Categorie: Politica

Elezioni americane. Analisi del voto

In questi giorni si sono addensati sui giornali, sulla TV e sui social network, come è ovvio e naturale, i commenti sui risultati elettorali americani. Lasciamo stare le nostrane ridicole salite sul carro del vincitore dell’improbabile Brunetta e compagni – improbabile come politico -, le rivendicazioni di Salvini, tra il comico – alla Nando Meniconi di “Un americano a Roma” per intenderci – e il tragico, su chi è il genuino rappresentante in Italia del Tycoon statunitense. Tralasciamo anche, per un momento, quelle, ben più preoccupanti e pericolose, dei leader populisti e xenofobi che si affollano in Europa. Vediamo invece di approfondire i numeri e quello che ci dicono.

donald-trumpPer capire meglio, anche se non in modo esaustivo, come sono andate le cose occorre rifarsi, più che alle sensazioni e al sentito dire e alle analisi della prima ora, ai numeri generali che arrivano sempre con qualche giorno di ritardo dovuti al completamento dei conteggi  nei singoli stati della Great Federation dopo la prima e subitanea assegnazione dei grandi elettori. Io mi sono rifatto a quelli dell’Associated Press nell’ultimo aggiornamento del 15 novembre ore 17 riguardanti il 99% dei voti scrutinati

Donald Trump voti 60.526.852 – 47,2 %

Hillary Clinton voti 61.134.576 – 47,9 %

Altri                  voti 864.705 – 0,7%

Nel voto popolare, secondo questi dati, la Clinton ha superato di circa 797.716 voti Trump. E’ la quinta volta che succede. Precedentemente era accaduto con Andrew Jackson nel 1824, Samuel Tilden nel 1876 e Grover Cleveland nel 1888 e Al Gore nel 2000, che prese 500.000 voti in più di Bush. Il sistema elettorale americano, però, ha assegnato al Tycoon dalla folta chioma una vittoria schiacciante a livello della conquista dei grandi elettori nei singoli Stati: 306 contro 238. Per quanto riguarda la performance della Clinton occorre osservare, innanzitutto, la differenza dell’affluenza alle urne rispetto alla volta precedente, il 2012, in cui Obama batté per la seconda volta, anche se in modo più contenuto del 2008, il candidato repubblicano, Mitt Romney.

Martedì scorso hanno votato 122.686.269 americani; nel 2012 furono 123.726.414. Cioè circa 1.040.145 di votanti in meno. Trump prende 1.384.848 voti in più del predecessore che nel 2012 ottenne 59.142.004 voti. Mentre la Clinton ne perde 1.480.930 circa. Per lei e il Partito democratico la perdita diventa ancor più pesante se la si confronta col 2008, quando Obama prese 69.498.516 voti. In sostanza negli 8 anni di governo i democratici perdono 8.363.940 voti, più dei 7.499.604 di votanti in meno che, infatti, nel 2008 furono 130.185.873. I repubblicani, invece, rimangono sempre dentro una banda di oscillazione fra i 59 di Romney e i 61 milioni di voti Trump, in mezzo il loro candidato Mac Cain del 2008 con i suoi 59.948.323 voti.

La vittoria di Trump, inoltre, è stata completata con la conquista della maggioranza sia alla Camera, 236 seggi contro 191 dei democrats, sia al Senato con 51 seggi contro 47. Il che meriterebbe un’ulteriore indagine approfondita sulle dinamiche del voto popolare nei singoli stati.

Appare evidente da questi dati generali, fatto salvo ogni altro approfondimento sui flussi elettorali, che sebbene Trump guadagni voti e la Clinton ne perda, il Partito democratico rimane comunque in vantaggio su scala nazionale nel voto popolare. E questo, probabilmente, è altra  legna, oltre a tutto il resto di quello che rappresenta Trump di demagogico, razzista e regressivo, che ha alimentando il fuoco delle manifestazioni di rivolta dei giovani americani in molte città statunitensi, non solo dell’east e west coast. Stando a diverse analisi di approfondimento del voto, i giovani “millenials”, così definiti per essere nati dopo il 1982, che oggi gridano “Not my president”, se avessero votato solo loro, la Clinton, pur non essendogli molto simpatica, avrebbe vinto in 45 stati su 50 lasciando a Trump solo Idaho, Wyoming,  North Dakota, Kentucky, West Virginia.

Molti a sinistra si domandano, alla luce di tutto ciò, se la candidatura di Sanders avrebbe cambiato il risultato finale. E’ difficile dirlo con certezza. Si può dire però con una certa sicurezza: a) contro Sanders, Trump non avrebbe potuto utilizzare l’arma anti establishment che ha influito non poco; b) a sinistra ci sarebbe stata meno astensione e i democratici si sarebbero potuti avvalere dell’entusiasmo mobilitativo dei giovani che avevano sostenuto il vecchietto socialista del Vermont; c) il confronto sarebbe stato più limpidamente fra soluzioni di destra e di sinistra ai problemi della società americana scossa dalla globalizzazione.

Quanto all’elettorato moderato democratico, forse, avendo come alternativa Trump, avrebbe retto di più di fronte a un candidato come Sanders di quanto non abbia fatto quello di sinistra di fronte alla Clinton.

bernie-sanders_custom-65962aec8d4db62454712b4674b777a4bc5c38d8-s900-c85Rimane il fatto, comunque, che uno dei risultati collaterali a queste elezioni americane, che non può annoverarsi fra i danni, è che per la prima volta, nella storia politica ed elettorale, una persona, Sanders, dichiaratamente socialista, è stata competitiva nello scontro elettorale. Una piccola rivoluzione. E il “vecchietto socialista” sembra avere le idee chiare anche per il futuro: “Nei prossimi giorni – ha scritto – proporrò anche una serie di riforme per ridare slancio al Partito Democratico. Sono profondamente convinto che il partito debba liberarsi dai vincoli che lo legano all’establishment e torni a essere un partito di base della gente che lavora, degli anziani e dei poveri. Dobbiamo aprire le porte del partito all’idealismo e all’energia dei giovani e di tutti gli americani che lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale. Dobbiamo avere il coraggio di sfidare l’avidità e il potere di Wall Street, delle case farmaceutiche, delle compagnie assicurative e dell’industria dei combustibili fossili. Allo stop della mia campagna elettorale ho promesso ai miei sostenitori che la rivoluzione politica sarebbe andata avanti. E questo è più che mai il momento giusto”.

Forse il futuro non è del trumpismo. Almeno in America.


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