Ricordi d’agosto 2023 e per sempre
4 Agosto 1974 – Memoria bolognese: le cose che sapevamo ieri della strage di Bologna e quelle che sappiamo oggi. Puzzle per la Memoria dei fascisti, ma non solo la loro. Un libro.
“Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato «golpe» (e che in realtà è una serie di «golpe» istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.” (Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 14 Novembre 1974).
Nota: La strage di Bologna dei primi mesi del 1974 a cui Pasolini si riferisce è, evidentemente, quella del treno Espresso 1486 “Italicus”, diretto a Monaco di Baviera, del 4 Agosto 1974, avvenuta in località San Benedetto Val di Sambro, che causò 17 morti e 48 feriti. Dieci anni dopo, Il 23 Dicembre del 1984, alle 19.08, sempre in località San Benedetto Val di Sambro, esplose una bomba collocata sul Rapido 904 che causa 16 morti e 266 feriti. Entrambi gli attentati furono opera di terroristi fascisti.
Spesso nelle Note quotidiane che vi propongo cito lo scrittore, giallista e sceneggiatore parmense Carlo Lucarelli (di cui, lo confesso, sono un fan). Di lui cito spesso l’espressione “Ma questa è un’altra storia” che Lucarelli. utilizza quando, nel corpo della storia che sta raccontando, ne introduce un’altra, senza approfondire, ma così richiamando la nostra curiosità a farlo noi stessi, poi, come fosse un compito da fare a casa. Oggi, utilizzo ancora qui le parole di Carlo, Lucarelli tornando, per l’ennesima volta, sulla strage fascista-piduista di Bologna, del 2 Agosto 1980. Sono stato, nel 43° anniversario da poco trascorso, facile profeta a scrivere che le polemiche sulla matrice fascista della strage si sarebbero trascinate a lungo.
I fascisti, infatti, dopo anni di tentativi rintuzzati sono – da che si trovano al governo – tornati alla carica con i dubbi su quella matrice nera: più semplice addossare tutto ai palestinesi, utili capri espiatori quando la spiegazione vera – ovvero che quella strage (85 morti e 200 feriti) dia stata opera di camerati, convinti di fare la rivoluzione e invece al soldo (nel senso letterale del termine) dei poteri forti (segnatamente la P2 di Gelli e Ortolani, con l’aggiunta dei Servizi, non più tanto segreti, e del Viminale di Federico Umberto D’Amato) che credevano di combattere – è troppo evidente, compromettente e inconfutabile, anche per i loro stomaci a tutto digerire abituati.
Ma c’è anche un versante non fascista (o almeno c’è stato) che – pur non negando la matrice nera della strage – pone (meglio, pose poiché non sono pervenuti di recente loro commenti sul punto) dei dubbi sul fatto che a compiere quella strage fossero stati proprio Giuseppe Valerio Fioravanti (detto Giusva) e Francesca Mambro, gli ex NAR, condannati in via definitiva come autori della strage, in concorso con altri tre fascisti, Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini e Paolo Bellini, gli ultimi due ancora sotto processo.
Dunque, per fugare i dubbi di chi sostiene che su quella strage: ”non sappiamo ancora tutto”, Giorgia Meloni compresa, vi propongo quanto, al riguardo, ha scritto appunto Carlo Lucarelli nella Prefazione al libro di Cinzia Venturoli intitolato “Storia di una Bomba, Bologna 2 Agosto 1980, la strage, i processi, la Memoria”, Castelvecchi Editore, 2020, di cui consiglio caldamente la lettura.
Il libro è del 2020 e la Prefazione è evidentemente ad esso precedente, dunque nel leggerla tenete conto delle cose di quella strage che nel 2020 (o pochi anni prima) non si sapevano e ora, invece, grazie alle Sentenze della Magistratura bolognese e della Cassazione Penale, si sanno (le Sentenze sono in Rete, scaricabili e dunque leggibili). Ma la Prefazione è solo l’introduzione al libro della Venturoli che su quella strage ci dice – con estrema chiarezza – molto. Il resto del lavoro di conoscenza tocca alla nostra intelligenza (qui intesa nel senso di “capacità di leggere dentro – e dietro – le cose”) e alla nostra Memoria.
Sta a noi – con le conoscenze che oggi abbiamo di quella strage – mettere a posto tutti i pezzi di quel puzzle sanguinario che c’è costato 85 vite innocenti, tra cui quella di Angelina Fresu, di anni 3. Sta a noi, continuare a scavare nella Memoria di quella strage e di quelle 85 vite spezzate, per tenerla e tenerle viva / vive perché – come ha scritto Roberto Roversi, scrittore, poeta e paroliere bolognese – “Ombre salvano ombre / Ombre seppelliscono ombre / Dobbiamo cercare fra le pietre / Cercare l’ombra di una ragazza / Cercare il cuore di un bambino.”.
Dunque, buona lettura e buon lavoro. E come scrive Lucarelli in fondo alla sua Prefazione: “L’avessi avuta adesso, quella stupida conversazione col mio amico, e mi avesse detto la strage alla stazione? Non si è mai saputo niente, gli avrei risposto, aspetta, prima leggiti il libro di Cinzia Venturoli. Poi, se vuoi, ne parliamo.”.
