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La “Rivolta dei Ciompi” di Alessandro Barbero

Il Medioevo, l'età dei "Secoli Bui", ma anche delle Rivolte popolari in cui si affaccia alla storia la coscienza di classe

 

“Frunnelle ‘e noce / nuje nun cuntammo niente ‘ntiempo e pace /  ma si chi c’è cummanna nun ce piace / nuje nun ce stamme zitte e aizzammo ‘a voce //” (Eugenio Bennato, “Il Canto degli Scugnizzi”, 1978. Testo e musica di Eugenio  Bennato, voce femminile di Teresa De Sio)

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«Il Medioevo è passato alla storia come il periodo dei secoli bui. Nessuno, però, mi ha spiegato chi era stato a spegnere la luce». (Luciano De Crescenzo, filosofo, scrittore e regista, 1929-2019)

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Di tutte le Rivolte che si svilupparono in diverse parti dell’Europa negli anni tra il 1358 ed il 1390, qui leggerete diffusamente solo di quella – operaia e urbana – scoppiata a Firenze quando era una città-Stato ricca e fiorente, governata dai Priori. Era il Giugno del 1378.

Delle altre tre: la Jaquerie dei contadini francesi del 1358, quella di quelli inglesi, del 1381 e, infine, la rivolta dei “tuchini” nel Canavesano piemontese, durata dal 1385 asl 1390,. potrete trovare notizie dettagliate nel Saggio di cui oggi vi propongo la lettura.

Si tratta di “All’arme! All’arme! I Priori fanno Carne!” del Professor Alessandro Barbero, Storico, scrittore e divulgatore di vaglia, pubblicato quest’anno da Laterza.

Sui Testi di Storia in uso nelle Scuole, ma non solo in quelli questa Rivolta si trova spesso declassata a “tumulto”, come se si fosse trattato di un moto di piazza, tumultuoso, appunto, ma breve. E’ vero, in effetti quella Rivolta durò solo lo spazio di poco più di un mese, metà Luglio-tutto Agosto del 1378, ma ottenne i suoi risultati e sindacali: i Ciompi, ovvero i salariati fiorentini che lavoravano la lana (ma non solo loro) al soldo dei padroni di quell’Arte, chiedevano l’aumento delle paghe e la riduzione delle ore di lavoro, e politici: gli operai della lana fiorentini volevano entrare nel Governo della loro città visto che, con il loro lavoro, l’avevano fatta ricca e inizialmente ottennero anche questo risultato. Alla fine della Rivolta, infatti, anche i Ciompi ebbero i loro Priori in seduta permanente a Palazzo Vecchio, magari gente che non aveva nemmeno i soldi per comprarsi un paio di brache – dicevano gli altri Priori – ma  anche loro sedevano con gli altri  sei Maggiorenti che esercitavano il potere cittadino in Palazzo Vecchio, rimanendovi chiusi per tutto il loro Mandato.. Certo, poi tutto tornò come era stato prima, ma solo perché quel tumulto che era stato, in realtà, una Rivolta non divenne mai una Rivoluzione.

“Ciompi”, una parola? No, una parolaccia

“Con questo nome d’incerta origine si designavano nel ‘300 a Firenze i salariati sottoposti alle varie Arti o i professanti le più umili mansioni al di fuori di qualunque Arte, ma soprattutto i lavoratori dipendenti dall’Arte della lana e ascendenti per numero a molte migliaia.”. Così nell’Enciclopedia Italiana Treccani, al Lemma “Ciompi” ma, in realtà, nel fiorentino del ‘300 quella parola era solo un termine dispregiativo, un insulto insomma, una parolaccia con la quale si apostrofano i poveracci, i rifiuti della terra, quelli che, molto tempo dopo, avremmo conosciuto come “sottoproletari”, insomma, gli ultimi degli ultimi.

