Dal cimitero delle carcasse

Ad un anno circa dal disastroso incendio nel Parco Centocelle e dintorni
Una volta eravamo alberi. Alberi “comuni”, a parte qualche cedro, tipo lecci, robinie, ailanti, eucalipti, non certo come quelli “di pregio” dei parchi e giardini delle ville storiche romane. Eppure al pari loro, per nostra natura, capaci comunque di essere “a servizio” dell’ecosistema nell’assicurare ossigeno, difesa del suolo dall’erosione, tutela della biodiversità, riparo per gli uccelli e gli animali e tanta ombra nelle giornate assolate.
Ci sarebbe piaciuto vivere in un’ampia area verde, come quelli che stanno qui davanti, a qualche centinaio di metri da noi. Avremmo potuto osservare i bambini correre e giocare, le coppie abbracciarsi sotto la nostra chioma e le famiglie fare pic-nic o passeggiare al tramonto. Sono belli i tramonti al Parco di Centocelle!
Che sfiga invece. Intorno a noi solo baracche improvvisate, file di rottami di auto accatastate, cemento e puzza di olio e di benzina.
Ci avevano detto che presto saremmo stati liberi, liberi dalle carcasse di metallo che ci arroventano i piedi, liberi da chi ci abbatte per avere più posto, liberi dagli oli che soffocano le nostre radici, le nostre uniche vie per nutrirci e dissetarci quando piove.
E invece in quel caldo pomeriggio di luglio si decise il nostro destino. Da lontano una colonna di fumo grigio si alzò a sporcare il cielo terso. Spinta dal vento la vedevamo avvicinarsi mentre affamata divorava sempre più erba, sterpaglie secche, rovi, arbusti, pneumatici, plastica, rifiuti abbandonati, pile di auto accatastate.
Presto una coltre di fumo nero sostituì l’azzurro del cielo e un buio pesto e acre piombò su di noi.
Mentre il fuoco ci cingeva i tronchi, immobili in un abbraccio mortale, una dietro l’altra le fronde avvamparono tutte come gigantesche torce fino a raggiungere quelle dei pini della Palmiro Togliatti e poi oltre, a impanicare i palazzi e le scuole accanto al Pratone di Torre Spaccata.
Nell’inferno che bruciava, tra boati improvvisi, tonfi di lamiere contorte e gli ormai flebili latrati di cani impazziti di terrore e senza scampo, per noi, come per loro, lentamente giungeva la fine.

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