Memoria scolastica: quando la disabilità diventa il traino per una crescita collettiva

Un libro (parlato) per raccontare una storia fantastica ed educante, anzi quattro

Arricchiamoci delle nostre rispettive differenze” (Paul Valery, 1871-1945, Poeta e Filosofo francese)

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L’invito a partecipare all’Evento che la Classe IIIE, della Scuola “”2 Ottobre 1870”, di Via di Santa Maria alle Fornaci (Plesso scolastico facente parte dell’Istituto Comprensivo “Piazza Borgoncini Duca”, situato nel Municipio XIII Aurelio, di Roma Capitale), aveva organizzato, per lo scorso Mercoledì, mi era arrivato – via mail – inaspettato.

In quella Classe ero stato, nello scorso “Giorno della Memoria”, a parlare di IMI; con quella Classe eravamo, poi, andati in visita al Mausoleo Militare delle Ardeatine e con l’Insegnante di Lettere ci eravamo trovati altre volte, con altre Classi Terze, negli anni passati. Così, affrontando le difficoltà che ogni mattina devo superare – da persona disabile – per “accendere i mortori” e “partire”, mi sono detto “non puoi non esserci”. E sono andato.

I ragazzi avevano pensato e costruito – con l’aiuto della loro Insegnante di Lettere e di quella per l’Inclusione del piccolo Adam – 13enne siriano disabile e carrozzato (condizione che non gli aveva impedito affatto di essere con noi alle Ardeatine) – un “Libro parlato” per raccontare, in modo creativo e fantastico (in tutti i sensi), la loro esperienza triennale di vita scolastica con Adam.

Nota: il “Libro Parlato” di cui leggerete è stato realizzato anche grazie all’apporto fattivo di Francesca Ferraro, Responsabile del Centro Nazionale del Libro Parlato, di Roma, dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, di Marco Caponera, Docente di scrittura creativa e al contributo, in fase di registrazione del lavoro, dei ragazzi della Classe IIIB dell’Istituto di Via di Santa Maria alle Fornaci.

Di questo genere di libri, i “Libri Parlati”, sapevo qualcosa, per la conoscenza con una mia amica di Bari che a questo, al tempo della nostra frequentazione, lavorava, nell’Unione italiana Ciechi e Ipovedenti. Certo è facile intuire quanto questo genere di libri sia utile a chi non vede e magari non conosce ancora il metodo di lettura / scrittura in braille, oppure non trova ancora il libro che cerca stampato in braille. Ma poco si conosce di quanto fare (nel senso di pensare costruire e produrre) questo tipo di materiali e renderli fruibili a coloro per i quali sono stati pensati possa essere per niente  semplice e assai dispendioso.

Dunque, l’idea di essere presente, non solo all’ascolto di parti di quel ”Libro Parlato”, ma alla possibilità di ascoltare, dalla viva voce dei ragazzi, come quel Progetto era nato e si era sviluppato e soprattutto cosa, per loro come persone, aveva significato quell’esperienza, mi intrigava parecchio. Dunque sono andato.

Esserci è stato, per me, bello ed educante, nel senso più ampio del termine. In primis perché quello che è stato presentato dagli Autori e dalle Autrici è stato un ottimo lavoro, ma soprattutto perché, oltre ad essere ottimo, dimostra due cose fondamentali. La prima: i ragazzi sanno – più di noi adulti – accettare le differenze e dunque il loro compagno Adam non era affatto un problema, bensì una risorsa, meglio uno stimolo a ragionare, capire e crescere le e sulle cose del mondo; nonché sulla diversità che spesso il mondo medesimo stesso presenta al nostro cospetto. La seconda: quando ai ragazzi dai qualcosa di concreto su cui impegnarsi e lavorare, la loro creatività schizza molto in alto si mettono al lavoro, di buzzo buono, e arrivano alla meta: produrre qualcosa di utile senz’altro a loro, ma anche – se possibile – al resto del quartiere, della città e del Paese in cui vivono.

Ma quel Progetto – e i ragazzi lo hanno capito e raccontato alla perfezione – ha anche fatto loro capire quanto la differenza che il loro compagno disabile, con tutta evidenza, incarnava fosse, per loro, educante e dunque utile alla crescita in primis della propria autostima personale e poi alla crescita collettiva del gruppo classe di cui facevano parte.

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Perché si va a Scuola? E’ stata una domanda rivolta ai ragazzi da uno dei relatori.  Per farsi una cultura, è stata una delle risposte. Vero. Ma si va a Scuola anche per diventare cittadini attivi e responsabili. E avere in classe, per diversi anni, un compagno disabile di cui prendersi cura (nel senso più ampio dell’espressione) ha fatto sicuramente crescere tutti gli altri ragazzi e ragazze della classe. E in questo lavoro di crescita collettiva, Adam ce l’ha, certamente, messa tutta ad essere anche un educatore per i suoi compagni. Cosa non facile, ma possibile perché – come ho imparato personalmente – per noi, persone disabili: “niente (o quasi) è impossibile e tutto (o quasi) è superabile”.

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Ma l’esperienza del “Libro Parlato” scritto collettivamente per Adam, dai suoi compagni, titolo “Adam, il Giro del Mondo in 4 Racconti” (ascoltabile qui: https://open.spotify.com/show/1Do61rQLOb6OgSk4KVojaG) è stata una sfida anche per le Insegnanti: la Professoressa Chiara Serva, Docente di Lettere e la Professoressa Laura Bonsi, Docente per l’Inclusione.

