A spasso per Roma (13): Antica Manifattura Cappelli, la più antica cappelleria romana

Ne hanno parlato male di Roma, va detto. È finita sui giornali stranieri per la sua sciatteria, per la spazzatura che la invade da anni. C’è sempre un traffico che neanche Johnny Stecchino riuscirebbe a definire ma se San Pietro esaudisce le tue preghiere e trovi parcheggio, metti che fa un miracolo e lo trovi a Prati, allora finisci col camminare fianco a fianco con le mura Vaticane, come un pellegrino d’altri tempi, e – fidati – ti sale su un sorriso beffardo, un sussulto d’orgoglio, una pace e un gran ‘chi se ne frega’ negli occhi. Perché sai che, di questa cinta muraria che ti accompagna, la prima pietra fu posta nell’anno 848 d.C.
Le mura dovevano proteggere il Colle Vaticano che giusto un paio d’anni prima era stato saccheggiato dai Saraceni e, a quanto pare, Papa Leone IV si mise personalmente a dirigere i lavori che impegnarono un gran numero di operai. Così, già nell’852, il pontefice inaugurò le mura, percorrendo l’intero circuito a piedi scalzi, implorando la benedizione divina, ovviamente seguito dalle più alte gerarchie ecclesiastiche e dal popolo in processione.
3 porte, 44 torri, 1444 merli proteggevano la basilica di San Pietro e racchiudevano la Civitas Leonina.
Le mura furono in seguito ampliate, restaurate, rinforzate, furono aperte e chiuse nuove porte, tutto questo fino al secolo scorso. Oggi le mura leonine delimitano i confini dello Stato che nacque nel 1929 con i Patti Lateranensi: la Città del Vaticano.

Adesso però abbandoniamo la cinta muraria in via Leone IV per una traversa che prende il nome da una antichissima famiglia patrizia, appartenente alla Gens Cornelia, quella degli Scipioni.
Tanti i personaggi illustri che vanta questa famiglia dell’età repubblicana, ci limitiamo a dirvi, mentre raggiungiamo il civico 46, che l’intellettuale e politico Emiliano Scipione fu protagonista della Repubblica di Cicerone. Non andiamo oltre perché abbiamo raggiunto l’Antica Manifattura Cappelli, ovvero il più antico laboratorio romano di cappelli, che aprì i battenti proprio qui in via degli Scipioni nel 1936.
“Il laboratorio è stato aperto dalla famiglia Cirri – spiega l’attuale titolare, Patrizia Fabri – una famiglia di cappellai toscana che venne a Roma in cerca di fortuna, e che ha portato avanti la bottega per tre generazioni, fino al 2003. In quell’anno tutto questo sarebbe andato perso perché non c’era nessuno che voleva rilevare l’attività. Io ero loro cliente, facevo fare i cappelli per le mie collezioni.”

Lei è una stilista?

No, io ho studiato architettura e contemporaneamente ho iniziato a realizzare collezioni di accessori, ovvero borse, scarpe e cappelli. I cappelli li facevo fare qui, poi quando il signor Loris Cirri si è ammalato, visto che nessuno avrebbe più portato avanti il laboratorio, senza alcun tipo di analisi logico razionale, ho deciso di rilevare la bottega. All’inizio pensavo di farne un museo, con tutti i suoi strumenti, la storia, le forme in legno… Invece poi il cappellaio che lavorava per la famiglia Cirri da più di 30 anni mi disse ‘perché non continuiamo?’, e così il primo ottobre 2003 sono diventata titolare della cappelleria. Lavoriamo molto per il teatro, per il cinema, per l’alta moda, produco delle mie collezioni che presento col nome Patrizia Fabri nei saloni di moda. Abbiamo aperto un negozio monomarca a piazza del Popolo, in via dell’Oca. In più insegno, ormai da diciotto anni, modisteria.

Cosa è rimasto della storia dell’antica bottega?

Sono rimaste tutte le forme in legno. Ogni cappello non avendo cuciture non può che realizzarsi con un manufatto che già di per sé è tridimensionale, quindi si crea un cappuccio di feltro che poi viene stirato sulle forme di legno e ogni forma rappresenta un modello. A volte esistono anche le misure di uno stesso modello. Di queste forme io ne ho raccolte 2000, dal 1900 ad oggi. Molte le ho rilevate dalla cappelleria del signor Loris ed altre le ho raccolte io dalle attività che mano a mano hanno chiuso, posso dire di avere qui un pezzo di storia del made in Italy. Con il cappello che è la chiusura di un outfit, quindi dal punto di vista geometrico è la conclusione di una composizione, posso ripercorrere un secolo di moda. Ho raccolto tanto che potrei sicuramente aprire un museo del cappello made in Italy ma siamo in Italia e sappiamo tutti come vanno le cose.

