La linea del silenzio. Storia di famiglia e di lotta armata di Gianluca Peciola

Nel nuovo romanzo le conseguenze della traumatica irruzione della Storia nella vicenda di una famiglia proletaria romana sul finire degli anni settanta

Non è stata una facile lettura, quella, protrattasi per il lungo e caldissimo mese di agosto, del romanzo di Gianluca Peciola, La linea del silenzio. Storia di famiglia e di lotta armata. E ciò, innanzitutto, perché la storia narrata non è affatto una fiction, bensì la vera, autentica storia dell’autore e della sua famiglia “allargata”; e in secondo luogo, perché, in qualche modo, il contenuto del racconto riguarda, direttamente o indirettamente, un’intera generazione (la mia), quella che si è formata tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta, un periodo di profondi rivolgimenti nella società italiana, di grandi conquiste civili e sociali, ma anche di strategie della tensione, di aspre contraddizioni, di sanguinose reazioni, di ideali irrealizzati, di storie personali e familiari tormentate, di scelte rivelatesi errate, di vite spezzate; una generazione, una parte della quale (piccola o grande non importa) ha pagato duramente, per le proprie scelte non si sa quanto meditate o quanto casuali, sull’altare delle magnifiche sorti e progressive della nazione italica.

Protagonista del romanzo non è tanto l’io narrante, le cui vicende (dall’infanzia all’adolescenza alla dispiegata giovinezza, con il contorno di emozioni, osservazioni e riflessioni, di esperienze formative ma anche di cadute, di sbandamenti, di deviazioni, di recuperi e risalite) – indubbiamente centrali ma che acquistano significato solo  se collegate e inserite nel contesto familiare – quanto piuttosto, come già detto sopra, la famiglia “allargata”; una grande e proletaria famiglia (residente in una modesta casa su tre livelli nell’allora borgata di Quarto Miglio) così composta: la “Madre” (la maiuscola è del recensore, non dell’autore, ma è qui doverosa, per il suo pregnante valore simbolico e paradigmatico), una donna nubile e madre per propria scelta, coraggiosa e determinata, capace di sfidare i pregiudizi e le convenzioni, di professione portantina (oggi diremmo “operatrice sanitaria”), una donna amorevole, che assume il proprio ruolo di madre non soltanto nei confronti del figlio (l’io narrante) privo di padre, ma anche e soprattutto nei confronti di quella disgraziata figlia altrui, Laura, che si è smarrita, impigliata in uno dei più tragici grovigli della grande Storia (la lotta armata dichiarata dalle BR e il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro) e travolta a causa della sua propria scelta di condividere una guerra non dichiarata (ma cosparsa di morti, feriti e vite spezzate sull’uno e sull’altro fronte) contro lo “Stato borghese” o, come scrivevano le stesse BR nei loro comunicati, lo Stato Imperialista delle Multinazionali.

Una Madre il cui agire sembra ispirato da una sacrale “legge morale”, da una sorta di kantiano imperativo categorico, una Madre totalmente e appassionatamente impegnata in famiglia e a livello politico e sindacale. E poi c’è il padre, quello biologico, Giorgio, sposato con la Gina, cugina della Madre, con la quale ha messo al mondo, dando loro il proprio cognome, i cugini-fratelli Laura e Sandro; un padre che muore quando l’io narrante, Gianluca, ha appena quattro anni e ancora non sa che quello “zio” Giorgio è il suo vero padre. E poi c’è la già accennata cugina-sorella Laura, detta Lalla, destinata, nel racconto, ad assumere, suo malgrado forse, ma con dolorosa consapevolezza, un ruolo (negativo e positivo) sempre più essenziale e determinante; Laura che rappresenta la causa “prossima” del trauma che, nel biennio cruciale 1978-1980, travolge l’intero gruppo familiare, sul quale ricade all’improvviso un interiore e condiviso senso di colpa per fatti dei quali nessuno (tranne Laura) ha alcuna responsabilità, con la conseguente dura necessità di assumere una posizione che, pur non condannando la sciagurata scelta di lei, punti innanzitutto al recupero dei rapporti con quella “figlia perduta”, per anni segregata in supercarceri e poi, in un secondo tempo, al come contribuire, tutti insieme, al suo graduale reinserimento in una vita la più vicina possibile alla “banale” normalità di rapporti intessuti di reciproche affettuose cure nella famiglia, nonché di quotidiani impegni e attività, a livello sociale, a vantaggio di persone bisognose, oltre che di affetto, di beni materiali indispensabili per una vita dignitosa. 