Insegnare, infatti, oltre a non essere una cosa facile, non dovrebbe essere – come, in effetti, non è – trasmettere i pensieri degli altri, ma – lo penso da sempre – se vuole raggiungere l’obiettivo più ambito, deve essere:  insegnare a pensare. Scriveva proprio così il Filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) un paio di centinaia di anni fa, nei suoi Scritti Pedagogici:

Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a pensare. Non lo si deve “portare”, ma “guidare” se si vuole che, in seguito, sia capace di camminare da solo.”.

Dunque, non “portare”, ma “guidare”. Per fare questo – e farlo bene – occorre certo preparazione professionale in dosi massicce, ma anche empatia, ma anche la capacità di porsi in una posizione di ascolto verso l’altro da sé, soprattutto quando quest’altro non riesce a farsi sentire. Questo perché insegnare è un quid nel quale dai e ricevi, trasmetti il tuo sapere  ma, nello stesso momento, ricevi le conoscenze dell’altro (che spesso devi saper decodificare) stimoli i suoi progressi nella conoscenza – e coscienza – di sé e del mondo circostante e i progressi in questo percorso, quando arrivano, sono anche i tuoi progressi, come Insegnante, ma anche come persona.

Si tratta di cosa certo facile a dirsi, ma sicuramente più difficile a farsi concretamente. Dunque, quando si constata – come mi è accaduto Mercoledì scorso – che il lavoro presentato ha, senz’altro, dato i frutti sperati non c’è che da rallegrarsi, perché ti accorgi di quanto sia giusto quanto scrissero i e le Costituenti nell’Articolo 34 della nostra Costituzione (ma anche nell’Articolo 3, in termini di eguaglianza e dignità di tutti i cittadini) e di quanto sia magica la parola “inclusione, se viene maneggiata con attenzione, scienza  e  impegno, nella sua accezione pedagogico-educativa.

Certo, anche essere l’Insegnate di sostegno, meglio all’Inclusione, di un alunno disabile, soprattutto quando la disabilità non è leggera, non è cosa facile. Ci vuole di sicuro, anche qui, preparazione professionale, ma un po’ anche “l’occhio clinico” del bravo Medico che vuol dire capire al volo le situazioni, infilarcisi con delicatezza e starci “bene” dentro, dato che in quella situazione educativa non si è soli. Ma ci vuole anche molta umanità e trasporto verso gli altri, perché il “sostegno”, meglio l’inclusione, non è “tenere buono” il disabile, ma è entrare con lui in sintonia, capirlo e aiutarlo “essendoci” quando a lui serve che tu ci sia e, nel contempo, farlo crescere  come persona,” sfidando” la disabilità che presenta e certo lo ostacola e sfruttando tutte le possibilità che possono essere utilizzate nella situazione data, per vincere la battaglia della crescita educativa comune.

Tutto questo è certo successo in IIIE (ne sono sicuro) e non solo nel tempo del Progetto di cui riferisco qui.  Ma se tutto questo, da parte delle Insegnanti, non fosse stato costruito, mattoncino dopo mattoncino, con pazienza e costanza certosine, il “Libro Parlato” per il piccolo Adam non avrebbe visto la luce, ma peggio, questa comunità educativa ed educante insieme non avrebbe dato buoni frutti per il presente e soprattutto per il futuro dei suoi piccoli cittadini.

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Un’ultima annotazione. Uno dei relatori ha ricordato che “Adam, il Giro del Mondo in 4 Racconti” è si un “Libro Parlato”, ma è anzitutto un libro scritto collettivamente. Ed ha ancora ricordato che il primo libro scritto collettivamente si chiama “Lettera a una Professoressa” e lo hanno scritto, ormai parecchie decine di anni fa, i ragazzi della Scuola di Barbiana, di Don Lorenzo Milani, ovvero gli “ultimi” nella scala sociale del tempo, che – respinti dalla Scuola ufficiale perché giudicati “inadatti allo studio” – hanno preso carta e penna per mandare un messaggio agli altri da loro ovvero i primi in quella scala sociale, (ma anche i secondi e i terzi e poi ancora tanti prima di loro, perché loro erano proprio stati piazzati in fondo a quella scala sociale, senza che fosse stato chiesto e detto loro nulla). E i cuccioli di Don Milani lo hanno fatto, hanno scritto il loro “libro collettivo” per lasciare una traccia del loro passaggio sulla terra, una traccia che fosse ben visibile agli altri.

Così scrivevano quei ragazzi: “Se si perde loro (i ragazzi difficili) la Scuola non è più Scuola. E’ un Ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile.”.

Bene, anche i ragazzi e le ragazze della IIIE della Scuola “2 Ottobre 1870” hanno lasciato, con questo “Libro Parlato”, la loro traccia ben piantata sul terreno e visibile, anche da lontano. E lo hanno fatto anche in ossequio ad una delle citazioni che hanno piazzato in testa al loro lavoro e che recita: “Non andare dove il sentiero ti può portare, va, invece, dove il sentiero non c’è ancora e lascia dietro di te una traccia.” (Ralph Valdo Emerson, 1803-1882. Filosofo, Scrittore e Poeta americano). Dunque, grazie ragazzi e ragazze e buona vita.


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