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Abbiamo perso un figlio

Alcuni giovani che vengono da altri paesi ce la fanno, le statistiche dicono l’8%. E il 92%?

Per alcuni sono numeri in una statistica, per altri estranei indifferenti, per altri ancora bestie pericolose che dobbiamo controllare. Sono sempre vissuti come un gruppo, raramente li si vive come uomini, come donne, come esseri umani sotto ogni aspetto. L’amore sa contare solo fino a uno, si dice; alle persone si vuole bene a uno a uno, perché ciascuno è tutto per chi sa voler bene. Da qualsiasi paese tu arrivi, il tuo volto è solo il tuo; l’amicizia non guarda le statistiche.

Ablie mi poteva esser figlio, fratello di tanti; è un mese che non si fa vedere e siamo in pochi a preoccuparci. Era simpatico, ed era molto giovane. In Italia per cercare lavoro, in patria falegname, sognava una ricchezza immediata e il ritorno a casa. Essere ricco secondo gli standard del suo paese è un’ambizione molto misera rispetto a ciò che abbiamo noi in Italia. Nel suo paese non è difficile essere ricco con i soldi italiani. Nel mondo non c’è uguaglianza: ci sembra normale e non c’è da vergognarsi.

Aveva tante domande da fare e una volta mi chiese la differenza tra islam e cattolicesimo. Si diceva fedele all’islam, ma non era sicuro se sunnita o sciita. Ogni tanto pensava di farsi cattolico, ma perché eravamo stati noi ad aiutarlo; quel noi però si riferiva a ben poche persone, quelle che non hanno bisogno di difendersi da chi ha altre fedi. C’è chi li disprezza, li isola e li condanna alla fame questi ragazzi, e senza vergogna dice di farlo nel nome di Gesù.

Ablie aveva cominciato un corso per il diploma di terza media. Le persone della scuola erano state gentili, ma lui aveva l’ossessione – e lo prendevo in giro – di lavorare per mandare i soldi a casa. I titoli di studio, la patente, le esperienze lavorative, nulla aveva valore legale da noi della sua vita precedente, non interessavano a nessuno il suo passato e le sue competenze. La scelta è tra essere dipendenti dalla carità di chi li sostiene agli studi oppure schiavi di datori di lavoro senza scrupoli: è la scelta che senza vergogna offriamo alla maggior parte dei giovani.

Come ogni giovane, Ablie voleva sentirsi accolto e andava spesso da una famiglia italiana: ci andava per mangiare, dormire e sentirsi circondato di affetto. A volte veniva a trovarmi in canonica e io sapevo cosa voleva: sì mangiare (e quanto riso divorava!), sì dormire (interi pomeriggi!), ma anche chiacchierare con mia madre – una nonna per tornare bambino – e spillarmi qualche soldo per la scheda telefonica o per la cena al bar. Quelli che vengono da altri paesi li trattiamo da adulti, pretendiamo maturità e forse santità come non ci sogneremmo mai di chiederle ai loro coetanei, i nostri figli. Li trattiamo come se non avessero un cuore e degli affetti, e non ne proviamo vergogna.

Ablie ha avuto diversi lavori. Penso con terrore al buio e al gelo dell’anima di chi sfrutta la fame di questi giovani per nutrire la propria avidità! Avrei voluto denunciare, ma nessuno testimonia. Aveva accettato un lavoro perché poteva servire per il permesso di soggiorno illimitato, garantito da una donna che dicevano garante da parte dello stato per proteggere proprio loro, i migranti; alla presenza di questa gli avevano comunicato orari e paga: tutti i giorni, sette giorni su sette; dodici ore di lavoro al giorno, pagate sei. Mi sono rivolto a un poliziotto del quartiere che ha detto di immaginare chi potesse essere la donna – non mi ha detto il nome, né se fosse una truffatrice o una corrotta – e poteva parlarle da amico.

