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Le botteghe storiche rischiano di chiudere

Nell'indifferenza dell'Amministrazione Capitolina. Intervista a Giulio Anticoli

Dicono tutti che il centro è vuoto. Il virus ha spazzato via il caos. Ha disperso la folla che impediva lo sguardo su Fontana di Trevi, i tifosi olandesi che scheggiavano la Barcaccia, gente venuta da chissà dove ad incidere il proprio nome sui marmi millenari del Colosseo. E, certamente, ha bloccato gli schiavi del cartellino, piccoli consumatori abituali provenienti dalle più remote periferie, che tenevano in piedi bar e tavole calde. Fin qui, aprendo un po’ i nostri orizzonti, potremmo anche pensare che l’impensabile stia costruendo un nuovo e più moderno ponte verso il futuro. Ma si stanno, a poco a poco, cancellando le coordinate: quei punti di riferimento che da oltre cinquant’anni sono il nord e il sud di milioni di incontri, l’est e l’ovest di quel clima festoso che rende Roma una delle città più accoglienti al mondo. Le botteghe ed i negozi storici, in cui spesso le famiglie di artigiani e commercianti si sono tramandate la professione, rischiano di non sopravvivere al Covid.

Quali sono le perdite reali dovute alla pandemia lo chiediamo al Presidente dell’Associazione delle Botteghe Storiche Roma, Giulio Anticoli. 

Le perdite sono state importantissime – dice – nel centro storico vanno dal 40% in su, fino alla chiusura, nelle zone più periferiche un pochino meglio. Il problema è che manca totalmente il turismo. Gli alberghi infatti sono popolati per un cinque-dieci %, alcuni sono ancora chiusi”.

Quali aiuti sono stati offerti alle botteghe storiche dal Comune o dalla Regione?

“Di aiuti specifici per le botteghe storiche non ne sono stati dati. C’è un aiuto pre-Covid da parte della Regione Lazio nominato “piccolo credito” che ha stanziato 2 milioni di euro come fondo rotativo destinato alle botteghe storiche, per cui ogni attività può prendere fino a 50.000 euro restituibili in 5 anni a tasso zero. Ma andrebbero studiate delle politiche di riattivazione dell’economia, parlo di un abbattimento dell’aliquota Iva, ad esempio. Oppure creare dei risparmi, che potrebbero essere estrapolati alla diminuzione del cuneo fiscale, e metterli su una carta di credito prepagata, da spendere entro un anno nei circuiti del commercio nazionale. Questa ad esempio è una iniziativa adottata da un’importante banca europea che lo fa su alcuni investimenti, la banca ti riconosce un 1% extra dell’investimento che fai, te lo mette su una carta di credito prepagata ma se tu entro un anno non lo spendi, lo perdi”.

La sindaca, Virginia Raggi, ha istituito il certificato “Covid 19 safe” per gli alberghi di Roma. Crede possa servire?

“Quando entro in un albergo do per scontato che tutte le precauzioni siano state prese e che l’albergo sia a norma per la prevenzione del Covid. Io ad esempio nel mio negozio misuro la temperatura ai dipendenti tutte le mattine, me la misuro anch’io, faccio le pulizie con i prodotti specifici per sanificare e tutto quanto. Quindi dare la certificazione Covid 19 safe, a che serve? Vuol dire che ci sono delle falle nei controlli e quindi serve il controllo del controllo, il certificato del certificato?”.

Sono pochi i romani che attualmente possono permettersi di vivere in centro, per far sì che almeno lo frequentino nel tempo libero, lasciare aperti i varchi potrebbe essere utile?

