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Il centenario di Don Giuseppe Morosini, partigiano e martire

Nato il 19 marzo 1913 a Ferentino, a 31 anni venne fucilato a Forte Bravetta

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Il film “ Roma città aperta” diretto da Roberto Rossellini nel 1945, è stato considerato da sempre il manifesto del neorealismo e uno dei capolavori del cinema mondiale, anche perché, raccontava storie di vita vissuta, contrariamente alle didascalie iniziali, dei film, che precisano con evidenza, che “ i fatti narrati, sono puramente casuali.”

Infatti, nella scene finali, di questa pellicola storica, che racconta il periodo cupo, drammatico ed eroico, della Resistenza romana, durante i nove mesi dell’occupazione tedesca della Capitale (dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944) un sacerdote, un cappellano militare, Don Morosini, viene condannato alla fucilazione a Forte Bravetta, nella periferia ovest della capitale.

Dopo l’ordine di “fuoco” il plotone di esecuzione spara, ma il sacerdote non muore immediatamente, l’ufficiale nazista, che comandava il plotone, in uno scatto d’ira e di rabbia spara i due colpi di grazia alla nuca, decisivi per far morire il prete ciociaro.

Questo è stato il martirio dell’eroico Don Giuseppe Morosini. Aveva trentuno anni.

Nella finzione cinematografica, il sacerdote è interpretato da uno straordinario Aldo Fabrizi, che interpreta con fedeltà e rigore, gli ultimi minuti di vita del grande presbitero, decorato con la Medaglia d’oro al valor militare, alla memoria.

Ma quali sono stati i lineamenti storici di Don Giuseppe Morosini?

Un secolo fa, a Ferentino ( in provincia di Frosinone) il 19 marzo 1913 nasceva il futuro sacerdote, ultimogenito di una famiglia numerosa. In tenera età sente la vocazione religiosa, entra nel Seminario Diocesano e va nella Congregazione dei Signori della Missione, i sacerdoti fondati da San Vincenzo de Paoli con la finalità di soccorrere i poveri e i bisognosi.

Ordinato sacerdote a Roma nel 1937, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, Don Giuseppe Morosini esercitò il ministero sacerdotale dapprima a Roma, poi a Piacenza dove, nel 1939 venne incaricato delle missioni e dell’assistenza spirituale al Collegio S. Vincenzo. Nel 1942 divenne cappellano militare nel 4° Reggimento artiglieria a Laurana, nelle province di Pola e Fiume (nella Venezia Giulia italiana).

Rientrò a Roma dove prestò la sua opera nel quartiere Prati, in un centro di raccolta dei ragazzi provenienti dalle zone sinistrate della guerra. Dopo l’8 settembre 1943, si impegnò in modo particolare nell’azione sociale e politica, oltre che in quella religiosa e cominciò ad assistere spiritualmente un gruppo di partigiani a Monte Mario, che vivevano prevalentemente in clandestinità.

opencityI suoi guai iniziarono quando un ufficiale della Wehrmacht (forze armate tedesche) lo mise a conoscenza del piano operativo delle forze tedesche dislocate sul fronte di Cassino. Tradito e denunciato da un delatore, che si spacciò per amico e partigiano, Don Giuseppe e il tenente Bucchi furono catturati dalla Gestapo (polizia segreta della Germania nazista, sotto il controllo delle SS, ebbe un ruolo determinante nella repressione degli oppositori politici del regime), il 4 gennaio del 1944 e furono portati nel carcere di Regina Coeli.

Nella cella 382 del 3° braccio politico tedesco, Don Morosini, ebbe come compagno di cella, Epimenio Liberi, un sottufficiale che aveva partecipato alla difesa di Roma a Porta S. Paolo e poi si aggregò alle formazioni partigiane del Monte Soratte. Fu a lungo torturato, dopo la cattura, a via Tasso e poi trasferito nel carcere di Trastevere, qui venne a sapere che la moglie Giovanna gli avrebbe dato il terzo figlio, che però non avrebbe mai visto. Aveva 24 anni e fu fucilato alle Fosse Ardeatine.