Il 12 Agosto 1944, memoria della guerra a Sant’Anna di Stazzema
Era l’alba di quel Sabato 12 Agosto 1944 quando i nazisti del Secondo Battaglione del 35° Regimento Esploratori (comandato dal Maggiore Walter Reder) della 16^ SS Panzer Grenadier Division, “Reichsführer SS” (comandata dal Generale delle SS Max Simon, poi condannato a morte da una Corte militare inglese, pena commutata successivamente nel carcere a vita) accompagnate da bande di fascisti della Versilia che – per non farsi riconoscere, portavano dei passamontagna – arrivarono a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) e ne incendiarono le case uccidendo, per fucilazione, 560 abitanti di quel piccolo Borgo toscano. Tra gli ammazzati c’erano 130 bambini, per uccidere i quali i nazisti dovettero, necessariamente, abbassare, fin quasi a terra, le canne dei loro mitra.
Il 12 Agosto scorso, a 79 anni da quella strage nazifascista, quelle vittime innocenti sono state ricordate dal Sindaco del Paese, Maurizio Verona, alla presenza del Governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini (che ha ribadito l’inadeguatezza del Presidente del Senato La Russa a ricoprire l’importante ruolo istituzionale che ricopre, data la sua dichiarata militanza fascista) e Alessandra Nardini, Assessora alla Memoria della Regione Toscana. Nessuna autorità di Governo è stata invitata alla cerimonia, né si è presentata, sponte propria.
Parole di condanna della strage sono arrivate dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha ricordato come quella strage nazifascista sia stata il “segno profondo di un orrore così grande, inciso a caratteri indelebili nella coscienza della Repubblica”, sottolineando anche come “dalla reazione a quell’abisso scaturì il riscatto morale e civile del nostro popolo, il secondo Risorgimento del nostro Paese. Da qui hanno preso le mosse le radici di una civile convivenza che ha trovato nella Costituzione i suoi architravi”.
Parole di condanna della strage sono arrivate anche dal Presidente del Senato, Ignazio Benito Maria La Russa (che così continua a dare dispiaceri ai suoi camerati) e dal Presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana, ma anche da Matteo Salvini. Sulla strage nazifascista non è, invece, pervenuto alcun commento, da parte della Premier Giorgia Meloni. Noi, per parte nostra, inchiniamo le nostre bandiere alla Memoria di quelle 560 vittime innocenti della violenza nazifascista, riaffermando il nostro sicuro e saldo antinazifascismo.
Il 10 agosto ci ha lasciato Michela Murgia
(Cabras, 3 giugno 1972 – Roma, 10 agosto 2023) scrittrice, drammaturga, blogger, opinionista e critica letteraria italiana, autrice del romanzo Accabadora vincitore dei premi Campiello, Dessì e SuperMondello.
“A quindici anni Bonaria era già in grado di capire che certe cose, farle o vederle fare è la stessa colpa e mai, da allora, le era venuto il dubbio di non essere capace di distinguere tra la pietà e il dubbio.” (Michela Murgia, “Accabadora”, Premio Campiello e Premio Supermodello 2010) (*)
(* )“accabadora” in sardo vuol dire “colei che finisce”, “l’ultima madre che mette fine alla sofferenza”.
Non di rado in questo spazio scrivo delle donne e della loro difficile esistenza (spesso violentemente interrotta, senza loro colpa) in un mondo di maschi, perlopiù, incapaci di accettare e fare tesoro della differenza che le donne portano all’umanità. Oggi qui scrivo ancora di una donna, stavolta una sola però, Michela Murgia, che se n’è andata (non per sua scelta) qualche giorno fa, lasciandoci soli a continuare a lottare perché la differenza, comunque si presenti, sia compresa – e accettata – come una ricchezza e non un problema.
Forse, quello di andarsene prima di avere, diciamo così, “completato l’opera” è il destino dei Maestri (quelli che Luigi Meneghello definiva Piccoli ma che, in realtà, non lo sono). Nella mia vita un paio di loro (per me Maestri) Alberto Manzi e Alex Langer, lo hanno fatto. Il primo lasciandoci per malattia, il secondo per scelta sicuramente avendo ancora molte cose da dire e da fare (e da insegnarmi). E ne sento, da tempo, la mancanza. Sarà così anche con Michela Murgia (anche lei, per molti, una Maestra alla Meneghello), pure se è ancora troppo presto per rendermene conto appieno. E anche se – a differenza degli altri due di cui sopra – non l’ho mai conosciuta di persona.
Ho aspettato qualche giorno a scrivere di lei perché non volevo scrivere quello che in gergo giornalistico si chiama un “coccodrillo”, ovvero il pezzo che si scrive quando muore una persona che è stata importante e si chiama così perché magari, per chi lo scrive e per chi lo legge, quella persona non era poi così importante e dunque si possono piangere, in sua memoria, le cosiddette ‘lacrime di coccodrillo’, che lacrime vere non sono.
