Storie di cimiteri nei Castelli Romani

In tutta la penisola i cimiteri, di notte, atterrivano. Quando il buio si addensava intorno alle tombe, la morte camminava a grandi passi nei solitari viali e, nelle notti di luna velata, succhiava gli umori dei corpi sotto i bianchi sepolcri; nel silenzio spettrale una moltitudine di spiriti si aggirava nell’aria, pronta a ghermire gli incauti passanti: raccapriccianti, macabre fantasie che spingevano uomini, donne, e ragazzi specialmente, a non voler passare vicino ai cimiteri nelle ore ancora buie del mattino, piuttosto preferivano allungare di parecchio la strada per arrivare al luogo di lavoro.

Tipici i racconti, comuni in tutta Italia e nei Castelli, dell’uomo che vuol dimostrare il suo coraggio entrando di notte nel cimitero del paese. Per darne una prova sicura, gli si chiede di lasciare un segno tangibile, spesso piantare un chiodo in una certa tomba. Ma nella paura e nella frettolosa ansia, che egli certamente prova, si confonde e inchioda un lembo dell’ampio mantello che lo ricopre, come d’uso nell’Ottocento. Sentendosi afferrato da mani invisibili, grida, supplica: «Lasciami, lasciami!». Inutilmente: la mattina viene trovato morto.

(Di questo racconto c’è anche la versione dell’uomo che resta impigliato, col mantello, in uno spuntone del cancello del cimitero e muore lì di spavento).

cimitero-di-glasnevin-dublino-11Un altro racconto molto diffuso, pure oltre i Castelli Romani, è quello della donna che, nella cappella del cimitero assiste, inconsapevole, alla messa dei morti, che però non le fanno del male, anzi la salvano, avvertendola di uscire dalla chiesa prima di loro – in questo quasi somigliando alle Anime Sante. Il racconto era sicuramente noto a Nuoro, dove, fin dopo la seconda guerra mondiale, veniva narrato oralmente, in Friuli e in Lucania.

 

LA MESSA  AL  CIMITERO

Nel mese di novembre, una donna di Rocca di Papa andava tutte le mattine alla messa che in quel mese si celebrava al cimitero.

Non possedeva orologi e si regolava con la luce del sole.

Una mattina era ancora buio, ma sembrava prossima l’alba. E la donna, pur nel silenzio e nella foschia che gravavano sul paese, uscì stringendosi nello scialle.

Arrivata al cimitero trovò la chiesetta già affollata di uomini e di donne, che composti pregavano, mentre il sacerdote officiava. Anche lei si mise a pregare, ma ogni tanto alzava gli occhi per guardarsi intorno: non vedeva nessun conoscente. Ad un tratto uno dei fedeli le si avvicinò e la toccò su una spalla, invitandola a non trattenersi oltre il momento dell’Elevazione, perché subito dopo tutti i presenti dovevano andarsene per tornare ai loro posti.

La donna, pur non comprendendo il senso di questa richiesta, seguì il consiglio dello sconosciuto e dopo l’Elevazione si fece il segno della croce e uscì, recitando l’abituale congedo ai morti: Vi saluto cocce sante, (teste sante) / vi saluto tutte quante. / Pregate Gesù per noi / ché presto saremo come voi.

 Arrivata fuori del cimitero – il cielo cominciava a schiarirsi – sentì alle sue spalle un fracasso di pietre che venivano spostate.

Solo allora intuì, trattenendo il respiro, che gli uomini e le donne con le quali aveva assistito alla messa altri non erano che i morti che in quel momento tornavano nelle loro tombe.

Avvertendola, l’avevano salvata: se fosse rimasta, sarebbe stata risucchiata con loro nel buio regno dell’oltretomba per sempre.

 

spiriti (1)Nel racconto friulano è un sacerdote che, scorgendo dalla sua stanza la notte molto chiara, crede sia l’alba e va in chiesa a celebrare la messa. Mentre si sta avviando verso l’altare, una donna, che lui sapeva morta da tempo, gli si avvicina e lo invita ad andarsene perché la sua presenza sacerdotale sarebbe stata accettata solo dopo il suono della prima campana. Il sacerdote si toglie in fretta i paramenti e corre via. L’indomani il sacrestano trova i paramenti completamente stracciati. Questa sarebbe stata la fine del parroco se fosse rimasto.

Più simile al racconto di Rocca di Papa è quello lucano riportato in Sud e magia. La donna morta che avvisa il vivo dice: «Vattene, non è posto per te. Se non te ne vai, ci rimarrai».

Nella fiaba gallurese La potenza della felce maschio, Italo Calvino inizia il racconto proprio con un ballo di morti. Una notte, in una chiesa solitaria di campagna, il più fiero bandito della Gallura sta per entrare – volutamente – in un cerchio di ballerini senza occhi. Una donna morta lo ha invitato a danzare, promettendogli di rivelargli il misterioso luogo dove fiorisce la felce maschio: se riuscirà a coglierne i tre fiori, nessuno più morirà quando sarà colpito dal piombo. Ma nel momento in cui l’uomo sta per stringere la mano della morta per partecipare alla danza, viene avvertito da un defunto compare di battesimo:

«Attento, compare mio – disse il compare morto – chi entra nella schiera dei morti non potrà uscirne più e, se non fate di tutto per uscirne, domani sarete anche voi coi morti. Ma io, che v’ho dato la fede in vita, vi salverò dalla morte. Entrate pure a ballare con noi ma sul più bello cantate questi versi: Cantate e ballate voi / Che ora la festa è vostra / Quando verrà la nostra / Cantiamo e balliamo noi»

Il generoso bandito, che vuole salvare gli uomini dalla morte per piombo, segue il consiglio del compare: subito dopo aver conosciuto il nome del luogo dove fiorisce la felce, ripete i versi e sfugge all’abbraccio mortale dei trapassati. Non riuscirà in ogni modo a portare a termine la sua missione.

