La parata
I “Piccoli Amici” dell’Oratorio di San Tommaso d’Aquino, Parrocchia omonima a Tor Tre Teste, fra qualche settimana inizieranno il primo campionato di calcio a 5, nati 2013/2014, e per tutti sarà un’esperienza bellissima.
Sarà una visione che durerà mesi, costituita da tanti scatti visivi che saranno assemblati nella loro mente, che seguiranno il filmato “regalato” loro , lo scorso giugno: 10 minuti di ricordi, per la loro futura vita.
Momenti indimenticabili.
Ho chiesto autorizzazione a mio figlio per utilizzare una “sua favola, vera” scritta nel 2008.
E’ anche questo è un “regalo”, in questo momento molto importante della loro crescita, di futuri uomini e futuri atleti.
Sono altrettanto convinto che interesserà anche i lettori di Abitare A Roma, per il contenuto.
La parata di Simone Migliorato
“È una domenica di Maggio, e per ognuno ha un sapore diverso. Per molti romani è l’inizio della stagione balneare che ha aperto ufficialmente i battenti il primo di questo mese, con la festa dei lavoratori, e il concerto a San Giovanni, e le braciolate nei prati.
Per noi calciatori oggi è l’ultima giornata di campionato. Chiaramente per noi giocatori di Promozione nel Lazio. In serie A ancora non hanno finito. Ma loro finito il campionato vanno alle Mauritius, io invece vado sul libro di storia medievale per tutta la settimana, agognando una domenica mattina da passare a Capocotta, con la gente tutta appiccicata addosso. Per questo oggi la mia squadra deve vincere, perché se perdiamo facciamo i play out, cioè due partite in più per salvarci o meno dalla retrocessione. A nessuno va di fare altre due partite. A chi non va per orgoglio, a chi perché fa caldo. A me perché ho deciso che questa è la mia ultima partita. Smettere di giocare a ventidue anni.
Si, perché il peso di questo numero 12 che porto sulle spalle è troppo grande. Questi 2 anni con il 12 sulle spalle sono durati secoli, e pian piano, con molto calma, a sprazzi hanno distrutto le mie spalle stanche di giovane portiere. Quanto pesano i numeri nella vita, per chi come me, si illude di non diventare come il fungo de “Il Piccolo Principe”. Questi due anni di 12 hanno fatto dimenticare, agli altri e sopratutto a me stesso quanto valgo come portiere. Quando mi trovo in porta ho paura: paura di essere giudicato, paura di sbagliare, paura di non essere più all’altezza. E questo mi blocca.
Checco batte una punizione all’allenamento, io la vedo passare e non mi butto: perché le mie gambe sono pesanti, perché c’è tutto il peso di questo 12 sulla mia schiena. Neanche le farfalle che ho tatuato, appunto, sulla mia schiena, riescono a rendermi leggero. Perché su questo numero c’è il peso della rabbia di aver visto tante persone schifose vincere e giocare, e tu sempre in panchina. Perché c’è il peso di tanta mediocrità umana, che hai provato a vincere, ma che alla fine non ti ha sconfitto, no. La sconfitta sarebbe stata migliore. Ti ha chiuso nell’oblio. Nell’oblio di una panchina, nell’oblio di una situazione stantia, nell’oblio di aspettare e aspettare, nell’oblio di una parvenza di serenità e di accettazione. Nell’oblio, per l’appunto. Nessuno si ricorda di te. Nessuno pensa minimamente che puoi fare più di quello che fai: far divertire la squadra con le tue battute. Come se ti pagassero per fare quello.
È domenica e chiaramente sei in panchina. Ti siedi e guardi. Guardi e pensi che questa è la tua partita ufficiale. Si perché continuerai a giocare a calcetto, ma mai più su un campo di calcio ufficiale. Basta panchine, basta mister, basta genitori trasudanti di boria quando parlano della piccolezza dei lori figli. Basta anche di vedere papà così, che non sà cosa dirti, vorrebbe abbracciarti vedendo il tuo dolore, ma l’unica cosa che riesce a fare è imprecare contro gli altri, aumentando il tuo e il suo dolore.
Basta domenica mattina con alzataccia e con Giorgia che rompe perché vuole fare tardi anche lei il sabato sera, perché è stufa di stare con un calciatore e i suoi impegni (alla fine neanche gioco, pensa che strazio non uscire per un panchinaro).