Mi ha poi chiesto il nome di chi mi aveva raccontato l’episodio, ma mi sono ricordato di quando, conversando, aveva sostenuto che soccorrere uno straniero riverso per terra in mezzo alla strada fosse favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e così, non so perché, mi è venuta un’improvvisa amnesia: come è strana la memoria! Ricordo infatti ora che qualche mese fa c’era stata anche un’assunzione di un giorno solo. A quanto dicono alcuni, si fa per vantaggi fiscali o qualcosa di simile: è necessario assumere molti stranieri, anche solo per un giorno. Lo fanno in molti, mi hanno detto, ma nessun italiano se ne vergogna.

Ad Ablie gli avevamo trovato una casa insieme ad un altro; lui doveva la metà e sul contratto risultava, come prezzo concordato, la metà della sua metà: lo si faceva per motivi fiscali, mi disse tranquillo il padrone di casa. Pensai che la statuetta di Padre Pio che aveva sulla scrivania dovesse essersi guastata, non sembrava avere influenza sulla sua coscienza. La caparra e l’assicurazione la pagammo noi, parrocchia e associazione di volontariato. Ablie aveva un contratto, lavorava, e sembrava quindi il momento giusto.

Poi perse il lavoro – quello da dodici ore giornaliere – e i soldi finirono. Qualcosa gliela demmo noi, poi dovette fare i bagagli. Il padrone di casa era esasperato, e pure a ragione, perché l’altro inquilino se ne era andato di punto in bianco: l’appartamento era in condizioni inumane. E così Ablie si ritrovò a dormire per strada, ma era estate e non si lamentò. Visse in silenzio questo ennesimo fallimento, ma io cominciai a vergognarmi di essere italiano.

Non si lamentava, ma si comportava in modo strano. Gli demmo due cellulari e disse che glieli avevano rubati. Mia madre cominciò a preoccuparsi: dopo tre anni di onestà e fiducia nel futuro si era lasciato convincere da qualche disperato? È sparito. È quasi un mese che non si fa vedere. In zona nessuno lo ha visto. Telefoniamo a qualche suo amico, ma non sanno niente. Il presidente dell’associazione va dai Carabinieri, che subito si mettono a cercarlo, prima negli ospedali, poi nelle carceri… ci faranno sapere.

Alcuni giovani che vengono da altri paesi ce la fanno, le statistiche dicono l’8%. Ce la fanno perché rientrano in determinate categorie, oppure trovano associazioni che se ne fanno carico. E il 92%? Sono giovani, sono fragili, sono soli. Li facciamo entrare clandestini – perché non hanno altro modo – e neghiamo loro casa, medicine, lavoro dignitoso e ricongiungimenti familiari.

Devono lavorare senza diritti, ringraziare sempre e non pretendere mai. Sono cattivi: ci tolgono il lavoro, dicono quegli stessi che sono anche convinti che non abbiano voglia di lavorare.

Sono drogati, dicono quelli i cui figli, nelle stesse piazze, si scambiano di sicuro bustine di borotalco e non di cocaina. 

Chi viene da altri paesi parte già delinquente o siamo noi che li abbiamo resi tali?

Quanto si può subire prima di cominciare a odiare? Quante umiliazioni si possono vivere prima di rinunciare a integrarsi e imparare a ingannare come si è stati ingannati? Vogliamo che diventino come noi, senza renderci conto che no, forse è meglio di no. Pensiamo di essere loro superiori ed è per questo che non ci vergogniamo di offrire un’immagine tanto squallida della nostra civiltà.

Il mio Dio, il Dio di cui noi italiani ci vantiamo, che a volte usiamo come arma contro chi viene da fuori, è stato disposto a morire per trasformarci, noi peccatori, in santi. È quel Dio che ci ha reso suoi figli perché lo aiutassimo a fare, di ogni peccatore, un figlio di Dio. Siamo diventati più bravi però a trasformare anche i più buoni in delinquenti. Pensiamoci: di chi siamo figli, se trasformiamo il bene in male? Ci riusciremo mai a provare un po’ di vergogna? Riusciremo mai a guardare i nostri giovani, da qualunque parte di Italia o del mondo essi vengano, con desiderio sincero di aiutarli? con un po’ di affetto? 


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