Tante le varianti in molte regioni dell’incontro, consapevole o inconsapevole, tra un vivo e i morti.

Il racconto seguente, particolarmente misterioso e inquietante, del bambino abbandonato non sembra invece avere parentele altrove. L’ho trovato soltanto a Rocca di Papa.

IL BAMBINO ABBANDONATO

Era l’imbrunire. Un uomo di Rocca di Papa tornava a casa a piedi da Squarciarelli. La strada era deserta e silenziosa, del silenzio che precede la notte. L’uomo era stanco, ma camminava con passo deciso: ormai un’altra curva e si sarebbero viste le case del paese.

Ad un tratto un vagito ruppe la tranquillità della sera, l’uomo si voltò automaticamente, si guardò intorno. Non vide nulla, ma i vagiti continuavano, anzi diventavano sempre più strazianti, allora si inoltrò fra gli alberi da cui sembrava provenire il pianto. Seguendo i vagiti, scostò un cespuglio ed eccolo lì quel bimbo che piangeva avvolto nelle fasce, apparentemente abbandonato.

L’uomo gridò, chiamò, cercò lì intorno, forse la madre non era lontana, ma gli rispose solo il fruscio delle alte fronde dei castagni. Allora prese il bambino in braccio, deciso a portarlo a casa, e si avviò verso il paese: la madre in qualche modo si sarebbe trovata.

Arrivato alla curva, detta di Riccardino, sotto il colle del cimitero, il bambino cominciò a pesargli sulle braccia e ad ogni passo pesea, pesea sempre di più. Ormai quel peso era diventato insostenibile. L’uomo, ansimando, stava per appoggiarlo a terra per riposarsi, quando udì una voce lenta, cavernosa provenire dalla strada del cimitero: «Vieni, vieni…». Il bimbo che pesava ormai come un grosso sacco di farina, si staccò dalle sue braccia e volò verso il cimitero.

ALLA FINE BISOGNAVA ANDARE A LETTO

Dopo le tante storie tenebrose dei dopocena, bambini e ragazzi tenevano le mani strette ai ripiani delle sedie, come se le streghe o gli spiriti potessero portarli via, farli uscire dalla porta di casa in un gelido soffio di vento e costringerli chissà a quali torture, per non farli tornare mai più indietro. Non potevano alzarsi, il buio della camera da letto, nella quale dovevano entrare, li terrorizzava. «Tocca a te, tocca a te», si dicevano l’un l’altro i fratelli.

Poi con cautela, guardandosi intorno di sottecchi, si alzavano e salutavano i genitori chiedendo la benedizione: «Tata (papà), damme ‘a santa benedizzio’, ma’, damme ‘a santa bendizzio’», dicevano a Rocca di Papa.

La voce dei genitori: «Diu te benedica, Diu te benedica…»  cadeva nell’animo dei bambini come un balsamo, riportandoli alla realtà della cucina, all’odore della legna che si era consumata nel focolare, alle braci che la madre ricopriva con la cenere, all’arca, dove era riposto il pane, ai mazzi di granturco e di peperoncini appesi alle travi. Pian piano si avviavano nella camera buia e alzavano le coperte, guardando prima con timore sotto il letto, dove a volte si conservavano le mele o le castagne, che creavano piccole ombre insidiose. Si facevano il segno della croce e, nell’attesa che qualcuno spegnesse la luce, restavano rigidi con gli occhi spalancati, aspettando che il sonno li avvolgesse.

Eppure l’indomani sera, e tante altre sere ancora, avrebbero chiesto con insistenza – lo sapevano bene – di riascoltare le storie che li facevano rabbrividire di gioiosa paura e sarebbero andati di nuovo a letto con la testa piena di streghe, di spiriti e di lupi mannari.

 

Bibliografia

Italo Calvino, Fiabe Italiane,  Mondadori, Milano, 2010

Ernesto De Martino,  Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1998

Anton von Mailly,  Leggende del Friuli e delle Alpi Giulie,  Gorizia, 1986

Maria Pia Santangeli, Streghe, spiriti e folletti-L’immaginario popolare nei Castelli Romani  e non solo, Edilet ( Edilazio letteraraia), Roma, 2013

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mariapiasantangeliMaria Pia Santangeli, toscana di nascita, vive da quarant’anni a Rocca di Papa, nei Castelli Romani. Ha pubblicato Rocca di Papa al tempo della crespigna e dei sugamèle e Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani,Streghe, spiriti e folletti, tutti editi da Edilazio, e due libri per ragazzi: le quattro fiabe de Il Principe degli specchi (Sovera, 2000) e il breve romanzo ecologico Arbìn bambino albero (Ragazzi Editors, 2008), tutti e due lungamente citati in due tesi di Laurea sulla Letteratura per l’infanzia (Università di Roma Tor Vergata e Roma Tre). Nel 1996 ha fondato a Rocca di Papa l’Associazione culturale L’Osservatorio. Sempre a Rocca di Papa ha ideato e organizzato per tre anni una notte di cultura denominata La notte verde.

 


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