Basta tutto questo. Ma decido comunque di sentire con calma tutte le sensazioni di questa ultima volta. Proprio perché è l’ultima volta.
Segniamo l’1-0.
È il gol che ci permette di salvarci. Siamo tutti contenti, anche io l’eterno panchinaro, perché alla squadra ci tengo. Sono uno di cuore. Panchina e dolore, ma sempre affianco ai miei compagni, anche a quelli che non sopporto.
Mancano 10 minuti. Mi ricordo che un mio amico che ho in Giappone, disse ad un altro mio amico in Italia questa frase “la vittoria e la sconfitta si decidono sempre all’ultimo minuto”. È un anno che mi ripeto questa frase. Tremila mondi e possibilità in un istante di vita.
Il mister per perdere tempo, sta facendo entrare l’ultimo cambio disponibile: il terzo. Chiaramente non sono io perché il portiere non viene sostituito così a caso, però se entra il terzo panchinaro io finisco tutte le mie possibilità materiali di entrare. Mentre il dirigente sta per dare il foglio con la sostituzione al guardalinee, loro lanciano e il nostro numero 1 esce fuori dall’area, ma frana contro il giocatore avversario. Fallo di ultimo uomo ed espulsione. Nessuno si gira verso di me. Io mi alzo, mi metto i guanti e sono pronto ad entrare. Portiere espulso, entro io, ed esce anche quindi un altro giocatore della nostra squadra. Punizione dal limite, ultimo minuto. Qualcuno mi incoraggia, mi dicono “Daje Simò, daje!”. Piazzo la barriera. Penso che le punizioni non riesco più a pararle e se la mette sul palo della barriera mi frega, ma se mi muovo prima per prenderla mi becca sul mio palo e allora sono dolori.
L’arbitro fischia e il tiro parte. Vola sopra la mia barriera.
Penso a quanto bello quel sogno che faccio spesso da sveglio. Sogno di giocare in una squadra di una città di mare. Ma non perché voglio i loro soldi, e una casa lì. Non perché voglio essere riconosciuto nelle strade della città anche se gioco in Eccellenza. No. Perché mi piacerebbe alzarmi la mattina e vedere il mare. Perché mi piacerebbe allenarmi e dopo vedere il mare. Perché il mare mi fa pensare ai sogni, al sole, al tepore e al vento della primavera. E siccome non ci sono campi pe’ Lungotevere, ciò ‘sto sogno: de giocà in un paese di mare. Pe’ scordamme de ‘sta borgata, pe’ scordamme de tutti li coatti che dicheno che hanno giocato, pe’ scordamme de direttori sportivi e de presidenti che te parleno solo de sordi. Per sognare. Insomma. Penso a mio padre e a tutte le volte che mi ha seguito, e al fatto che anche la sua vita lo ha fatto diventare pesante e non più una farfalla. Penso ai miei primi giorni da portiere, da bambino a otto anni quanno ancora nun avevo conosciuto tutta ‘sta merda: procuratori, allenatori, raccomannati, provini. Penso a Giorgia e quante domeniche mi ha sopportato. Penso a mamma e tutti i suoi sorrisi di domenica a pranzo per consolarmi.
Penso a quei farfallini che giocano solo pe’ sognà.
Penso a quer regazzino che senza braccio giocava su quer campo porveroso de Quarticciolo.
Penso a quer poro pupo che è morto co’ ‘na manija d’irrigazione ‘n petto, perché i bastardi spenneno i sordi pe’ paga quattro seghe in Eccellenza, e no pe’ renne sicuri i campi.
Penso a questo. Penso al mare. Alla libertà.
Volo e sotto al sette la palla è mia. Deviata sopra la traversa. Partita finita. Brividi lungo la schiena e lungo le farfalle. L’insostenibile leggerezza dell’essere. Squadra salvata e io che ho deciso l’incontro. Tutto vogliono venire da me a festeggiarmi.
Ma io non esulto. Ho dovuto ingoiare troppo, ho dovuto vomitare troppo odio. Se avessi parato o no, avrei vinto lo stesso.
Perché nessuno mi toglierà mai la gioia di vedere un pallone volare, e la voglia matta di volare anche io insieme a lui.
Come due farfalle”.
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