Abbiamo infine il nucleo più forte della famiglia “allargata”, quello costituito dallo zio Angelo, fratello della Madre, da sua moglie Gilda, dai figli Flaviana e Riccardo. Un personaggio, zio Angelo, che, più che un individuo particolare, rappresenta un “tipo ideale”: l’operaio custode di quella che una volta si definiva la “coscienza di classe”, un fedele ma non acritico militante del PCI, che legge gli avvenimenti che si succedono alla luce della linea dettata e discussa dal Partito e nel Partito, che nutre ideali di rinnovamento della società e avanzamento dei ceti subalterni, che coltiva nel suo cuore (come milioni di altri militanti e simpatizzanti comunisti, e non solo) un affetto e un’ammirazione sconfinati per Enrico Berlinguer. Lo zio Angelo che l’autore considera, giustamente, come il membro più autorevole e come punto di riferimento dell’intero gruppo familiare, che non perde mai la capacità di autocontrollo e di riflessione anche nei momenti più bui e tristi. Lo zio Angelo del quale, a p. 240 del libro, Gianluca scrive: “E’ stato il padre che avrei voluto avere, con cui litigare sulle scelte politiche e sulle mie azioni spericolate fino a mandarlo affanculo e non parlarci per giorni; avrei voluto che fosse legittimato a fare tutto quello che ad un padre naturale è permesso: andare ai colloqui con gli insegnanti, sorvegliare i miei studi, arrabbiarsi fino a farmi divorare dai sensi di colpa, a dirmi con un solo sguardo che stavo sbagliando. O che stavo sulla strada giusta”.

Una grande famiglia, come ne esistevano tante, a Roma e in Italia, nel periodo immediatamente dopo la guerra; una famiglia nutrita di ideali e di valori positivi, quegli ideali e quei valori positivi che fecero sì che milioni di famiglie simili – nonostante le difficoltà, la fame, gli ostacoli frapposti dalla catastrofica situazione economica e da una struttura statale ancora arretrata e non interamente bonificata dalla burocrazia e dalla legislazione fasciste – ricostruissero materialmente, moralmente e culturalmente un Paese disastrato dalla guerra dichiarata dalla dittatura fascista.

Ma, così come la grande Storia aveva travolto, con la dittatura prima e poi con la guerra, milioni di vite individuali e familiari (come nota Erri De Luca in un brevissimo esergo prima dell’incipit del romanzo, un esergo che rinvia, pur senza citarla, a La Storia di Elsa Morante), oneste e laboriose, allo stesso modo (anche se con un numero di vittime infinitamente inferiori), la grande Storia degli anni settanta – quella storia costellata di grandi lotte e conquiste del movimento democratico dei lavoratori e di altrettanti feroci reazioni da parte delle classi dominanti, e di strategie della tensione poste in essere da pezzi deviati dello Stato che non hanno esitato a ricorrere al terrorismo e allo stragismo per bloccare il rinnovamento del Paese – ha travolto anche la famiglia descritta da Gianluca Peciola. Tratteggiata con grandissimo affetto prima di tutto, ma anche con la più implacabile volontà di svelarne i lati nascosti, di cancellare quella “linea del silenzio” che la stessa famiglia s’impose quando Laura – scegliendo la lotta armata e entrando a far parte della colonna romana delle BR e partecipando al rapimento e all’uccisione del presidente della DC – venne arrestata dopo due anni di latitanza e, sottoposta a vari processi, condannata a più ergastoli.

