C’era una volta la Collatina Antica (2)

Remo aveva ragione: la Collatina sta sotto i nostri piedi.

Ma ormai è troppo tardi. La via antica digrada adesso verso est, punta dritta ai Monti Tiburtini, lasciandosi alle spalle l’Ager Veranus. Procede assumendo un andamento rettilineo, fino a raggiungere un colle che domina la valle della Marranella. Non riusciamo a seguirne la linea in superficie perché c’è la ferrovia che la taglia in due. Una specie di lacerazione sulla storia, come a suggellare la confusa crescita urbanistica del dopo guerra. È questo il vero confine della città, archetipo di una netta separazione. Uno spartiacque che non ammette repliche: moderno e antico devono separarsi. Non è possibile legarli, dove in realtà confliggono.

Sviluppo contro rovine. Cemento contro pezzi di mosaici. Frecciarossa contro tinozze.

Le numerose rotaie stanno lì a dare un senso ai nostri dubbi, alle nostre ferite: oggi è vano recuperare interamente una memoria storica, il nodo della conservazione è tutto qui. Il loro stato di abbandono rende queste rovine irriconoscibili. Ridotte a fantasmi, se non addirittura sventrate e distrutte per costruire la città nuova.

Davanti a noi lo scalo merci ferrovie, un intreccio di magazzini e sopraelevate, tentacoli di cemento armato, tralicci dell’alta tensione, vagoni, container. Camminare sul seppellimento dell’antica consolare è un’impresa da eden psichiatrico.

Bisognerebbe entrare all’interno di una vasta area industriale, scavalcare recinti altissimi e oltrepassare parecchi binari, prima di riprendere la linea verso gli Orti di Malabarba.

Lo spazio urbano che fa da sfondo a questo dramma archeologico è chiuso da una luce spettrale.

Per riprenderla, oltre la ferrovia, è necessario costeggiare tutta la Prenestina, e svoltare improvvisamente a nord, dopo circa due chilometri. Sembra quasi una via di fuga, invece incontriamo di tutto: ciclisti spaesati in bilico su un rettifilo di cemento, carcasse di piccioni e scarpette da punta abbandonate, parrucche uomo donna, magazzini e motorini abbandonati.

Opache finestre si affacciano sui labirinti della tangenziale.

La strada verso la periferia è un miscuglio di razze ed etnie. Nascono altre vie, altri percorsi, soprattutto mentali, dove è più facile confondersi con gli emarginati, con i migranti del Bangladesh e i solitari di Porta Maggiore che fumano sigarette appoggiati ai piloni.

Finalmente, in via Ettore Fieramosca, appaiono i primi insediamenti di Casal Bertone: le vite dei ferrovieri, il Borghetto Malabarba, le storie dei baraccati. Un quartiere autonomo, prossimo a tutto.

Ma oggi siamo lontani dal giorno in cui Anna Magnani si affacciava dalla finestra di casa sua, nel palazzo dei ferrovieri. Osservava malinconica la Collatina nascosta sotto terra, ed esclamava: quanto è brutto da qua. Capirai se vede er cimitero!

Sono ormai lontani i piccoli abituri e i basoli di un’altra era.

Lontane le strade impantanate, i magazzini del boom industriale.

Siamo davvero lontani?

A Casal Bertone difendono un platano perché ignoti hanno cementato la cosiddetta tazza alberata, rendendolo secco e disidratato.

A Casal Bertone si indignano perché la segnaletica è poco visibile, alcune strisce pedonali sono ormai scomparse e nessuno sa più che fine abbiano fatto. Come la Collatina antica.

Ma soprattutto sono anni che i cittadini si battono per un’area verde e sportiva di circa 79.000 metri quadri. Erano gli accordi di vent’anni fa (dicembre 2000) e la RFI avviava i lavori per la nuova linea ad alta velocità. L’impresa doveva costruire opere utili al quartiere, per compensare l’impatto ambientale dei cantieri. Poi soltanto promesse delle istituzioni, annunci, proclami: partono finalmente i lavori! In estate pronto il parco!, dicevano i sindaci, uno dopo l’altro. Invece solo chiacchiere: treni ad alta velocità e parco a bassissima velocità. Anzi, a zero velocità.

Infatti l’area diventa ben presto una discarica a cielo aperto, sorge una baraccopoli improvvisata, in estate roghi e in inverno il solito abbandono. Altro che compensazioni.