Qui, occorre aprire una parentesi sul significato di parole come Rivolta e Rivoluzione. La Rivolta – lo dice la parola stessa – avviene quando qualcuno decide, appunto, di “rivoltare”” le cose, cioè di mandare all’aria l’ordine che le cose hanno avuto sino a quel momento. per mettere al suo posto un ordine diverso.  Per farlo, quel qualcuno usa la violenza cercando di far fare alle cose una Rivoluzione, nel senso proprio del termine.

Scrive Barberoin realtà la storia d’Europa, almeno nell’ultimo millennio, è tutta punteggiata da momenti critici in cui una massa di persone decide che il futuro così come lo vede non gli piace e prova a cambiarlo. Quando ci riesce, il mondo va a gambe all’aria e il futuro cambia, e in questo caso noi parliamo di rivoluzione.”.

La Rivolta dei Ciompi di Firenze è uno di questi tentativi “di mandare il mondo a gambe all’aria”, usando anche la violenza. Ma non si tratta di violenza cieca. Infatti, scrive ancora Barbero: “Dunque bruciano le case dei gentiluomini. Ma prima di bruciare il castello, la torre o la cassaforte del nobile ci si entra, e si saccheggia. Cosa portano via? i vestiti, notano i cronisti. Portavano via la roba e rivestivano sè stessi e le loro donne contadine in modo più pittoresco.”.

E anche se il tentativo rivoluzionario dura poche settimane, insomma fallisce e viene represso, le pagine del Saggio di Barbero ci dicono chiaramente che quegli operai della lana avevano in testa un piano preciso, avevano degli obiettivi, precisi, insomma sapevano esattamente cosa volevano fare e dove volevano arrivare. Non si trattava dunque di mera violenza.

I Ciompi fiorentini avendo pienamente coscienza del fatto di essere una “classe”, anche se la chiamavano “Arte” e noi, poi ,“Corporazione”; una classe che unita poteva – potremmo dire, utilizzando un’espressione che al tempo era ancora di là da venire – “cambiare lo stato di cose presenti”. Insomma, con quella Rivolta, mai diventata Rivoluzione, nasce quella che, in seguito, qualcuno definirà come “coscienza di classe”.

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Nella Firenze del ‘300, anche se erano ricchi, potenti e rispettati – che quando passavano per strada, a cavallo o a piedi, la gente si levava il cappello – non erano i Signori, i Nobili, a comandare. Il potere in città lo esercitavano i Priori, otto, in rappresentanza delle “Arti” fiorentine, più il Gonfaloniere di Giustizia che era il vero deus ex machina della città, in quanto detentore del potere di arrestare e processare chi riteneva colpevole di un qualche reato o pensava potesse rappresentare una minaccia per la stabilità politica dello Stato (la città di Firenze), il tutto a suo esclusivo giudizio.

I Priori avevamo un solo nemico i Signori, i Magnati, che per legge non potevano essere eletti Priori né ricoprire alcun incarico pubblico. Dunque, i Signori erano formalmente esclusi dall’esercizio del potere così come lo erano i salariati, ovvero gli operai che, a domicilio, lavoravano per i commercianti che componevano l’”Arte” della Lana, Ma i Signori non avevano certo bisogno di loro Priori per esercitare il potere, mentre gli operai dovevano solo lavorare, tacere e pagare le tasse (“che non avevano avuto mai niuno Ufficio e stavano alle spese”, scriverà un cronista del tempo), nonché abitare alla periferia della città, ché la città per loro era off limits.

Il “Popolo” secondo l’idea dei fiorentini del 1300

Dunque, nella Firenze del 1300 il potere era al “Popolo”. Ma chi era realmente ‘Popolo’ nella Città-Stato più forte e ricca di tutta l’Europa? Ma loro, si capisce, i Priori e i componenti delle “Arti” che li esprimevano. Loro, che erano quelli che lavoravano, fossero lanaioli, macellai, carpentieri, fabbri, macellai, ciabattini, osti o bottegai di altro genere. Perfino i banchieri erano Popolo. Si, perfino loro che certo lavoravano, poco, ma lavoravano. Loro erano il “Popolo Grasso”, loro, tutti, erano Popolo e potevano diventare Priori, se il loro nome usciva, ovvero veniva materialmente estratto, dalle “Borse” in cui c’erano tanti foglietti con su scritto il nome di ognuno di loro (vedi appresso). Gli altri, i Signori, i Magnati, e gli operai, i Ciompi, loro no, non erano Popolo e dunque il potere a loro no, non era dato che lo potesser5o esercitare, mai e poi mai.

