La mala movida nei quartieri di Roma

Nell'intervista la docente della Sapienza Letteria Fassari ne spiega le cause e indica delle soluzioni

Quando arriva la sera ‘i ragazzi terribili’ sconfinano il tragico libro di Cocteau per raggiungere quegli angoli di Roma in cui si “impara a dormire da sveglio un sonno che mette al riparo”. Non narriamo qui un inedito secondo episodio del celebre romanzo del ’29 ma il progressivo espandersi di un disagio giovanile che trascina il fenomeno della mala movida.
Per comprenderne le cause e cercare soluzioni possibili abbiamo intervistato Letteria Fassari, professore associato del DISSE, Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione della Sapienza.

Ragazzi anche minorenni si spostano la sera dalle periferie verso il centro per acquistare alcolici e marijuana. Ubriachi e drogati assumono ovviamente comportamenti illeciti.
Purtroppo la mala movida sta assumendo dimensioni rilevanti, come possiamo spiegare questo disagio nei giovani?

I giovani sono una categoria sfuggente perché si tratta di una condizione a termine, i giovani di ieri non sono i giovani di oggi. E’ come dover fare un’istantanea che cambia continuamente.
In una condizione di normalità, di ricerca esperienziale, i giovani considerano l’ebbrezza come un modo per cercare chi si è o dove si vuole andare, per incontrare l’altro senza inibizioni e quindi per avere una relazionalità più densa. Al netto di questo, che fa parte dell’esperienza giovanile, la situazione si sta inasprendo.
In questo momento, la spiegazione di studiosi quali il Prof Cavalli, è che ad una richiesta da parte dei giovani di entrare nel mondo degli adulti non corrisponde una mappa istituzionale che consenta questo percorso. Queste considerazioni di fatto sono già nella narrazione mediale.
Innanzitutto, non è in ambito scolastico ma nella transizione tra la scuola e il lavoro che dovrebbero inserirsi le istituzioni di orientamento e supporto ai progetti individuali.
E’ poi difficile per le giovani coppie rendersi indipendenti, il mercato non offre soluzioni ai giovani per accedere a condizioni abitative adeguate.
Gli istituti bancari non danno crediti ed è difficile se non si è in possesso di un patrimonio familiare, intraprendere una attività. C’è un mercato del lavoro che registra da un lato una sicurezza per il maschio adulto e una precarietà sempre più esacerbata per i giovani e le donne dall’altro.
I giovani inoltre non hanno una rappresentanza politica, i partiti politici si rivolgono principalmente agli adulti, che sono la maggioranza degli elettori in un paese con un decremento demografico come il nostro, ed anche la base dei sindacati è formata da persone anziane.
Siamo poi un Paese con un debito pubblico molto alto ed è effettivamente come se qualcosa pesasse sul futuro dei giovani.

In merito al disagio giovanile direi dunque che, da un lato, l’ebbrezza è considerata una forma di conoscenza cioè un modo per stare dentro la propria esperienza di transizione e di ricerca di se stessi, e dall’altro, come condizione oggettiva, ci sono tutti questi fattori che pesano sul futuro dei giovani. E l’ebbrezza, da condizione momentanea, diviene condizione che si stabilizza senza la possibilità di declinare un proprio progetto di vita.

Come mai questo disagio è oggi più evidente?
Era prima a noi meno visibile oppure è davvero aumentato il numero dei ragazzi che cercano nell’alcol e nelle droghe una via per uscire dalla realtà?

Un po’ il fenomeno è reso più evidente dalla contingenza post Covid. Siamo stati chiusi, non abbiamo visto nessuno per le strade, improvvisamente c’è questo desiderio di prossimità fisica. Questo è il tempo della connessione, del restare molto in prossimità, anche sui social il linguaggio è tattile, c’è proprio il bisogno di un corpo, sia reale che virtuale, che incontri l’altro corpo.
Dal punto di vista dei dati si registra effettivamente un aumento del consumo e soprattutto c’è un abbassamento dell’età a cui corrisponde una crescente produzione e commercializzazione di alcolici.
Naturalmente quei giovani che si spostano ad esempio da Acilia verso Campo de’ Fiori lo fanno in quanto lì trovano alcol e droghe al bisogno.

I comitati di quartiere delle zone centrali hanno lanciato una petizione unitaria per vietare il consumo di alcol in strada e la questura di Roma ha iniziato ad applicare provvedimenti come il DACUR (divieto di accesso in determinate aree) anche ai minorenni. Pensa che questo possa risolvere il problema?

