e briefing. Di imprenditori però, si parla anche davanti al ristorantino cinese sotto casa che ti delizia ogni giorno e a qualsiasi ora, del suo inconfondibile odore di “flitto”, al negozietto di cianfrusaglie gestito da una coppia coreana sempre impegnata a badare il figlioletto di pochi anni. Davanti al “kebabbaro” turco che se non lo placchi fisicamente farcirebbe in tuo kebab con ogni spezia, vegetale, salsa esistente sulla terra, al fruttivendolo asiatico che allestisce il suo banco di frutta e verdura con un’arte da fare invidia al Boqueria spagnolo.
Di imprenditori stranieri ne incontriamo ogni giorno, in ogni angolo della città, li incrociamo ogni mattina prima di andare a lavoro: diventiamo amici, clienti di fiducia. Nonostante questo, la maggior parte di loro nutre una forte diffidenza verso chiunque non sia interessato esclusivamente al prodotto da acquistare o al servizio da ricevere.
La richiesta di una semplice intervista con banali domande è stata tradotta da molti di loro come un’investigazione, un controllo poliziesco o comunque un’intromissione dalla quale prendere drasticamente le distanze.
In qualche caso si è arrivati a negare di comprendere completamente le lingua italiana, in altri ci si è finti impegnatissimi in niente per rimandare più possibile l’interrogazione.
Finalmente Alam, un fruttivendolo del Bangladesh che, dopo l’insistenza di un paio di giorni, è riuscito a ritagliare 10 minuti del suo prezioso tempo per qualche domanda. Giovane, sulla quarantina, con una sciarpa di lana avvolta in testa a mo’ di turbante, giacca a vento e guanti in lattice, si fa raggiungere nel retro del banco dove sta pulendo qualche chilo di carciofi e fagiolini. Mestiere di precisione svolto con una velocità e una maestria rari.
Anche il banco mostra tale accuratezza: tutta la frutta a destra, tutta la verdura a sinistra, ogni prodotto ha una sua precisa posizione e anche i colori sembrano non essere combinati a caso, una tavolozza talmente ben ordinata da sembrare un cartone animato. E poi gli odori, un misto di profumi che ti prende dalla punta del naso e ti fa scordare di essere dentro il traffico di viale Regina Margherita, all’incrocio con la Nomentana. Per un momento i clacson degli automobilisti impazienti si ammutoliscono. Lui è Alam Mohammed Nur, Nur è il cognome, è del Bangladesh ed è fedelmente coadiuvato da due amici connazionali, con i quali divide lavoro e guadagno.
Da quanto tempo sei in Italia?
Da tredici anni, ma sono stato anche in Russia e in altri paesi dell’est. Poi sono arrivato in Italia.
Perché hai scelto proprio l’Italia?
Perché qui ho trovato un lavoro stabile, che mi piaceva e che mi faceva guadagnare qualcosa da poter mandare alla mia famiglia in Bangladesh. Quindi ho preferito rimanere.
Con quali mezzi sei venuto: treno, macchina…?
Sono venuto con la macchina. Con un taxi sono arrivato fino in Russia, Slovenia, Ungheria fino all’Italia. È stato molto dispendioso, ma avevo messo dei soldi da parte e quello era il mezzo più comodo.
Anche negli altri paesi avevi un banco di frutta e verdura?
No, in Russia ho studiato per avere il diploma commerciale, dopo due anni però ho finito i soldi per mantenere gli studi così li ho dovuti lasciare e cercarmi un lavoro. Poi mi sono spostato ancora, sempre per cercare lavori che mi potessero dare un guadagno giusto. Così ho girato molti altri paesi come appunto la Slovenia e l’Ungheria dove sono stato solo di passaggio.
Quanto tempo fa sei partito dal Bangladesh?
Sono stato due anni in Russia poi ho viaggiato per i vari paesi fino ad arrivare qua, diciamo in tutto sono passati circa 16 anni. La maggior parte però passati in Italia, a Roma. Sono tanti ma la mia vita è sempre in Bangladesh, con la mia famiglia.
Hai aperto da subito un tuo banco?
No, questo banco ce l’ho da quattro anni. Prima ero dipendente di un ragazzo italiano al mercato che vendeva sempre frutta e verdura. Lui mi ha insegnato il mestiere, ho imparato a maneggiare il prodotto, a pulirlo, a tagliarlo, a disporlo in modo che attiri il cliente. Ho anche imparato a conoscere i clienti, ad avere a che fare con loro, una cosa che sembra facile ma non lo è.