I Priori duravano in carica due mesi (perché nessuno si abituare al gusto del potere) e non venivano eletti, ma i loro nomi erano estratti da enormi “Borse” nelle quali erano inseriti tutti i nominativi dei componenti – ricchi e meno ricchi – delle “Arti” fiorentine: quel momento amministrativo bimestraale era lo “scrutinio”, ma nel fiorentino del tempo veniva fuori “squitinio” e lo “Squitinatore” era dunque persona assai di rispetto. In questo modo a tutti i componenti del Popolo di Firenze era dato di credere di poter essere – prima o poi – estratti dalle “Borse”, tutti, meno gli operai., che non erano Popolo, ma solo dei pezzenti. E in questo modo, su questa speranza di comandare, si tenevano unite e compatte le “Arti” intorno ad un obiettivo comune: l’esercizio del potere, che appunto escludeva gli operai salariati che non avevano nemmeno una propria “Arte” riconosciuta; cemento ideologico che era sostanziato dalle alleanze che, di volta in volta, i rappresentanti delle diverse “Arti” stipulavano tra di loro..

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La Rivolta dei Ciompi, ovvero come tutto era cominciato

Quel giorno di Giugno del 1378, un Venerdì, Salvestro De Alemanno De’ Medici, Gonfaloniere di Giustizia di Firenze, propose ai Priori di inasprire vieppiù gli Ordinamenti di Giustizia approntati contro i Signori, i Magnati, che non la smettevano di tramare complotti e che dovevano essere assolutamente tenuti lontani dal potere che spettava solo al “Popolo”.

I Priori – che con i Signori, nonostante tutto, facevano affari – bocciarono la proposta di Salvestro De’ Medici. Questi, allora, si recò nella Sala di Palazzo Vecchio dove era riunito il Consiglio cittadino, composto da più di trecento iscritti alle diverse “Arti”, e disse che – se i Priori non volevano inasprire gli Ordinamenti di Giustizia contro i Nobili erano solo dei venduti e dei traditori – e lui era pronto a dimettersi. Il Consiglio concordò on Salvestro sul fatto che i Priori fossero, certo, dei traditori e decise di mobilitare la Piazza con gli iscritti alle “Arti” così che, alla fine, i Priori – pressati dalla folla che sotto il Palazzo  gridava contro di loro – dovettero accettare la proposta del Gonfaloniere di Giustizia. Ma questa accettazione fu solo l’inizio della fine: la Rivolta dei Ciompi era alle porte, il Calendario, infatti, segnava il 18 di Giugno del 1378, un Venerdì…..

Il tumulto, ovvero la Rivolta dei Ciompi viene originata proprio da questa emarginazione politica e sociale. Il 18 Giugno del 1300, un Venerdì, i Ciompi arrivano in città dalla periferia di Firenze e attaccano depredano e incendiano le case, le botteghe dei lanaioli e degli altri commercianti e poi i Palazzi delle Arti, per primo quello dell’Arte della Lana e attaccano anche i Conventi, dove i commercianti di Firenze solevano “traslocare”, ovvero mettere al riparo i loro averi diciamo così mobili, nei momenti di tumulto cittadino.

Loro, i Ciompi, sono stanchi di spaccarsi la schiena e di essere turlupinati anche al momento della paga (“che di 12 [fiorini] ne danno otto”, scrivevano i cronisti filo-Ciompi) senza vedere, neanche di lontano, la possibilità di cambiare le cose. Ora Basta!!  E quel giorno, quel Venerdì, arriva un’esplosione di rabbia e di violenza inaudita, che si esaurisce si in 24 or4e, ma genera una paura fottuta tra il Popolo di Firenze.

