Il poeta credente è il teologo più grande

Quando ciò che la nostra mente riesce a comprende diventa emozione, e quando, insieme, ciò che sentiamo nel cuore è fin dalla sua radice indagato dalla nostra ragione

Il poeta credente è il teologo più grande, perché la comprensione di un’esperienza è massima quando essa risuona insieme nella mente e nel cuore, fino a coinvolgere le facoltà dell’anima umana.

Quando ciò che la nostra mente riesce a comprende diventa emozione, e quando, insieme, ciò che sentiamo nel cuore è fin dalla sua radice indagato dalla nostra ragione, ecco che ogni sapore viene percepito distinto, nella sua individualità, e allo stesso tempo si amalgama al tutto; l’anima contempla e ringrazia, così che alla fine tutto ciò che noi siamo rimanga coinvolto.

Il poeta credente è spinto a stirare il linguaggio umano senza strapparlo, senza giungere al limite dopo il quale c’è solo il silenzio; ne avevamo corso il pericolo nel 1939 – anno davvero orribile qui in Europa – col Finnegans Wake di James Joyce, che suo fratello aveva definito «l’ultimo delirio della letteratura prima della sua estinzione». Quelli erano però anni vissuti sul ciglio dell’abisso e solo l’abisso potevi guardare, se non alzavi lo sguardo a Dio. 

Quel periodo è storia ormai, ma non ci siamo ancora del tutto ripresi. Ogni autore ha trovato un suo stile, ma personale, ogni artista ha realizzato i suoi capolavori, ma con regole proprie. Il credente ha invece semplificato il linguaggio, senza perdere un millimetro del suo spessore.

È quello che ho capito ascoltando Penderecki, e lo cito ad esempio per la musica colta; ed è ciò che ho verificato, al di sopra di tutti e in anticipo su tutti, in Gerard Manley Hopkins per la poesia.

C’è in loro il tentativo di comunicare la propria esperienza, di tratteggiare un abbozzo, che balzi subito agli occhi, di un ritratto di quel Dio che sentono come un Dio quotidiano, che siede con noi sul divano di casa a parlarci di sé e della nostra esistenza. 

Non si tratta qui affatto di quel poeticume melenso, da sempliciotti devoti, che di continuo ricicla consunti stereotipi come se fossero questi a connotare ciò che può dirsi poesia: una sorta di prêt-à-porter dell’arte poetica. Un credente, che sia vero credente e sia davvero poeta, è invece capace di far teologia nella forma più densa. La via della bellezza non passa solo attraverso le icone o le chiese.

Un importante critico del secolo scorso aveva individuato due tradizioni letterarie principali nella storia recente della nostra cultura: una legata al mito dell’arte per l’arte, che si conclude in un gioco consolatorio per chi dispera di trovare un senso alla propria esistenza; un’altra dedita a un cammino di saporosa comprensione degli esseri umani e dei suoi rapporti con gli dèi e con gli altri animali. È in questo secondo filone che io inserisco Gerard Manley Hopkins come è uno dei poeti più complessi, potenti e influenti del XX secolo: in lui ogni parola poetica possiede peso, ogni sua idea è feconda, ogni immagine è cibo per la fantasia e la ragione. 

Nato in una numerosa famiglia anglicana, attraverso le prime e precoci poesie ottenne una borsa di studio per il Balliol College di Oxford. Lì fece conoscenza di un gruppo di teologi anglicani che cercava il dialogo con la Chiesa romana, il Movimento di Oxford, da cui era uscito per diventare cattolico un suo membro eminente, John Henry Newman. Anche lui passò al cattolicesimo e, finiti gli studi, decise di entrare dai gesuiti; bruciò le opere giovanili, deciso a non scrivere più fino a quando, nel 1874, un suo superiore lo incoraggiò a scrivere ancora. Le sue poesie rimasero comunque inedite e lette solo tra amici. Morì nel 1889 a Dublino, nella cui università insegnava Letteratura greca. 