Rispetto ai problemi di cui abbiamo parlato prima, è chiaro che quando lo Stato non riesce a dare risposte, proprio per dimostrare la sua esistenza, eleva la risposta sicuritaria. Lì dove c’è una debolezza della politica entrano altre logiche e sicuramente quella sicuritaria è una logica forte.
Va anche detto che c’è un problema di vivibilità dei quartieri. Ad esempio, noi come Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche stiamo tenendo sotto osservazione il quartiere di San Lorenzo, dove si riscontra un degrado urbano che deriva da un calo demografico dei residenti. Cioè non ci sono persone che vi abitano, le rendite delle abitazioni sono di coloro che affittano le case agli studenti creando così una situazione di omogeneità dei residenti.
I locali si adattano a vendere a costo bassissimo per gli studenti, che notoriamente non hanno risorse, e tutto questo crea un circolo vizioso.
Quindi il controllo ci deve essere per garantire la possibilità che i residenti trovino nel quartiere una qualità della vita. Se non si rendono vivibili i quartieri, non si crea quella eterogeneità di gruppi sociali che poi caratterizzano il quartiere con quelle reti di prossimità, di vicinato, quel supporto reciproco che deriva dallo scambio sociale.
La mala movida ha sostituito a San Lorenzo la dimensione storica, la sua immagine di quartiere popolare con una memoria importante. San Lorenzo offre adesso l’immagine di quartiere della notte e del divertimento, un quartiere degradato e sporco dove lo spaccio è una attività eclatante, uno spaccio notturno alla luce del sole.

La mala movida sta invadendo anche alcune periferie ‘bene’ della città, con le solite conseguenze in termini di degrado, danneggiamenti e poca sicurezza per i residenti. Non si tratta quindi soltanto di un problema per i commercianti del centro storico e per le attività volte all’accoglienza del turista. Le conseguenze della mala movida riguardano l’intera comunità. Cosa possiamo prevedere?

Sicuramente la presenza delle forze dell’ordine sul territorio è un deterrente ma non risolve il problema. La risposta dovrebbe essere a più livelli. Ad esempio, i Municipi hanno pochissime risorse per intervenire anche rispetto alla loro conoscenza del fenomeno ed alla specificità, perché ogni quartiere ha una sua logica intrinseca di funzionamento. Quindi la mala movida a San Lorenzo non è la mala movida nelle altre periferie.
Sarebbe opportuno un lavoro coordinato da un osservatorio sui giovani, su questi fenomeni territoriali, ma si devono avere le risorse per fare ricerca e poter dare ai decisori politici gli strumenti adeguati. Dobbiamo avvicinarci in modo veramente prossimale al territorio.
Il quartiere è un luogo diverso dallo spazio, perché lì si sedimentano immaginari, si sedimentano storie, memorie, condizioni strutturali di lavoro e di immigrazione. Dobbiamo attivare percorsi di osservazione e conoscenza. Chiaramente questo necessita di un po’ di tempo per capire per poi attuare micro-politiche che siano in consonanza alle logiche interne dei singoli quartieri.

C’è qualcosa che i singoli Comitati di Quartiere possono fare in merito?

Sempre facendo riferimento al dato concreto di San Lorenzo che stiamo studiando è chiaro che ci sono nel quartiere diverse anime, forme di associazionismo spontaneo più o meno istituzionalizzato, che esprimono ognuna una propria logica. Chi dovrebbe fare la sintesi di questa logica ed offrire, in ascolto, decisioni, sono i mini sindaci, ma hanno soltanto un potere comunicativo. Gli unici interventi allora sono di natura più cosmetica che etica.
Quindi sicuramente può essere una strada quella di costruire l’identità del quartiere attraverso l’arte, attraverso la street art, ma anche lì c’è un problema di qualità di quello che si fa. Quindi è necessario un determinato livello istituzionale che abbia le risorse decisionali per costruire una sintesi delle diverse anime del quartiere e decidere anche se scontentarne qualcuna rispetto ad un progetto complessivo.
I Municipi hanno risorse troppo esigue per poter intervenire a livello infrastrutturale ma la dimensione della materialità è centrale.

Cosa intende per materialità?

Significa la cura degli edifici, significa risolvere il problema dei rifiuti, garantire che la vita in quel quartiere abbia delle strutture fisiche e sociali di riferimento. Questo dà ai quartieri una identità più forte e quindi un controllo sociale indiretto più efficace. Il quartiere deve avere eterogeneità nell’offerta culturale, nell’offerta sociale, di strutture diversificate, di scuole, e deve essere abitato da gruppi sociali differenziati.

Sir Winston Churchill diceva “il politico diventa uomo di Stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni”, nel nostro Paese si sta pensando alle prossime generazioni?

Noi siamo un Paese che non ha memoria lunga, tant’è che abbiamo un debito pubblico molto alto, ciò significa che non ci preoccupiamo delle future generazioni.
Voglio sperare che questa enfasi sulla sostenibilità, che significa appunto pensare al futuro, quindi mettere in campo azioni che siano vigili sugli effetti per quelli che verranno dopo, possa diventare una strada da intraprendere.

Questi ragazzi terribili si rimpinzano di disordine, di una appiccicosa macedonia di sensazioni” (Les enfants terribiles – Jean Cocteau – 1929)


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