Per un tempo non breve, infatti, Firenze si ferma, i bottegai non aprono le porte delle loro botteghe che — dicono le cronache – “stavano a sportello”, ovvero si vende e si compra la merce attraverso uno sportellino. La Polizia arresta quattro contadini forestieri, trovati a rubare e li impicca sul posto e di notte pattuglia armata la città. Le guardie private  fanno le sentinelle armate davanti le case dei Maggiorenti delle Arti. Poi tutto torna apparentemente tranquillo, ma non finisce lì. Infatti, la Polizia arresta quattro operai e li porta in Palazzo Vecchio, dato che si era sparsa in città la voce che i Ciompi sarebbero tornati a fare violenza, meglio “a fare carne” (cioè ad ammazzare) come si diceva allora in fiorentino.

Uno degli operai che erano stati portati in Palazzo Vecchio – Simone, Simoncino, figlio di Bartolomeo – conferma quella voce, che al 20 di Luglio ci sarebbe stata la Rivolta. Sottoposto, con gli altri arrestati, a tortura, Simoncino ribadisce quanto aveva già confessato e fa alcuni altri nomi di operai. Le grida dei torturati vengono ascoltate da un operaio, intento alla riparazione dell’orologio della Torre di Palazzo Vecchio (l’orologio che scandiva le ore della giornata lavorativa degli operai) e così l’uomo lascia il Palazzo e corre per le case operaie gridando “All’arme! All’arme! I Priori fanno carne!”, cioè “I Priori ci vogliono ammazzare tutti!”. ”Armatevi cattiva gente (non nel senso di cattiveria, ma di povertà estrema) chè vi ammazzano tutti!”.

E’ così che i Ciompi si armano e tornano di nuovo in Piazza, sotto Palazzo Vecchio e occupano il Palazzo. Distruggono le vecchie “Borse” e ne fanno di nuove, inserendo anche i nomi degli operai che, intanto hanno costituito la loro “Arte”, insieme a quella dei Tessitori e a quella dei Tintori.  E’ così’ che gli operai – che nel frattempo hanno portato dalla loro le altre “Arti” fiorentine per combattere quella dei Banchieri – ottengono il loro Gonfalone e i loro Priori. La vittoria è loro, ma la gioia e la festa dureranno solo per poco tempo, perché poi, i componenti delle “Arti” minori, che si erano schierati con i Ciompi, tradiranno il patto di alleanza e tradiranno ance i Tessit6ori e i Tintori  e tutto, a Firenze, tornerà come era prima del 18 di Giugno del 1378: quella Rivolta – che non era riuscita a diventare una Rivoluzione – resterà nella Memoria della città ma, di fatto, sarà come se non fosse mai successa.

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Dovranno passare circa tre Secoli perché gli Inglesi possano vedere la loro Rivoluzione. Poi, nel 1783, sarà la volta dei coloni americani e infine, nel 1789, arriverà la Rivoluzione Francese, che aveva fatto suoi alcuni temi che erano stati propri della Jaquerie dei contadini francesi del 1358.

E in Italia? Sarebbe stato forse positivo che, anche da noi, la Rivolta dei Ciompi fiorentini avesse lasciato un seme. Ma in Italia, niente. Nemmeno i Moti rivoluzionari del Risorgimento cambieranno le cose, ne sa qualcosa Carlo Pisacane con i suoi trecento “giovani e forti” della Spedizione di Sapri. l’Unità D’Italia  non cambierà in meglio le cose per il popolo minuto e la guerra mondiale, la Prima, sarà solo “una inutile strage”, pagata per la maggior parte dai contadini e dagli operai spediti a fare carne (stavolta da cannone). Dunque, in Italia niente. Ma come – dirà qualcuno – è l’occupazione delle Fabbriche del “biennio rosso? Si, certo, un altro tentativo rivoluzionario fallito. In Italia, niente Rivoluzione.  Ma come era accaduto per la Firenze dei Ciompi  – dove, alla fine, la controrivoluzione aveva trionfato e tutto era tornato a prima di quel 18 Giugno del 1378, un Venerdì – in Italia arriverà il fascismo: un crimine, non un’idea politica, con il quale, come Paese democratico, ancora non abbiamo fatto i conti fino in fondo.

