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L’ “Arca di Noa”

Uccidere le donne si chiama femminicidio anche quando lottano per la libertà

La cantante israeliana Noa, al Secolo Achinoam Nini – in Italia per il Festival che ha ideato (ad Arona. sul Lago Maggiore) dal 22 al 25 Giugno 2023, intitolato l’ “Arca di Noa” – ha dichiarato tutto il suo appoggio alla lotta delle donne iraniane.“Quando c’è una lotta di quel genere in ogni parte del mondo”– ha detto –dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo essere consapevoli.

Utilizzando una frase del cantautore, poeta e scrittore canadese Leonard Coen – “c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce” – la cantante israeliana ha ricordato che la questione dei diritti umani deve essere sempre al primo posto tra le nostre preoccupazioni, poiché riguarda ognuno di noi. Sulla situazione del suo Paese Noa ha detto: “abbiamo fermato la svolta autoritaria, pensiamo anche alla Palestina”. La cantante ha poi sostenuto che da israeliana non ha nulla contro l’Iran. “i problemi” – ha detto – “non sono mai tra popolazioni, ma tra governi e persone che cercano di approfittare delle paure della gente per guadagnare potere e ricchezze.”

Sostiene il Professor Vittorino Andreoli, eminente Psichiatra e Neuro-farmacologo nonché Saggista di vaglia, che la morte (delle donne) sia diventata, di questi tempi, “banale” e l’amore “solo una forma di consumo”. Certo, la sua è una provocazione, atta a farci ragionare sulla ‘realtà effettuale delle cose’ perché la morte innaturale delle persone – che spesso chiamiamo omicidio – a dare retta ai numeri – è in forte e costante aumento, soprattutto quando “l’oggetto dell’azione omicidiaria”, come si dice con una terminologia tra il tecnico e il ricercato, sono le donne. E l’amore, è vero che consuma ma non più il cuore come, forse. era una volta, bensì il corpo (e la vita) delle donne.

Dunque, omicidi di donne in aumento. Per questa fattispecie di reato c’è un nome preciso: “femminicidio” e a praticarlo, come potrete leggere se arrivate in fondo a questa nota, non sono solo i maschi gelosi e possessivi – incapaci di rinunciare a “qualcosa” (la donna) che ritengono solo un oggetto di loro esclusiva proprietà, e che evidentemente sfugge al loro controllo, così come sfugge loro anche la propria vita visto che molto spesso, dopo il femminicidio, quella vita se la tolgono – ma è anche il potere autoritario e violento che non accetta che le donne alzino la voce per reclamare la libertà di essere e fare e per questo le uccide, ammantando quegli omicidi di Stato di “legalità”, attraverso Processi farsa, anche se il più delle volte si tratta di giudizi sommari, chiusi da una condanna a morte. Ma veniamo al dunque.

Le origini del termine. Dal femmicidio al femminicidio 

“Il neologismo femminicidio, ormai ampiamente diffuso in Italia, deve le sue origini al meno noto termine femmicidio, anche questo introdotto nella nostra lingua con un uso molto diverso da quello che, in origine, lo caratterizzava nella lingua anglosassone, da cui è stato tradotto. Femmicidio, o femicidio, deriva infatti dall’inglese femicide, il cui uso è attestato fin dal 1801, per indicare genericamente gli omicidi di donne. La connotazione di genere nell’utilizzo del termine femicide, per indicare gli omicidi di genere, risale alla seconda metà del Novecento. Diana Russell è la studiosa che maggiormente ha contribuito all’elaborazione della categoria criminologica del femminicidio, mediante la quale distingue dagli omicidi di donne per motivi accidentali o occasionali tutte quelle uccisioni di donne, lesbiche, trans e bambine basate sul genere, e quelle situazioni in cui la morte di donne, lesbiche, trans e bambine rappresenta l’esito o la conseguenza di altre forme di violenza o discriminazione di genere.” (Fonte: Dizionario Treccani della Lingua Italiana)