Il cappello era molto usato al tempo in cui fu aperto il laboratorio ma il suo uso oggi è limitato.

Molto limitato, per questo noi ci occupiamo del cappello a 360 gradi. Produciamo per opere teatrali, cinematografiche, televisive, per le collezioni di moda di tendenza, collaboriamo con Elie Saab, Valentino, Gattinoni ed altri. Abbiamo fatto un cappello per Madonna, un altro per Lady Gaga…vvv

Quindi vi rivolgete soprattutto al mondo dello spettacolo ed agli stilisti?

Avendo due negozi vendiamo anche al minuto e vendiamo le nostre collezioni anche attraverso rappresentanti in altri negozi.

Avete più clienti romani o stranieri?

Dipende dalla zona. Nel negozio storico qui in via degli Scipioni molto più ai romani, perché è vero che San Pietro è una zona turistica ma sono soprattutto i pellegrini che girano qui intorno. Mentre in via dell’Oca il bacino d’utenza è quello degli alberghi a 5 stelle, e vendiamo molto agli stranieri i quali apprezzano i nostri prodotti e non fanno problemi di prezzo. Gli stranieri riconoscono la qualità del made in Italy, tutto quello che ormai in Italia non viene più riconosciuto.

Qual è la differenza tra un vostro cappello ed un cappello industriale, come anche lo è ormai il Borsalino (dico bene)?

Assolutamente sì. Noi il cappello lo facciamo a mano. In proporzione i nostri prezzi sono più bassi rispetto ai loro perché Borsalino è una potenza dal punto di vista del marchio, il nostro prodotto è di altissima qualità ma il marchio è meno noto. Sul cappello artigianale c’è il nostro DNA, c’è il sentimento che ci mettiamo in quanto artigiani.

Quali modelli vanno attualmente di moda?

Il cappello che non muore mai è il Fedora, ovvero quello indicato impropriamente come Borsalino, il cappello da uomo per antonomasia. Ciò si deve, posso anche dire, alla mancanza di cultura del cappello e alla paura di indossarlo perché ti differenzia e ti rende unico in questo contesto di globalizzazione e massificazione. Borsalino è il cappello che ti mantiene anonimo, con altri modelli ti distingui di più. All’estero questo è maggiormente accettato, c’è più voglia di mettersi in gioco, di differenziarsi.

Un tempo il cappello era anche un modo per sottolineare differenze sociali?

Si. Il cappello è un fortissimo elemento di comunicazione, è un segno di distinzione, identità ed identificazione tutt’ora. Dai Carabinieri alla Regina, il cappello è un segno di identità, amplifica il tuo modo di essere ed è un simbolo di appartenenza ad una determinata categoria.

La affascinante storia del cappello la troviamo in parte su un grande manifesto che Patrizia ha posto proprio all’ingresso della sua bottega, comincia così: “Il made in Italy ha origini lontane: il primo prodotto italiano esportato e venduto all’estero fu il cappello di paglia di Firenze, prodotto a Signa, nel 1718. Le raffinate pamele dalle ampie tese, realizzate in paglia finissima, furono scelte e indossate dalle più eleganti nobildonne europee. Lo chapeaux de paille d’Italie ebbe così tanta fama nel mondo che già nel 1851 identificava la nostra nazione prima ancora della sua unità.”

Le donne romane stanno ricominciando ad usare il cappello?

Si ma non tanto per la moda, che cerca sempre di rilanciarlo ma non riesce in quanto manca la cultura, mancano gli spazi nelle case, in quanto si va di corsa, non si sa più come portarlo.
Un ritorno oggi alla funzione del cappello c’è ed è causato dalla paura del sole. Inoltre ormai sono moltissime le donne che si rivolgono alla medicina estetica e devono poi tenere il volto in ombra. Per questa sua nuova utilità quindi, più che per la moda, sta tornando l’uso del cappello. Cerchiamo infatti di fare cappelli comodi, che si piegano al momento storico e alla velocità della vita.

 

“Si può sempre capire dal cappello di una donna se vive o no di ricordi”. Oscar Wilde

 

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