“Considerate che i lavori sono terminati dieci anni fa.” – ci dice un abitante del quartiere.

“Tutto questo ha che fare con la vostra Collatina. A Casal Bertone non è rimasto più nulla dell’antico tracciato e delle antiche vestigia.”

Si trattava di un paesaggio splendido, tra valli e torrenti, dove avrebbe fatto la sua apparizione l’imponente Fullonica, la più estesa dell’impero. Tutto seppellito o distrutto, oppure dolorosamente estratto per essere depositato in qualche magazzino della Soprintendenza.

Casal Bertone poteva diventare un polo museale a cielo aperto, un centro didattico per la ricerca e la conservazione del patrimonio, sia archeologico che paesaggistico. Qualcuno ci dice che è un ragionamento capzioso, da utopia archeologica.

A nord il cavalcavia del Portonaccio, a sud le sorgenti dell’acqua Bullicante.

In mezzo c’è la Fullonica, con la via Collatina. O meglio, c’era.

Era il 2007 quando Stefano Musco e Angela Caspio diressero i lavori di scavo archeologico proprio all’interno del cantiere TAV.

Il progetto sembrava chiaro e visionario: in considerazione dell’impossibilità a varianti progettuali dell’opera ferroviaria, il complesso antico è stato delocalizzato in previsione della sua ricostruzione sulla base di uno specifico parere ministeriale.

Ma che fine abbia fatto questo progetto rimane un mistero.

Davanti ai nostri occhi vediamo tutto il processo produttivo, come in un ologramma.

L’insaponatura, il risciacquo e la rifinitura. Portiamo i tessuti dentro queste vasche incassate in nicchie, con pareti e pavimenti rivestiti in cocciopesto, chiuse da basse murature. Ci immergiamo nella tinozza riempita d’acqua per pestare il tessuto con i piedi, insieme a tanti altri schiavi. L’acqua viene miscelata con sostanze alcaline e depuranti, spesso addizionata con urina animale e umana, perché più facilmente reperibile. La raccolta dell’urina avviene mediante vasi di terracotta posizionati lungo la strada, prelevati dalle schiavette, dopo essere stati riempiti. Quindi ci dedichiamo alla pressatura, l’ultimo passaggio, prima della consegna. Quello di Casal Bertone doveva raggiungere le dimensioni di un vero centro industriale e i cicli di lavorazione erano  accurati e precisi. Era situato lungo l’antico tracciato della via Collatina, in prossimità di un condotto idrico secondario all’acquedotto Vergine, con un’estensione di circa 1000 metri quadrati. Un impianto molto complesso: richiedeva competenza e conoscenza tecnica specifica, e dal punto di vista logistico, attrezzature e ampi spazi destinati allo stoccaggio dei materiali. Oltre a una richiesta continua di acqua corrente. I fullones assunsero a livello sociale grande importanza tanto da organizzarsi in collegi o sodalicia dotati di propri regolamenti interni, e la loro attività doveva risultare piuttosto redditizia. Purtroppo sono svaniti senza lasciare traccia, come ombre nella storia. Come le strisce pedonali del quartiere.

L’ambiente suburbano si presentava così ai viandanti: sostanze alcaline, urina, argilla, giovani schiavi che pestavano panni dalla mattina alla sera. Respirando ammoniaca, con le ossa rotte. Il loro contributo all’espansione e alla grandezza della città era stato fondamentale, necessario.

Eppure nessuno li ricorda più. A parte gli archeologi e i tombaroli.

Sotto le linee dell’alta velocità ferroviaria, sotto il mercato di quartiere, c’è ancora la nostra Collatina, che aspetta di essere tutelata.

“Lo sapete che hanno analizzato quasi duecento individui di questo ambito funerario?”

E cosa hanno scoperto, chiediamo a un’attivista del quartiere.

“Traumatismi e fratture. Parecchie alterazioni agli arti superiori e agli arti inferiori. Significative le evidenze relative agli scheletri femminili e infantili, che attestano l’integrazione delle donne e dei bambini nella compagine produttiva della fullonica.”

Verso sera, lasciamo gli Orti di Malabarba, ormai senza più orti e senza più Fullonica. In lontananza gli schiavi e le schiave piangono ancora oggi la loro fabbrica, finita dentro qualche deposito impolverato.

Caso chiuso.

(2. Continua)

Stefano Marinucci

 

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