Nella mela c’è, spesso, il verme, ovvero: una Rivoluzione per i diritti, ma a senso unico – cioè solo per i maschi – e il suo tradimento

“Libertà, Uguaglianza, Fraternità” è stato il motto della Rivoluzione francese, tradito due volte.

La prima volta quando la cittadina Olimpya De Gouges – che aveva combattuto sulle barricate di Parigi – presenta all’Assemblea Nazionale la Dichiarazione dei Diritti delle Donne e delle Cittadine (1791) e, in analogia a quella Dell’Uomo e del Cittadino, approvata due anni prima, ne chiede l’approvazione. La richiesta viene respinta e la donna – tra l’altro una famosa drammaturga – accusata di essere affetta da “paranoia da idee riformiste e isteria rivoluzionaria” viene fatta prima incarcerare dal Cittadino Robespierre e poi ghigliottinata, sulla pubblica piazza di Parigi, il 3 Novembre del 1793.

Una seconda volta, quel motto rivoluzionario sarà tradito quando, il 2 Luglio del 1849, le truppe francesi di Napoleone III, sbarcate a Civitavecchia al comando del Generale Charles Victor Oudinot, attaccheranno la Repubblica Romana per procura del Papa Pio IX, il Cardinale Mastai-Ferretti, noto anche come il “Papa Re”.  A riscattare quel tradimento non basterà il valore del Battaglione di Volontari francesi che combatterà al Vascello con i repubblicani romani, al canto della Marsigliese, l’Inno rivoluzionario la cui musica era stata ripresa, ovvero letteralmente copiata, da una composizione del musicista italiano Giovanni Battista Viotti (1755-1824) [https://www.youtube.com/watch?v=5pwjlqsIvC0 ]  (*).

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(*) L’”Università” dei Fornaciari romani era stata costituita nel 1484 (Santo protettore San Michele Arcangelo). Al tempo del Governo del “Papa Re” quell’”Università, guidata da Sante Viola, era forte di oltre 400 iscritti che, con i loro scioperi, avevano costretto i padroni delle Fornaci ad aumentare la paga oraria e a diminuire le ore di lavoro dei lavoratori delle Fornaci. La bandiera bianca – issata all’inizio di ogni sciopero – era diventata l’incubo non solo dei padron delle Fornaci, ma anche della Polizia pontificia. Così, infatti, scrive il Tenente Nardini, della Gendarmeria Pontificia, in una Relazione sull’”Università” dei Fornaciari, datata 10 Settembre 1864:

«La classe de’ fornaciari si è legata fra essa in modo soverchiamente compatto, sotto la immediata direzione del nominato Viola [Sante], il quale dai suoi viene appellato e riconosciuto qual presidente di quella società. Questa, a parer mio, va sempre più assumendo un carattere politico da fare un giorno temere qualche serio inconveniente e tanto più in quanto che non evvi dubbio esser il      Viola settario, audace ed influente in quella classe.».

Nel 1849, i Fornaciari avevano combattuto per la Repubblica Romana. Alla sua caduta, molti di loro, tra cui proprio Sante Viola, avevano seguito Giuseppe Garibaldi, che aveva lasciato Roma per continuare la sua lotta. I Fornaciari romani saranno presenti in massa a Porta Pia, il 20 Settembre del 1870, dopo la “Breccia” e voteranno in massa per l’annessione di Roma al Regno D’Italia nel Plebiscito di quell’anno, facendo riaprire, a forza, i Seggi Elettorali a cui non avevano potuto accedere per votare con la scusa, messa su dai piemontesi, che abitavano fuori delle mura cittadine. Quando poi – decine e decine di anni dopo – il fascismo tenterà di piegarli saranno risolutamente ed indefettibilmente antifascisti, pagando un prezzo molto alto a quell’idea di libertà.


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