Che fine farà il Pratone di Torre Spaccata?

Mentre seguo la campagna di sensibilizzazione sulle sorti del Pratone, ormai giunta al termine, un’immagine mi torna in mente, quando, appoggiata alla fredda balaustra di quell’imponente ponte, sbirciai di sotto.
Inaspettata la vista senza fine di alberi e giardini, di gente che correva o pedalava lungo i viali nonostante il vento tagliente. “Lí una volta c’era un fiume, il Tùria” mi dissero, anticipandomi.
Era un fiume irrequieto e difficile da domare, che spesso usciva dagli argini causando danni, e pure vittime, come in quel lontano 1957.
L’unica soluzione proposta dall’allora dittatura del generale Franco era deviarne l’ultimo tratto prima che sfociasse nel mare. Una bella autostrada fino ad 8 corsie, una direttissima tra Madrid e València ecco quello che si voleva.
Una scelta che i cittadini di Valencia mandarono giù a fatica, anzi rifiutarono, volevano il verde, spazi all’aperto per camminare, correre, fare attività ricreative, se proprio era necessario deviare un fiume.
Bisognò aspettare la fine degli anni ‘80, quando la mobilitazione dei cittadini e la caduta della dittatura portarono ad uno storico cambio di rotta: trasformare l’ipotesi di 9 km di cemento in 9 km di verde.
Giardini rigogliosi, chilometri di piste ciclabili e sentieri attrezzati per lo sport, aree relax, campi sportivi, aree giochi per bambini e perfino una città delle arti e delle scienze con un parco oceanografico, oltre musei, sale convegni, cinema, locali e discoteche.
Un grande sogno che pian piano divenne realtà.
Una scelta storica e coraggiosa, che diede risultati certi in termini di qualità della vita e di opportunità di lavoro. Infatti lungo quei 9 km oggi brulicano giardinieri, guide ambientali e turistiche, addetti alle attività sportive, ai musei, ai servizi di manutenzione e sorveglianza delle aree, e altro ancora come servizi di accoglienza e nuove linee di trasporto per cittadini, turisti e studenti. Parliamo di economia sostenibile diffusa.
Il raffronto col Pratone di Torre Spaccata quindi non mi sembra così azzardato. Qui sessanta ettari di verde erano destinati, nella visione urbanistica del Sistema Direzionale Orientale, ad essere una bretella del raccordo, un’arteria di collegamento a servizio dei palazzi della Pubblica Amministrazione da decentrare in una periferia, poi definita “nuova centralità urbana”, ancora priva, così dicono, di punti di interesse, nonostante le evidenze archeologiche scoperte durante i sondaggi preventivi, le stesse evidenze archeologiche che salvarono il Parco di Centocelle dalla programmata colata di cemento.
Anche qui cittadini consapevoli si sono fatti sentire. Le proteste, agli inizi del 2000, portarono a ridurre a metà (650.000 mq) le cubature previste su questi 60 ettari di verde. Poi, dopo quasi 20 anni di silenzio, la ventilata vendita dell’area per la realizzazione di studi di posa a servizio delle produzioni cinematografiche, scatena un’ennesima azione dal basso, di fatto due petizioni, l’ultima già sottoscritta da ca. 10.000 persone, per chiedere una scelta coraggiosa: una variante urbanistica con la destinazione a Parco dell’intera area.
Basta col cemento, con l’ennesimo consumo di suolo, con la frammentazione continua dei territori a scapito degli ecosistemi naturali, sì all’ampliamento degli spazi collettivi a verde, per una migliore qualità di vita, sì a spazi dedicati alla cultura, per es. riportando alla luce le evidenze archeologiche e dando continuità con quelle del Parco di Centocelle creando un unico Parco “delle Ville Romane”, sí ad una visione lungimirante e sostenibile dello sviluppo del territorio dove la componente umana si integra con quella naturale senza prevaricazione alcuna.
Osare si può, volendo.
A.N.

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