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L’Omino in metrò – Le Foibe

Il vento entrava imperterrito dal finestrino, sollecitato dalla velocità del metrò che in quel momento stava percorrendo il tratto tra San Giovanni e il Colosseo.

Seduto, leggevo le notizie sul cellullare. La crisi di governo vantava l’ennesimo giro di consultazioni. Draghi aveva fatto innalzare la borsa dando una ventata di concreto ottimismo e lo spread dopo tanti anni era sceso sotto i 100 punti. Il vagone era semivuoto. Ormai con la pandemia anche nelle ore di punta non era così affollato come era prima.

Con la coda dell’occhio mentre guardavo lo smartphone mi accorsi di un giornale accartocciato sotto i miei piedi proprio sotto il sedile davanti. Feci uno sforzo per allungare la mano facendo attenzione a non stirarmi la schiena e alla fine lo presi. Era un giornale di qualche giorno fa ed in prima pagina c’era la foto del Presidente Sergio Mattarella che a Montecitorio commemorava il giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo Giuliano-Dalmata. “Ecco cosa rimane di quel ricordo!>> pensai tra me, “un giornale sgualcito e dimenticato!”. Una tragedia del genere, parogonabile all’Olocausto subìto dagli ebrei, non si può e non si deve dimenticare…

Fu in quel momento che mi ricordai di quell’estate in Croazia ancora vivida nella mia memoria. Era il 1987 ed era la prima volta che varcavo il confine. Io e i miei compagni dell’università a bordo della mia Fiat Uno color blu carta da zucchero avevamo deciso di andare in vacanza in Grecia passando per la Jugoslavia. Alla frontiera, subito dopo Trieste, i doganieri ci controllarono il passaporto scrutandoci con diffidenza. Alla fine apposero il timbro e ci avviammo.

Eravamo in Istria, un pezzo d’Italia fino al 1945. Il paesaggio era rimasto selvaggio e le strade non erano granchè. L’asfalto era eroso dalle intemperie e dall’incuria. Alla guida dovevi fare attenzione alle buche per non rischiare di rompere le sospensioni. Le indicazioni sui cartelloni riportavano i nomi dei paesi non più scritti in Italiano ma in Slavo. E così  Capodistria adesso si chiamava Koper. Parenzo era diventata Porec, Rovigno era Rovinj. Anche Pola, la città più grande situata sulla punta inferiore della costa, era chiamata Pula quasi fosse un nome sardo. Il piccolo Colosseo costruito dai Romani era ancora intatto. Un pezzo di Roma in mano straniera. Già dal mutamento di quei  nomi si capiva la volontà di cancellare il ricordo della gens Italica che aveva vissuto in quelle terre.

Dopo quasi cento chilometri giungemmo a  Dignano ora Vodnjan. Trovammo un hotel per rifocillarci. Quella sera c’era la festa dei Bumbari. Gli Istriani Italiani tornati per le vacanze e quelli rimasti e ivi residenti si riunivano felici di ritrovarsi cantando vecchie canzoni dai contenuti tristi inneggianti i giorni amari della guerra. Noi di Roma fummo subito accolti bene come fossimo stati con loro da sempre e si divertivano a farci parlare romano, specialmente a farci dire le parolacce. Gli piaceva il suono. Degustando dei cevapcici e un buon bicchiere di vino bianco feci amicizia con uno di loro, Lorenzo, che mi raccontò la sua storia. Trascinato dall’atmosfera della festa, aveva bevuto un po’ e con quel briciolo di lucidità che ancora gli rimaneva iniziò a raccontare di quando finita la guerra  ci fu chi decise di tornare in Italia come esule e chi rimanere con Tito. Il padre possedeva un fazzoletto  di terra e allevava le pecore. Pur di non abbandonare quel poco che aveva si convinse a rimanere e lui minorenne non potè che sottostare a quella decisione. Col tempo però le cose non andarono bene. Anzi peggiorarono. Le milizie di Tito si riversarono nei Paesi e terrorizzavano i civili residenti. Gli espropriavano i locali con le loro attività, entravano nelle case, li prendevano e li trascinavano per le strade caricandoli sui camion, portandoli via. E poi di loro non si sapeva più nulla. Eppure la guerra era finita. Man mano che il tempo passava ci si rese conto che la situazione peggiorava. Voci sempre più insistenti, raccontavano di come molti venissero gettati nei crepacci profondi anche più di 200 metri. Dopo processi farse e sommari venivano fucilati e buttati lì nel vuoto. Nel buio del nulla. Spesso per risparmiare sulle pallottole facevano cordate di persone, tra loro legate con stretti fili di ferro agli avambracci provocando loro un dolore atroce. Poi uccidevano il primo della fila che precipitava nella foiba trascinando gli altri con sé. Morivano e agonizzavano uno su l’altro.