“Assolutamente sì! Ce lo insegnano gli antichi romani che costruivano arterie specifiche per far si che il commercio si sviluppasse, quest’ultimo ha sempre viaggiato con efficacia dove non c’erano ostacoli. In un momento come questo mettere dei varchi inutili in un centro storico che si presenta deserto di turisti, evidenzia la totale mancanza di visione degli addetti alla mobilità che non comprendono la necessità di rendere il centro accessibile ai romani. Il problema economico che apparentemente è dei commercianti è in realtà una crisi economica che vive tutta la città. Certamente il volano per l’economia del centro è sempre stato il turismo, che ora non c’è, purtroppo aggravato dalla chiusura dei voli dall’America, dal quale Paese proviene buona parte del turismo ricco. Facciamo almeno in modo che andare a fare un acquisto nelle vie dello shopping sia semplice, cerchiamo di non togliere neanche un centesimo all’economia locale”.

Un tempo i rioni di Roma erano abitati. Con uno sguardo che va più lontano, crede che l’affermarsi dello smartworking, il conseguente calo della domanda di locazione e acquisto di immobili da parte di grandi società, potrebbe rendere le abitazioni del centro più accessibili alla borghesia romana che oggi popola le periferie residenziali?

“L’alta borghesia forse. Ma lì si tratterebbe di immobili che non si sono mai liberati, come gli attici panoramici del centro storico, i tetti di Roma… Gli appartamenti più comuni, a Tor di Nona ad esempio ci sono ancora delle case popolari, quelli sono spazi che quando tornerà il turismo saranno appetibili per i B&B, quindi non credo che poi chi ha un immobile lì non pensi di metterlo a reddito aprendo un’attività di ricezione. Ci sono immobiliaristi che stanno facendo grossi affari in centro adesso, proprio in previsione della ripresa. Stanno comprando a mani basse a prezzi scontatissimi, addirittura stanno acquistando avviamenti di attività che adesso sono con l’acqua alla gola, le rilevano a due soldi in attesa che ritorni il turismo e rifiorisca l’economia. Sicuramente riprenderà, quindi attendono. No, purtroppo non credo che i romani torneranno ad abitare il centro storico. Non adesso almeno, forse in futuro quando metteranno delle restrizioni a queste attività ricettive…”

Quali sono le botteghe storiche che stanno resistendo meglio a questa crisi?

“Resistono un pochino meglio le botteghe artigiane perché hanno costi ridotti e non hanno impegni di capitali enormi come chi commercia. Hanno il personale essenziale, spesso la bottega è di proprietà, il lavoro che hanno perso durante il lockdown lo stanno in parte recuperando. Sicuramente vanno meglio rispetto al commercio tradizionale con magazzini carichi di merce invenduta ma da pagare, un debito conclamato da smaltire negli anni”.

Quali idee innovative o nuove strategie di marketing sono state adottate in questo periodo?

“Ad esempio, con commercianti impegnati in vari settori (libri, abbigliamento e prodotti biologici), abbiamo creato un Concept Store per cui in ogni attività c’è un pezzo dell’altra. Quindi nel negozio d’abbigliamento c’è un angolo di libri e un angolo di prodotti biologici. Ci proponiamo di curare il benessere dell’anima. Per stare bene nel sociale dobbiamo vestirci bene, curare l’alimentazione quindi stare bene ed in linea e nutrire la mente. Diamo una consulenza nel vestire, nell’alimentazione, e consigliamo il libro giusto per una mente sempre attiva ed una cultura in continua evoluzione, logicamente consulenze offerte ciascuno per le proprie competenze. Mettiamo in comune il database dei clienti interessati delle tre attività, creando una sinergia tra noi. Questo porta un’economia aggiunta che prima non c’era.

Ovviamente, il primo passo che le attività commerciali hanno fatto dopo il lockdown è stato quello verso la vendita online, attrezzando i propri punti vendita degli strumenti per poter vendere sul web, anche se poi queste attività spesso si servono di portali che hanno le loro sedi nei paradisi fiscali. Noi operatori e chi acquista deve prestare attenzione a tutto ciò perché si tratta di un’economia che si perde, che non torna in ricchezza e servizi, perché questi colossi lasciano sul territorio solo un simbolico 2% dei loro introiti, generando ricchezze enormi in mani di pochi e monopoli che nel tempo non garantiranno più la sana e libera concorrenza”.