E poi hai deciso di aprirne uno tuo.
Non ho deciso, ho provato! Se non si prova non si riesce. Diciamo che ci sono riuscito, sono quattro anni che sto portando avanti la mia attività, mettendo in pratica tutti gli insegnamenti degli anni al mercato. Dentro il mercato forse era più facile avere clienti, quelli di tutti i giorni e chi passava per caso, questa mia posizione ora è un po’ meno favorevole perché ho i miei clienti che abitano e lavorano qua vicino, altrimenti chi è di passaggio è più difficile che si fermi perché magari sono di fretta, non mi vedono. Dentro il mercato anche chi non era nostro cliente, era comunque già dentro il mercato a fare la spesa, quindi si fermava più facilmente.
Hai preferito continuare con frutta e verdura come al mercato?
Sì, per quasi 10 anni ho fatto questo lavoro, ho imparato tutto, non aveva senso aprire un banco di prodotti diversi. Sapevo come gestirlo, sapevo come approcciare con la gente e con il prodotto stesso: era più facile e mi piaceva.
Sei sempre rimasto a Roma, o hai girato un po’ l’Italia?
No, solo Roma. Qui ho trovato il mio lavoro e qui sono rimasto, se mi devo spostare è per tornare in Bangladesh, altrimenti sono qui a lavoro tutti i giorni, tutto il giorno.
È stato difficile aprire il banco: burocrazia e permessi comunali?
Questo è uno spazio pubblico, quindi il comune me lo affitta con contratto annuale per un costo di 1300 euro. Non è poco, dobbiamo lavorare dalla mattina alle 5 alle 9, 10 di sera, ma per ora ce la faccio.
Questo lavoro ti rende abbastanza per le spese che hai?
Per ora sì, anche se la crisi si fa sentire molto. Stiamo lavorando in tre persone, il che non sarebbe conveniente, ma siamo tutti amici e ci diamo una mano. È vero che c’è sempre meno gente, sempre meno clienti rispetto a qualche anno fa. I tempi sono cambiati, non posso permettermi di saltare giornate di lavoro o pagare troppi dipendenti, così insieme a questi due miei amici ci organizziamo il lavoro e il guadagno tra noi.
Per quanto riguarda l’apertura di un banco nel suolo pubblico come hai fatto, che differenza c’è tra l’Italia e il Bangladesh? Lì sarebbe più facile o più difficile?
È assolutamente uguale, fai la richiesta in comune, fai un contratto e ti affittano tranquillamente lo spazio. Anche il guadagno è lo stesso, il problema del Bangladesh è il clima. Soprattutto per un banco di frutta e verdura, non sai mai se hai un raccolto sicuro perché può capitare una secca, come una pioggia così forte che ti porta via tutto. Quello è l’unico problema. Là questo tipo di lavoro sarebbe troppo precario, troppo dipendente da fattori climatici spesso estremi e catastrofici. Un mese puoi avere tutti i prodotti, il mese dopo puoi non avere più niente, o non avere più piselli, ad esempio. Così anche il guadagno sarà legato a queste circostanze.
Ad oggi, con la crisi, prenderebbe la stessa decisione di venire in Italia? Vorrebbe spostarsi ancora?
Assolutamente, sono venuto per cercare lavoro ed ho un lavoro. Riesco a guadagnare quei soldi da mandare alla mia famiglia in Bangladesh e per mantenere le spese del banco. Per ora va bene così. Certo la crisi si sente e si vede: le differenze con qualche anno fa sono chiare. Ma sono qui, sto bene in Italia e ho la mia clientela, perché dovrei spostarmi ancora? Lo farò quando qui non potrò più guadagnare quanto mi serve o quando riuscirò a guadagnare abbastanza da poter tornare dalla mia famiglia in Bangladesh.
Ha una famiglia in Bangladesh? Ogni quanto riesce a tornare da loro?
Sì, mia moglie e i miei figli. Ci vediamo una volta all’anno, torno qualche settimana poi riparto per l’Italia. Non è facile, ma non posso permettermi di andare troppo spesso per i costi del viaggio e per il lavoro. Mi mancano molto, ma sto facendo tutto questo per loro. Sono sicuro che un giorno potrò tornare stabilmente in Bangladesh.
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