I numeri della mattanza

Nel 2022 – secondo i dati diffusi dal Viminale – sono state 120 le donne uccise – 97 di loro sono state ammazzate in ambito familiare o affettivo; di queste 57 hanno “trovato la morte” [questa espressione la metto tra virgolette poiché si tratta di un’espressione che nel caso dei femminicidi suona stonata come una campana crepata. Sembra, infatti, sic stantibus rebus, che siano le donne a cercare la morte e che, alla fine, l’abbiano, appunto, trovata, mentre si tratta solo e soltanto di omicidi di genere] per mano del partner o ex partner. A ciò, dicono i numeri del Viminale, si è aggiunto quell’anno, non solo l’aumento generale degli omicidi, rispetto al 2021, che da 287 sono passati a 300 (+5%), ma anche quello delle vittime di genere femminile, che da 114 sono diventate appunto 120 (+4%).  

E il 2023? Da Gennaio di quest’anno sono già 47 le donne uccise, 39 delle quali per un delitto con sempre con lo stesso movente: la non accettazione, da parte del partner, della fine di un rapporto; fine che spesso vuole dire per la donna provare a voler essere libera di scegliere il proprio destino, uscendo da una relazione vissuta come una gabbia, non solo fisica. Ho scritto “provare” perché quel tentativo di rottura di un rapporto è – e spesso purtroppo resta – solo un tentativo, spezzato dall’assassinio della donna. Ma quella rottura, voluta e cercata, è spesso anche il modo di sfuggire ad un rapporto violento, divenuto un incubo.

Negli ultimi giorni

Se sfogliamo i Quotidiani di qualche giorno fa, come una serie di colpi ben assestati al corpo, ci colpisce una raffica di notizie sempre uguali: 

– “Catania. L’uomo uccide, a coltellate, la moglie Monica e la figlia di 9 anni, ferisce l’altra figlia 13enne e scappa”. 

– “Motta Visconti, Milano. L’uomo uccide la moglie, Maria Cristina e i figli di 5 anni e 20 mesi, poi va a casa di amici a vedere la partita”. 

– “Roma, San Basilio. Lui, un agente di Polizia, uccide la collega, Ispettrice di Polizia in servizio alla Camera dei Deputati, con la quale aveva una relazione e si uccide. Lei voleva interrompere quel rapporto.”

E si potrebbe continuare per molte altre righe come queste. Ma anche tra gli omicidi che riguardano le donne, c’è caso e caso.

Quelli che ho elencato sopra sono niente altro che, diremmo con il professor Andreoli, “la banalità del male”. Poi c’è il caso principe, quello da sbattere in prima pagina e da seguire per giorni. 

Mi riferisco con tutta evidenza all’assassinio di Giulia Tramontano – donna campana di 29 anni, trapiantata a Senago (Milano) e in cinta di sette mesi – commesso dal suo compagno, Alessandro Impagnatiello, di professione barista e noto come “il lurido”. Lui l’ammazza a coltellate, poi chiama il 112.

Interrogato respinge l’accusa di omicidio premeditato e racconta un fiume di bugie (anche se è tutt’altro che un bugiardo patologico) per dare la “colpa” del suo agire omicida a Giulia. In quelle ore, le versioni cambiano, ma sono sempre bugiarde. Poi, messo alle strette, “il lurido” cede e confessa. E’ stato dunque lui ad uccidere Giulia.  Perché? “L’ho uccisa” – dirà – “perché ero stressato”. 

Lui aveva un’altra relazione con una ragazza che aveva messo in cinta (ma di comune accordo i due avevano deciso di interrompere quella gravidanza) e voleva lasciarla. Lei l’aveva scoperto e glielo rinfacciava. Lui era dunque “stressato”, meglio infastidito, per quei rimbrotti di lei: continuamente attaccato da Giulia, che osava rimproverarlo. Praticamente messo alle corde era diventato pericoloso e aveva deciso l’assassinio della ragazza e del figlio che lei stava per mettere al mondo. Ecco. Lo stress, di essere stato scoperto infedele a quel rapporto che stava per dare la vita ad un figlio. 