Lorenzo si fermò per un attimo. Il suo sguardo si fissò nel vuoto e gli occhi divennero lucidi. Non pianse però. Si trattenne. Bevve di scatto l’ultimo goccio di vino rimasto nel bicchiere e poi riprese a parlare: “Ero stanco di quelle stragi ingiuste e crudeli. Avevamo paura. Fu allora che io e un altro mio amico  decidemmo di fuggire. L’unica via di fuga era di varcare a piedi il confine e arrivare a Trieste. Bisognava passare per le montagne ed occorreva fare attenzione alle sentinelle. Già altri avevano tentato e non tutti erano riusciti a passare. Avevamo saputo  però il punto dove i soldati riuscivano a presidiare meno. Prendemmo coraggio e decidemmo il giorno della fuga. In silenzio abbracciai forte le mie sorelle e mia madre non sapendo quando l’avrei più riviste. Mi diedero un po’ di provviste e un po’ di soldi. Mio padre no. Non lo salutai. Lui era contrario e dissi a mia madre di farlo lei per me. Il cammino fu lungo ma alla fine, verso il tramonto, giungemmo in prossimità di un bosco alle pendici della montagna. Non era altissima e dall’altra parte c’era l’Italia. Dovevamo fare solo un breve tratto e saremmo stati oltre il confine. Purtroppo fummo avvistati da una pattuglia in lontananza. Non ce ne eravamo accorti. Avevano installato delle torri di legno da dove controllavano il territorio. Ci intimarono di fermarci ma, a quella voce, come per istinto ci mettemmo subito a correre. Dopo qualche metro mi venne il fiatone. Eravamo in salita ed ormai era quasi buio. Cercavo di seguire il mio amico che era davanti a me ma, a un certo punto sciovalai e finii dentro un avvallamento dietro un masso pieno di foglie. Ne approfittai e mi ci nascosi. Fu la mia salvezza. Il mio amico venne ucciso poco dopo, raggiunto da una fucilata. Io attesi lì in silenzio pieno di paura. Sentivo le voci dei soldati che erano vicino. Mi cercavano. Da terra con la faccia schiacciata nel fango intravidi i loro stivali. Dopo un po’ se ne andarono. Rassicurato, presi una bottiglietta di grappa dallo zainetto che ancora avevo sulle spalle e ne bevvi un goccio. E così vinsi il freddo e la paura. Ma non mi mossi finché non fu quasi giorno. Presi coraggio e mi incamminai sulla salita e finalmente varcai il confine. In quel momento, ricordo che avevo il sole in faccia e mi pervase una sensazione di leggerezza dovuta al calo della tensione. E poi tristemente piansi il mio amico dei giochi che non ce l’aveva fatta e giurai che avrei vissuto pure per lui.

Giù a valle,  fui accolto da una signora che mi venne incontro vedendomi stremato e provato. Sapeva che molti scappavano di là e con altri si era organizzata per soccorrere gli esuli Italiani. Il governo non se ne curava. Non li voleva. Erano percepiti come una minaccia. Potenziali concorrenti nelle già scarse opportunità di lavoro. Un peso che gravava sulle poche risorse disponibili. I profughi erano accusati dal partito comunista di essere nazionalisti o fascisti in fuga. La signora mi tranquillizzò. Ormai ero nel libro nero di Tito, come tutti quelli che fuggivano, ma ero felice, ero libero. Il giorno dopo presi il treno e raggiunsi Milano dove fui ospitato da una mia zia. Ero un apolide in quel momento. Non ci davano nemmeno la cittadinanza. E così come gli Ebrei, noi Istriani fummo costretti a emigrare chi in Australia chi in America. Io andai in Usa a New York e lì trovai da lavorare come operaio e ricominciai una nuova vita”.

Io lo guardavo attonito ed ero come sintonizzato con lui. Interagivo con la sua mente. Mi immedesimai in lui. Le sue sofferenze erano le mie. Sentivo il dolore delle sue ferite sul mio corpo e la tristezza di quell’orrore scorrere nella mia anima…

 

In quel momento una folata di vento proveniente dal finestrino della metro fece scivolare via il giornalino che avevo in mano. Il treno si fermò alla stazione Colosseo e una folla di gente entrò nel vagone. Un passeggero, sospinto dalla foga di trovare uno spazio dove aggrapparsi, senza avvedersene, calpestò il giornale. Poi sollevò il piede e lo sospinse con la punta della scarpa sotto il sedile proprio lì, da dove lo avevo preso poco prima.

Ebbi un gesto di stizza. Non ero riuscito a salvare quel giornale e non essere riuscito a preservarlo lo considerai quasi una mancanza di rispetto per quelle vittime. Il mio senso di colpa però si dissolse subito. Presi coscienza che non erano di certo quei pochi fogli di carta a conservare quel ricordo ma è la nostra memoria che mantiene il giusto ricordo restituendo l’onore a quelle persone innocenti ingiustamente uccise. Un pezzo d’Italia era ricomparso dopo anni di voluto oblio. Il governo dell’epoca, pur di non incrinare i  rapporti commerciali con l nazione vicina, preferì non urtarne la suscettibilità, scegliendo la via del silenzio. Ed èsolo dal 2004 che ogni 10 febbraio si commemora la memoria delle foibe. I libri di storia ora narrano e narrreranno la verità. Meglio tardi che mai. Questo  mi bastò a convincermi a non fare nulla per riprendere quel giornale che lasciai lì in balia del suo destino.

Fragorosamente si chiusero le porte e il treno ripartì.  Ed io con lui insieme ai miei pensieri.


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