Dunque, Michela Murgia. Perché scrivere di lei? Intanto perché non si è trattato – come in altri casi – di una scrittrice che non fa politica, ma dell’esatto, contrario: Michela Murgia era una donna che faceva politica e che è diventata una scrittrice per continuare a dire, anche con i suoi libri, quello che pensava. La cosa gli è riuscita perfettamente, per essere una che si era diplomata all’Istituto Tecnico, ed è diventata una scrittrice famosa che, però, continuava a fare politica, come aveva sempre fatto, usando la sua voce e le parole, che sapeva mettere in fila e far parlare alla grande, per far conoscere le proprie idee e per dire le cose che – molti di noi – pensano da sempre ma non hanno mai avuto il coraggio di dire, né a voce, né per iscritto.
Dunque, si tratta (meglio purtroppo si trattava) di una donna che faceva politica e per questo (per definizione?) di una donna scomoda. E così, sono cominciati gli attacchi alla sua persona. Non gradevole – e gradita – per le cose che diceva (sempre con il sorriso sulle labbra però) e scriveva. Attacchi che sono presto passati dal suo pensiero al suo corpo, negli ultimi tempi modificato dalla malattia e dalla terapia.
Ultimi tempi, questi attuali, nei quali quegli attacchi non si sono fermati, anzi sono diventati maggiormente virulenti. Attacchi ai quali Michela ha però reagito strenuamente come era capace di fare, aprendo ogni volta un nuovo fronte di lotta. Ultimo quello della malattia che l’aveva colpita e della sua cura. La malattia coinvolge – anche se non a tutti è chiaro – il malato ma anche il terapeuta e per sconfiggerla occorre la volontà di entrambi. E lei ha raccontato, anche qui da par suo, le sue scelte terapeutiche condivise e i paletti che aveva messo alla cura, ma anche la sofferenza di chi, come lei, lottava per continuare a vivere. Insomma, ancora una volta, si è schierata su quel nuovo fronte di lotta dalla parte di chi non aveva voce o l’aveva, ma era ignorata.
Che fare contro quegli attacchi? Michela avrebbe potuto seguire, ad esempio, il consiglio che Nanni Loy aveva dato a sé stesso: ovvero: emigrare “all’estero”, cioè, lei sarda, in Sardegna. (Nanni Loy ha raccontato l’aneddoto della fuga, lui sardo, “all’estero, cioè in Sardegna”, in un’intervista rilasciata al giornalista Giuseppe Marrazzo del TG2 quando, dopo la trasmissione RAI “Specchio Segreto” (1964), era stato denunciato e attendeva di essere convocato in Tribunale, per la contestazione degli addebiti. L’alternativa era, come lui ironicamente aveva sottolineato, sottrarsi a quell’obbligo fuggendo appunto “all’estero”, cioè in Sardegna, cosa che il regista de “Le Quattro Giornate di Napoli” (1962), evidentemente – e per nostra fortuna – non fece, né allora, né mai).
Nemmeno Michela Murgia – che pure dell’ironia aveva fatto uno strumento di lotta politica – è mai scappata all’estero e neanche nella sua terra. Nossignori! E’ rimasta a combattere per le sue idee sfidando e irridendo, a modo suo, il potere che non la amava e la sopportava a fatica, dato che la scrittrice famosa non si faceva scrupolo di essere sé stessa, ovvero una partigiana della differenza, cioè una donna che – certo memore dell’invettiva gramsciana contro gli indifferenti – aveva deciso di “prendere parte”, ovvero non solo di partecipare, ma di schierarsi dalla parte per lei più giusta, qualunque fosse il fronte sul quale combatteva.
Michela Murgia era una donna straordinaria? Forse sì. Ma le donne spesso lo sono, soprattutto quando trovano una sponda a cui appoggiarsi (e il lavoro di Michela Murgia era per loro, ma anche per noi maschi, una buona sponda). Ora quella “sponda” ci ha lasciato da soli a vivere con il terremoto, ma ci restano i suoi libri, i suoi articoli e le sue interviste. Un buon lascito, diremmo così: ”A futura Memoria”, per continuare la lotta, anche nel suo nome, mentre lei lassù – sicuramente – è impegnata in corpose e animate discussioni con il Padreterno. Prima di andarsene Michela ha detto: “Ricordatemi come vi pare”. Io ti ricordo così. Ciao Michela! Bella Ciao!
Nota finale: tra i numerosi libri di Michela Murgia che si possono leggere segnalo (solo per iniziare la sua conoscenza come scrittrice) “Il mondo deve sapere, storia tragicomica di una telefonista precaria” (2006, Einaudi) Romanzo in cui la scrittrice racconta di una telefonista precaria di Call Center (precariato di cui anche lei, nella realtà, era rimasta vittima e prigioniera fino alla fama come scrittrice, arrivata dopo molti anni e numerosi lavori non stabili e sicuri, come il lavoro dovrebbe, invece, essere).
Nel Romanzo Michela Murgia ci sbatte in faccia, a modo suo e senza tanti complimenti, Il precariato, un aspetto del cosiddetto “mondo del lavoro” desaparecido e non solo dagli schermi televisivi.
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”
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