Lo stress può essere (e nella mente dell’assassino diventa) il movente di un omicidio che come causa ha solo la voglia di Giulia di capire il perché di quel tradimento, diremmo così “in itinere”, e di quel figlio fatto con un’altra donna (che Giulia aveva conosciuto) e mai venuto al mondo? Non credo. Ma questa, purtroppo, è la cronaca nera – anzi nerissima – della guerra scatenata dai maschi (non tutti, per fortuna) contro le donne: la cronaca dei femminicidi quotidiani made in Italy che ci tocca sopportare forse per scontare, in qualche modo, la nostra (come Istituzioni e Stato, intendo) poca attenzione alle vite altrui, soprattutto a quelle delle donne che assomigliano troppo spesso a dei “vuoti a perdere”, dunque, “resti umani” di nessun interesse.

Uccidere le donne “legalmente”

L’ho accennato sopra, un posto di (dis)-onore nel ranking mondiale degli esecutori di femminicidi, ce l’ha il potere, quello repressivo e violento che vuole, ad ogni costo, far tacere la voce delle donne quando dalla loro bocca escono parole come democrazia, libertà e autonomia di decisione; parole che quel potere considera blasfeme. Mi riferisco, in particolare qui, al potere teocratico iraniano che da mesi colpisce le donne (e non solo loro) perché hanno osato ribellarsi alla condizione di sudditanza estrema al maschio e alla religione che le relega all’ultimo posto della scala sociale del loro Paese: “Donna, Vita, Libertà” è lo slogan che le donne iraniane di ogni età gridano da mesi nelle Piazze del Paese e sui social. 

Amnesty International, nel suo ultimo Rapporto sulla pena di morte nel mondo, ha documentato che l’Iran ha il più alto numero di condanne a morte dopo la Cina, in rapporto alla popolazione del Paese, e che le condanne a morte per impiccagione sono triplicate, da quando le donne iraniane hanno preso a far sentire, con ogni mezzo, la loro voce, cominciando, ad esempio, a rifiutarsi di indossare io velo. E ancora, Amnesty International nel suo Rapporto paventa che il numero di queste esecuzioni capitali possa rischiare di superare presto le 251 condanne a morte eseguite in Iran nel 2022.

Tutto è cominciato – certo lo si ricorderà – il 16 Settembre del 2022 quando, dopo un arresto, la giovane 22enne curdo-iraniana, Mahsa Amini era morta in carcere in seguito alle botte ricevute durante e dopo quell’arresto. Da allora la protesta delle donne iraniane non si è più fermata e la repressione poliziesca del regime degli ayatollah ha fatto contare decine, centinaia di morti per azione della cosiddetta Polizia della Morale e dei militari; nonché per sentenza dei Tribunali che condannavano (e ancora condannano) i e le rivoltosi/se alla pena di morte mediante impiccagione, per “offese recate a Dio”.

Decine e decine sono state, fino ad ora, le sentenze di morte eseguite e le vittime di questa pena, barbara e definitiva, sono state – e sono – in maggioranza donne. Molte donne, attualmente in carcere in Iran, rischiano di fare la stessa fine. Tra loro cui sono Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi, le due giornaliste che, per prime, hanno denunciato al Paese la morte in carcere di Mahsa Amini. Da tempo incarcerate, le due donne, sono in attesa della Sentenza e non si vede, per loro, all’orizzonte alcun segno di clemenza del regime assassino iraniano.

Come in una guerra

Tornando al nostro Paese, la PM Dr.ssa Letizia Mannella – del V Dipartimento Soggetti Deboli e Persone Vulnerabili, della Procura della Repubblica di Milano, che segue il caso del femminicidio di Giulia Tramontano – esorta le donne che vivono relazioni disturbate e violente, a non andare mai all’ultimo appuntamento, quello della spiegazione, perché si tratta di un momento estremamente pericoloso. 

E’ certamente un buon consiglio. Ma insieme bisognerebbe che le donne venissero ascoltate di più quando denunciano maltrattamenti o altre violenze; bisognerebbe utilizzare di più il braccialetto elettronico (il cosiddetto “codice rosso” lo consente) che può essere usato – a discrezione del Giudice – anche per gli stolker e i violenti, come deterrente; bisognerebbe potenziare i Centri Antiviolenza, perché lavorino non solo con le donne, ma anche con i maschi violenti, che sono il centro del problema che si chiama “violenza di genere” e magari bisognerebbe aprire il maggior numero possibile  di “Case sicure” in cui le donne che scappano da situazioni violente possano trovare rifugio e tranquillità. (*)

Ancora, sarebbe importante noi tutti si desse battaglia, non solo ai comportamenti violenti, ma anche agli stereotipi sociali che vogliono che spesso la discriminazione nei confronti delle donne (che può essere il primo passo verso comportamenti violenti) venga considerata in alcuni ambienti sociali “normale”, a cominciare dalla famiglia in cui ancora il modello dominante è quello del maschio a cui è concessa una certa dose di potere, il che porta spesso a tollerare i loro atteggiamenti discriminatori nei confronti delle donne. 

