Il romanesco e l’Acquedotto Alessandrino
Se una notte d'inverno... l'imperatore Alessandro SeveroMercoledì 1 dicembre 2021 mattina, leggevo sul “Corriere della Sera” edizione romana l’editoriale di Giorgio Montefoschi su Zerocalcare e il suo usare il romanesco.
Scrive Montefoschi che “Il romanesco non è un dialetto incomprensibile, e non è un dialetto in senso assoluto – come il siciliano, ad esempio, il piemontese delle risaie, il lombardo stretto delle valli. Il romanesco è essenzialmente una cadenza, un tono. Con le sue erre trascinate, la sua andatura infingarda, l’ironia malinconica, e certe piccole violenze verbali (del genere che te possino…), mai cattive, non è oscuro, lo capiscono tutti, contiene insieme nobiltà e miseria: lo parlano, infatti, non tanto diversamente, i bagnanti sulla spiaggia di Coccia de’ morto e i discendenti dei Massimo come dei Torlonia. E molte signore benestanti, papaline, di Prati al tavolo del burraco. Esprime l’eterno scetticismo, e la sconfitta, della città morente, una volta capitale dell’Impero, infine è divertente.”
Esco da casa ed entro nel Parco Palatucci, guardo indietro e vedo la campagna della Tenuta della Mistica, vedo alcuni tratti dell’Acquedotto Alessandrino anche nel Fosso di Tor Tre Teste. Immaginatela come opera idraulica in uso per diversi secoli, pensate alla grandiosità che aveva nella periferia orientale della città di Roma, raffrontatela a ciò che oggi potete vedere nel tratto che attraversa viale Palmiro Togliatti, ripensatela nell’ordine di grandezza a quei tratti ormai non più grandiosi visibili da viale Alessandrino e verso piazza San Felice da Cantalice.
La storia ci insegna che l’Acquedotto Alessandrino è l’ultimo dei grandi acquedotti romani costruito dall’Imperatore Alessandro Severo nel 226 d.C. un paio di mille anni fa; l’Imperatore aveva già restaurato le Terme Neroniane-Alessandrine e l’acquedotto prendeva l’acqua da Pantano Borghese (oggi capolinea della metro C, Monte Compatri –Pantano).
Nel percorso non c’erano solo le arcate esterne ma anche quelle interrate per una ventina di chilometri e, da Torre Angela di oggi, dopo partivano le grandi arcate esterne che proseguivano per Torpignattara, per poi interrarsi di nuovo sino a Porta Maggiore.
Piove, quante nuvole. Penso ad Alessandro Severo in una notte d’inverno, penso al romanesco, vedo l’acquedotto da “dietro” nei viottoli paralleli poco transitati dai pedoni, e usati dalle macchine solo come parcheggi e immagino l’Imperatore in calesse con le tre ruote ed un cavallo e un soldato romano alle briglie , in mezzo ai travestiti con i loro clienti e centinaia di preservativi colorati in terra, sussurrare in latino: non iam romani esse solebant. Poi urlare in romanesco: me possino cecamme! nun so’ più li romani de na vorta! Ah vetturì, lo voj mannà a dormì sto povero ronzino?
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Articolo interessante e performante per descrivere un territorio devastato da troppi anni di solitudine e barbari politici.
Questa volta chi “deve” fare qualcosa non puo’ sbagliare.