Cosa pensa del progetto di apertura del nuovo grande centro commerciale Maximo nel quartiere Eur Laurentina?

“Quando abbiamo 25 negozi chiusi in via Sistina, altrettanti in via Frattina e tanti altri per la città, serve ancora spazio commerciale? Non credo. Sono speculazioni edilizie pure. Occupiamo allora quelli che già ci sono di spazi, anche perché le città si spengono se il commercio si sposta nelle cattedrali nel deserto. Andrebbe previsto, come accade in Francia, che questi pachidermi possano aprire soltanto a 20 km dalla metropoli, anche se poi lì vanno ad uccidere tutto l’indotto dei paesi limitrofi, perché il nostro territorio è fatto di frazioni. Ma insomma, serve adesso un centro commerciale quando abbiamo i negozi che chiudono? In America è in atto un’inversione di tendenza, dove il 20% dei centri commerciali hanno già chiuso, ed oggi si presentano come blocchi di cemento deserti in attesa di ricollocazione.

Cosa possiamo fare per preservare le nostre botteghe storiche?

“Per preservarle servirebbe un sistema Paese che conservi le botteghe storiche. Ad esempio, a Parigi, i centri commerciali danno un contributo per il sostentamento delle botteghe del centro storico perché mantengono viva la tradizione commerciale della città. Bisognerebbe pensare anche ad un calmiere degli affitti che sia efficace, perché è ovvio che se io posso aprire cento ristoranti uno appresso all’altro, e questo l’ha consentito la legge Bersani, la bottega artigiana non ha più capacità di resistere, non può pagare gli affitti che può pagare la ristorazione e quindi scompare. La stessa legge Bersani però, per il centro storico, prevedeva una eccezione che non è stata applicata: la sparizione delle tabelle merceologiche del centro storico si poteva evitare. Inoltre, il “sistema paese” dovrebbe attivarsi per promuovere le nostre attività artigianali all’estero. Ad esempio, c’è un artigiano romano che prende ordinazioni dai Paesi arabi e organizza dei gruppi in base a ciò che serve: il doratore, il ceramista, l’intarsiatore,.. Questa è una cosa che potrebbe essere fatta in modo strutturale. Se pensiamo a Leroy Merlin e Carrefour, sono diventati grandi perché c’era un sistema Paese che li ha veicolati verso l’esterno. Noi non abbiamo un supermercato nazionale che sia uscito fuori dai confini, e non perché sono meno qualificati rispetto agli altri, ma perché non c’è un sistema Paese che funziona”.

Ci sono già le prime candidature per l’elezione del sindaco di Roma, chi pensa sia la persona in grado di darvi risposte intelligenti e concrete?

“Non voglio fare del qualunquismo ma nella storia dei sindaci di Roma non c’è stato nessuno che si sia espresso a nostro favore. Anche quelli che sembravano più sensibili, poi hanno ceduto ai grossi poteri economici del cemento, hanno dato autorizzazioni perché i centri commerciali dilagassero, molto spesso in deroga alle normative del momento. Francamente non mi sento di puntare la fiche su nessuno”.

Non crediamo possibile si possano davvero lasciar chiudere le nostre botteghe. Perché se ciò accadesse, noi romani finiremmo col vedere un muro dove non c’era, a coprirne l’entrata. Ce ne staremmo lì a guardare sbigottiti e, come un famoso bottegaio, una mattina qualunque, a dire “Ma che… come po’ esse’… ieri sera c’era…”. Sappiamo che “quanno se scherza bisogna esse’ seri”, perciò speriamo con tutto il cuore, che da qualche parte, anche stavolta, stia ridendo il Marchese del Grillo.


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