Descritta, quella famiglia, anche nel percorso che portò, gradualmente (e attraversando il lungo calvario delle visite nelle carceri di Voghera, di Latina e poi di Rebibbia, ma anche dell’agitato e per niente lineare curriculum scolastico dell’io narrante, nonché le vicende legate alle sue tormentate scelte politiche nella vasta e irrequieta area dell’autonomia) allo sgretolamento di quel silenzio e alla riconquista della parola e del dialogo chiarificatore tra Madre e figlio e tra sorella (Laura) e fratello (Gianluca), quel dialogo rinvigorito dalla presenza e dalla forza di zio Angelo, saggio e imperturbabile custode della moralità del lavoro e dei valori tradizionali di una classe operaia intesa quale forza trasformatrice della società.

Sicuramente nel romanzo è l’intero gruppo familiare ad essere protagonista di questa storia al cui incipit vi è il trauma subito con la scoperta dell’appartenenza di Laura alle BR e della sua partecipazione al rapimento e all’uccisione di Moro; tuttavia risulta fondante e centrale anche la storia individuale di questa ragazza che, dopo la sua incarcerazione e la lunga detenzione, intraprende un tormentato cammino di riflessione e di confronto con se stessa (con ciò che era o credeva di essere) e con la realtà interna ed esterna al carcere, un cammino al termine del quale vi è l’amara constatazione del fallimento di un progetto di cambiamento che ha prodotto null’altro che sangue, privazione della vita ai “nemici” rappresentanti dello Stato (e, tra questi, molti giovani poliziotti provenienti da umili famiglie) e a molti altrettanto giovani membri delle varie organizzazioni terroristiche, e privazione della libertà, rottura di affetti e di relazioni, allontanamento dai propri più stretti congiunti e dagli amici.

E il romanzo (romanzo, non testo storiografico, ché all’autore, personalmente coinvolto nelle vicende narrate, non interessa affatto di ricostruire la storia politica o giudiziaria di quegli anni) non può fare a meno di registrare l’atteggiamento di Laura durante l’ennesima udienza di un ennesimo processo nel quale è costretta a sedere sul banco degli imputati; un atteggiamento che presuppone una “conversione” morale e intellettuale, che Laura esprime con frasi che assumono un profondo significato non solo personale, ma anche storico e morale. Ecco come si esprime Laura, al processo e dopo, quando le fu concessa la semi-libertà: “Gli abbiamo fatto quello che lo Stato non ha fatto a noi, l’abbiamo rinchiuso in uno spazio intimo e poi ucciso … Lo Stato borghese, pur nella sua crudeltà, è stato più generoso”; “Moro sapeva che sarebbe morto”; “Gli furono restituiti i suoi vestiti. Poi gli vennero bendati gli occhi. Prima di entrare nella cassa e uscire dall’abitazione, salutò i presenti” (p. 218); “Penso che sia stata una fortuna aver perso la guerra. La nostra guerra … non sarebbe stata una società giusta quella creata da noi, non si realizza nulla di buono se le premesse sono quelle che abbiamo creato con tutti quei morti e la scia di dolori lunga chissà fino a quante generazioni” (p. 234). 

Sono queste le parole che vanno lette e meditate, insieme alle sconvolgenti, drammatiche e colme di pathos, “deduzioni mediante rappresentazioni” che l’io narrante, alle pp. 219-220, fa seguire alle dichiarazioni di Laura: “Immaginai Laura nell’atto di restituire i vestiti al prigioniero … Schiacciata tra le pareti sempre più asfissianti del sentimento della morte e dell’impossibilità di impedirla. Una vita che aveva avvicinato nelle notti in cui era stata la sua carceriera era già finita, lì davanti a lei. Tutto questo Aldo Moro lo aveva capito … immaginai un’intesa tra loro, che lui le avesse consegnato una silenziosa richiesta di aiuto. Poi il saluto cordiale di Moro, un gesto che lo faceva diventare all’improvviso grande sulla scena, un uomo capace di un atto di generosità nei confronti di coloro che avevano stabilito di ucciderlo. Un atto surreale, così potente nella sua drammaticità che avrebbe dovuto mettere in discussione tutto. Un atto che consegnava ai brigatisti la concreta possibilità di liberarsi dall’onere di un verdetto per loro più pesante della sconfitta, quello dell’inferiorità morale”. 