La “questione femminicidi” riguarda tutti noi

Dunque. La “questione femminicidi” riguarda tutti noi. Noi che dobbiamo combattere in primis contro l’assuefazione che ci fa abituare a queste morti e che ci riduce alla conta dei cadaveri, cosa che ormai non facciamo più quando leggiamo di una guerra come, ad esempio, quella attuale in Ucraina, dove i morti sembrano essere solo civili (ché quelli in divisa, caduti dall’una e dall’altra parte, sembrano desaparecidos) e cadono in numero talmente alto da rendere complicato anche tenere il conto. L’assuefazione è un nemico pericoloso perché uccide l’indignazione che è, invece, una condizione importante per passare all’azione civile (meglio civica).

Certo, reagire a queste situazioni è difficile perché le viviamo da spettatori, senza nessuna parte in commedia. Ma – come per molte altre cose che riguardano il nostro Paese – anche la violenza di genere è un problema che deve interessarci perché le vite delle donne che con i femminicidi perdiamo, sono non solo un insulto alla vita, ma anche un delitto commesso nei confronti della comunità intera di cui tutti noi facciamo parte, dunque quelle storie ci riguardano e dobbiamo occuparcene.

1522 – Una telefonata può salvarti la vita

Come forse è poco noto esiste un numero telefonico che – se chiamato in tempo – può salvare una vita. Si tratta del 1522, un servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Il 1522 – gratuito anche dai cellulari e attivo 24 ore su 24, sette giorni a settimana – accoglie con Operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Ricordo che il Servizio 1522 – oltre ad essere una peculiarità italiana – è basato in un bene confiscato alla mafia.

Nota finale: il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi un paio di giorni fa, in un’intervista, ha parlato di un Piano anti-femminicidi che il governo avrebbe già pronto. Il Piano prevederebbe il potenziamento dell’uso del braccialetto elettronico (la decisone sul cui utilizzo, ad ora, spetta però solo al Giudice) e quello della prevenzione, ma il Ministro non ha specificato in che termini quest’ultima sarebbe potenziata. Staremo a vedere.

(*) “L’evoluzione della normativa italiana in materia di violenza sulle donne prende le mosse dalla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Legge n. 77 del 2013); a seguito della ratifica, l’Italia ha compiuto una serie di interventi volti a istituire una strategia integrata per combattere la violenza nel solco tracciato dalla Convenzione. Il primo intervento in tal senso è stato operato dal Decreto-Legge n. 93, del 2013, adottato a pochi mesi di distanza dalla ratifica della Convenzione, che ha apportato rilevanti modifiche in ambito penale e processuale ed ha previsto l’adozione periodica di Piani d’azione contro la violenza di genere. Nella XVIII Legislatura il Parlamento ha proseguito nell’adozione di misure volte a contrastare la violenza contro le donne, perseguendo in via principale gli obiettivi di prevenzione dei reati e di protezione delle vittime e prevedendo parallelamente un inasprimento delle pene per la commissione dei c.d. reati di genere. Il Provvedimento che più ha inciso nel contrasto alla violenza di genere è la Legge n. 69, del 2019 (c.d. codice rosso), che ha rafforzato le tutele processuali delle vittime di reati violenti, con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale e domestica, ha introdotto alcuni nuovi reati nel codice penale (tra cui  il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, quello di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e quello di costrizione o induzione al matrimonio) ed aumentato le pene previste per i reati che più frequentemente sono commessi contro vittime di genere femminile (maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale).” 

Fonte: https://temi.camera.it/leg19/temi/violenza-condonne.html#:~:text=In%20particolare%2C%20l’articolo%202,alle%20vittime%20di%20tentato%20omicidio

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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