Don Morosini e Bucchi, pur essendo stati più volte torturati, non rivelarono luoghi e nomi del movimento clandestino, assumendosi personalmente tutta la colpa.

Condannato a morte, dopo un processo-farsa, perché non si conosceva con precisione l’accusa, ma da tutte le circostanze si può immaginare che egli sia stato accusato di “ intelligenza col nemico”, perché era in relazione con il Comitato di Liberazione di Roma.

Don Morosini non si perse d’animo e continuò a ripetere la sua versione dei fatti. Nell’attesa dell’esecuzione, si prodigò per sostenere i compagni di carcere e gli ebrei che vierano rinchiusi. Nonostante le pressioni esercitate dal Vaticano e dal Papa Pio XII in persona, nei confronti del generale Kesselring (comandante in capo delle truppe di occupazione tedesche), che dopo la fine del conflitto, venne processato e condannato per crimini di guerra.

Trasportato a Forte Bravetta per essere fucilato, da un plotone della PAI (Polizia Africa Italiana), il valoroso sacerdote affronta l’ultima prova con estrema dignità. E’ accompagnato al patibolo dal vescovo monsignor Luigi Traglia, che l’aveva ordinato sacerdote sette anni prima. All’ordine di “fuoco,” dieci componenti del plotone d’esecuzione (su dodici) sparano in aria. Ferito dai colpi degli altri due, Don Morosini viene finito con due colpi sparati a bruciapelo. Era il 3 aprile 1944.

Sandro Pertini (il futuro Presidente della Repubblica) anche lui detenuto al carcere di Regina Coeli, che lo incontrò dopo un interrogatorio delle SS, lasciò questa testimonianza: “Anch’io ero detenuto a Regina Coeli sotto i tedeschi, incontrai un mattino Don Giuseppe Morosini: usciva da un interrogatorio delle SS, il volto tumefatto grondava di sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà. Egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva. La luce della fede. Benedisse il plotone di esecuzione, nel giorno dell’esecuzione, dicendo ad alta voce: “Dio perdona loro: non sanno quello che fanno”, come Cristo sul Golgota. Il ricordo di questo nobilissimo martire vive e vivrà sempre nell’animo mio.”

Nella motivazione della concessione della Medaglia d’Oro al valor militare, alla memoria, concessa motu proprio da Umberto di Savoia, Luogotenente Generale del Regno, il 15 febbraio 1945,  è scritto: “ Sacerdote di alti sensi patriottici, svolgeva, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, opera di ardente apostolo fra i militari sbandati, attraendoli nella banda di cui era cappellano. Assolveva delicate missioni segrete, provvedendo altresì all’acquisto ed alla custodia d’armi. Denunciato ed arrestato, nel corso di lunghi estenuanti interrogatori respingeva con fierezza le lusinghe e le minacce dirette a fargli rivelare i segreti della resistenza. Celebrato con calma sublime il divino sacrificio (la Santa Messa prima di essere fucilato), offriva il giovane petto alla morte. Luminosa figura di soldato di Cristo e della Patria.”

L’11 aprile 1954, Domenica delle Palme, dieci anni dopo la morte, i resti mortali di Don Giuseppe Morosini furono traslati a Ferentino e tumulati nella cappella votiva del Comune, dove il futuro Card. Luigi Traglia (Vicario di Roma, nel 1965 durante il pontificato di Paolo VI) celebrò la S. Messa in piazza Matteotti, davanti al Palazzo Municipale.

Nel centenario della nascita di Don Giuseppe Morosini, il Comune di Ferentino con l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica, ha organizzato manifestazioni e cerimonie per ricordare e conservare la memoria dell’illustre concittadino. Ma “il sacerdote, il partigiano, il martire”, è uno dei tanti uomini di buona volontà, spesso poco conosciuti, che con il loro sacrificio hanno restituito dignità al nostro paese sconvolto dalla Seconda Guerra mondiale. E che per questo non va dimenticato.


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