Credo che il succo della storia che Gianluca Peciola, immaginiamo con quali “contorcimenti” e ripensamenti interiori, abbia voluto consegnare ai lettori de La linea del silenzio, risieda proprio in queste ultime citate “deduzioni”; e si tratta di un succo profondamente intriso di moralità. Sì, moralità, perché tutta la storia delle BR, e di coloro che vi presero parte attiva, in buona fede (la stragrande maggioranza) o in malafede (ve ne furono), pagandone le conseguenze (la stragrande maggioranza), o cavandosela a buon mercato (anche di questi ve ne furono), prima ancora che una storia politica o criminale (a seconda dei punti di vista), o ambedue le cose, fu una storia basata sulla deliberata rinuncia alla moralità; e per moralità intendo, magari con altri termini e concetti, le stesse cose intese da Laura nelle frasi sopra citate: ossia il totale e drammatico disconoscimento del valore della vita umana, l’assenza di qualsivoglia fondamento coincidente con il principio (kantiano o evangelico non importa) della necessità di agire “considerando il prossimo mai come mezzo o strumento, ma sempre come fine”.

Ecco perché in questo bel libro di Gianluca Peciola, un libro che non nasce (per fortuna) da una ricerca nei polverosi archivi giudiziari e/o giornalistici, e che non vuole essere l’ennesima ricostruzione di uno degli episodi più sanguinosi della nostra Storia repubblicana (disponiamo già, a questo proposito, di una sterminata ed eccessiva bibliografia), bensì è frutto di un appassionato e molto spesso doloroso scavo nella memoria propria e di famiglia, le figure che emergono di più e che s’impongono con una straordinaria capacità attrattiva e persuasiva sono quelle della Madre (un meraviglioso concentrato di coraggio, passione, abnegazione, empatia, capacità di ascolto e di perdono e, ovviamente, di sconfinato amore materno non solo nei confronti di Gianluca, ma anche e soprattutto di Laura), insieme a quella di zio Angelo (per lui, proletario, militante comunista, custode della coscienza e dei valori positivi della classe, simbolo e strumento e prodotto di quella riforma educativa, intellettuale e morale prefigurata da Gramsci come sostanza ed effetto di dell’egemonia del partito inteso come “intellettuale collettivo”) e, infine, allo stesso Aldo Moro: un uomo che, in procinto di morire, riesce a regalare un sorriso e un saluto di commiato a coloro che tra poco lo uccideranno, e a mostrare loro la propria compassione e il proprio perdono, ebbene, un uomo così si rivela in possesso di una umanità inimitabile e ineguagliabile. L’Aldo Moro che emerge da questi brevi tratti, lasciati dalla penna dell’autore quasi alla fine del suo romanzo, è il vero vincitore della disperata guerra scatenata dalle BR allo Stato.

La linea del silenzio è un libro che, per la sua intrinseca e profonda moralità, è indispensabile in questa epoca di trionfante iperconsumismo e omologazione (la profezia di Pasolini si è avverata, purtroppo), ma anche di eclisse della memoria storica e di riapparizione di quei fantasmi del passato che si credeva, erroneamente, di aver definitivamente sconfitto o relegato in soffitta (sono invece felicemente al governo del Paese).

La linea del silenzio è un romanzo che, oltretutto, procura quel non trascurabile “piacere del testo” (Roland Barthes docet), irrinunciabile per qualsiasi tipo di lettore: scorrevole, avvincente, con un lessico in grado di mescolare sapientemente termini e costrutti popolari con espressioni più ricercate ed elaborate, linguaggio basso e alto; uno stile maturo, espressivo, che riesce a far vibrare le corde del cuore e a suscitare quel necessario senso critico, nel quale convergono la memoria e la ragione, indispensabile per la comprensione di un contenuto che aspira sì alla letteratura, ma senza abdicare e/o manipolare lo sfondo storico della narrazione. 


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