La prima raccolta fu pubblicata nel 1918 da Robert Bridges, ma è solo con la seconda edizione del 1930 che venne riconosciuto tra i poeti più originali del secolo. Sottigliezze verbali, eco e allitterazioni, e un “ritmo elastico” caratterizzano il suo stile poetico denso, audace, che riesce a comunicare esperienze personali profonde, come il senso della grandezza e della misericordia di Dio e la gioia per ciò che è «fuor di squadra, difforme, impari e strambo».

Composto nell’estate del 1877, «Pied Beauty» è uno dei sonetti più conosciuti. Vi si esalta la singolarità e la varietà della natura, contro l’ideale platonico di perfetta bellezza. Qui è nella traduzione di Eugenio Montale, riportata in «Poesie» (Milano 1991), che ricorre a termini tecnici – come «biliottato», termine dell’araldica che significa «tempestato di macchioline simili a gocce» – o desueti, per riprodurre lo stile contratto di Hopkins.

La varietà, l’imperfezione, il continuo movimento della natura, il suo apparente squilibrio sono l’espressione della divinità che – Montale qui equivoca – non è immutabile, ma è «al di là del cambiamento», è cambiamento continuo a velocità infinita, un donarsi totale per poi tornare in sé. Dio cambia in continuazione, perché di continuo accoglie in sé nuove creature, con cui instaura relazioni sempre uniche; questa inesauribile fecondità non lo rende però diverso da ciò che da sempre Egli è, perché da sempre Dio è in stato di donazione continua. Dio non è immutabile, è «al di là del cambiamento». 

Così la perfezione non è unica e immutabile, ma ogni creatura ne vive una sua specifica secondo la propria natura, e questa raggiunge la massima espressione quando è percepita nell’insieme della variegata bellezza del mondo. Ogni imperfezione è così accolta come tassello di un puzzle completo.

Alla fonte c’è un’immagine di Dio prettamente biblica, lontana dalla visione culturale odierna. Non capiamo davvero la logica biblica, e per questo non capiamo la verità insita in norme che a noi appaiono sconcertanti. 

«Non seminerai nella tua vigna semi di due specie diverse, perché altrimenti tutto il prodotto di ciò che avrai seminato e la rendita della vigna diventerà cosa sacra. Non devi arare con un bue e un asino aggiogati assieme. Non ti vestirai con un tessuto misto, fatto di lana e di lino insieme» (Dt 22,9-11). Se confondi i semi, non nasce un giardino ordinato, una piantagione feconda; se mischi i tessuti, il tuo vestito non sarà adatto né a feste eleganti d’estate – il lino è tessuto estivo e pregiato – né ai giorni vissuti all’aperto in inverno (la lana). A dare ricchezza al mondo non è la confusione, in cui ogni cosa appare uguale alle altre, ma la comunione di identità diverse e distinte, apprezzate in ciò che le rende preziose.

L’apparente disordine delle creature è polifonia, è materia di una poesia dalle parole scelte con cura per scandire immagini di un mondo profano, ma in cui traspare, inaspettato, il vero volto di un Dio che è eterna bellezza.

La bellezza cangiante

Gerard Manley Hopkins – La Bellezza cangiante (1877)

Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate:

i cieli bicolori, pezzati come vacche,

la striscia roseo-biliottata della

trota in acqua, il tonfar delle castagne

– crollo di tizzi giovani nel fuoco –

e l’ali del fringuello; per le toppe

dei campi arati e dissodati, e tutti

i traffici e gli arnesi, e tutto ch’è

fuor di squadra, difforme, impari e strambo,

tutto che muta, punto da lentiggini

(chissà come?) di fretta o di lentezza,

di dolce o d’aspro, di lucore o buio.

Quegli le esprime – lode a Lui – ch’è sola

bellezza non mutabile.

Pied Beauty

Glory be to God for dappled things –

   For skies of couple-colour as a brinded cow;

      For rose-moles all in stipple upon trout that swim;

Fresh-firecoal chestnut-falls; finches’ wings;

   Landscape plotted and pieced – fold, fallow, and plough;

      And áll trádes, their gear and tackle and trim.

All things counter, original, spare, strange;

   Whatever is fickle, freckled (who knows how?)

      With swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim;

He fathers-forth whose beauty is past change:

                                Praise him.


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