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Memoria femminile: le donne, la Costituzione e la parola antifascista: “uguaglianza”

“Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” (Costituzione della Repubblica Italiana, Articolo 3, Gennaio 1948).

“Dare cose uguali a persone uguali e cose diverse a persone diverse.”. (Aristotele di Stagira, definizione di uguaglianza, in “Etica Nicomachea”, IV Secolo a.c.).

Nella sua Opera intitolata “Etica Nicomachea”, il Filosofo, Logico e Scienziato greco Aristotele di Stagira (384 a.c. – 322 a.c.) che oggi meglio definiremmo un Epistemologo della Scienza, dà, per primo, una definizione del termine “uguaglianza”. Essa consiste – spiega – nel “dare cose uguali a persone uguali e cose diverse a persone diverse”. A quella definizione – che tiene conto delle differenze esistenti tra gli umani e indica due facce del problema di cui il Filosofo greco discute nell’Opera (la Giustizia) – Aristotele ne aggiunge una terza, quando scrive che: “le prime due idee sono comunemente riconosciute da tutti anche senza un ragionamento.” Riassumendo questa sua ultima affermazione potremmo scrivere che, per applicare l’“uguaglianza” alle persone (e alle cose) è ovvio si debba tenere conto delle differenze di ciascuno e che questo aspetto del Principio dell’“eguaglianza” sarebbe da tutti condiviso, senza una grande discussione.

Bene. Perché questa introduzione filosofica? Lo spunto me lo danno le polemiche di questi giorni sul carattere antifascismo o meno della nostra Costituzione. Qui non ripeterò quello che ha già riaffermato – con autorevolezza e forza – il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante lo scorso 25 Aprile a Cuneo, ovvero (sintetizzo) che la nostra è una Costituzione antifascista, frutto della Resistenza e della Lotta di Liberazione Nazionale del 1943-1945. Queste affermazioni sono qui condivise pienamente e dunque fuori discussione e forzando la ‘realtà effettuale delle cose’, per dirla con Aristotele: “comunemente riconosciute da tutti anche senza un ragionamento.”. Ciò anche se, per la verità, non proprio tutti le riconoscono. E tra chi non condivide quelle affermazioni del Presidente Mattarella e non solo, c’è, oggi, una parte cospicua dell’establishment governativo del nostro Paese (l’altra parte, magari, la pensa come la prima, ma ha il pudore di tacere o di affermare il contrario dei propri colleghi di Governo).

Come ANPI ci siamo battuti, ci battiamo e ci batteremo, sempre, perché il carattere antifascista della nostra Costituzione venga preservato e difeso. Ma ci siamo battuti, ci battiamo e ci batteremo, sempre, anche perché il dettato costituzionale venga integralmente applicato, a tutti i cittadini della nostra Repubblica, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”. Questa battaglia civile è necessaria, perché l’applicazione “erga omnes” del dettato costituzionale (come era nei desiderata dei e delle Costituenti quando approvarono il testo della Costituzione) oggi, a 75 anni dalla promulgazione della Carta del Gennaio 1948, ancora non è completata.

Per chiarire meglio – e utilmente per tutti – quanto il termine costituzionale di “uguaglianza” fatichi a trovare completa e concreta attuazione nel corpo vivo del nostro Paese, porterò alcuni esempi legati alla condizione femminile in Italia; condizione nella quale è facile ritrovare l’esatto contrario di quello che Aristotele aveva in testa quando ragionava e scriveva di “cose diverse a persone diverse”, ovvero della differenza di cui in particolare le donne, ma non solo loro, sono portatrici (differenza, ecco un altro termine antifascista che in Costituzione non appare esplicitamente, ma traspare in molti suoi Articoli). Per farlo, però, occorre prima fare un piccolo, ma significativo passo indietro nel nostro tempo. Eccolo.

Il fascismo aveva della donna una concezione esclusivamente servile. La donna, per il fascismo, doveva solo essere l’“angelo del focolare” e pensare a mettere al mondo figli (possibilmente maschi) da mandare, una volta cresciuti, a combattere le guerre di Mussolini. ”La donna deve obbedire”, dirà più volte il duce del fascismo, non avendo essa per lui (sintetizzo) altre capacità utili alla Patria, se non quella di procreare, dunque di perpetuare la “razza” (ogni più correttamente “etnia”).

Con il 1943 e la scelta partigiana di molti e molte che avevano vissuto inquadrati dal regime per diversi anni dal suo avvento al potere, nasce e prende corpo però, anche una piccola ma significativa ‘rivoluzione di genere’. La donna partigiana, infatti, combatte come i maschi; sfida, come loro e con loro, i pericoli di quella scelta di lotta; vive, come loro e con loro nella Banda (cosa, per il tempo, veramente rivoluzionaria e considerata addirittura amorale) e si conquista – con il sacrificio anche di molte vite delle donne combattenti – il rispetto dei compagni d scelta e di lotta, (non il rispetto però della folla, quando qualcuna oserà sfilare per le strade insieme ai maschi).

Il “capitale sociale” accumulato dalle donne negli anni della Resistenza – armata e no – a guerra finita verrà, dalle donne stesse, speso per (o meglio gettato sul piatto) della costruzione di una società diversa e migliore. Sforzo delle donne teso a rivendicare quei diritti che il fascismo aveva loro negato per più di venti anni e che la Resistenza aveva loro invece, promesso o meglio, che la scelta resistenziale aveva propiziato.

E arriverà così il diritto di voto. E arriveranno le 21 Madri elette alla Costituente. E verrà il testo della Costituzione alla definizione del quale – soprattutto in termini di “uguaglianza dei diritti”, di evidenza e rispetto delle e per le differenze, non solo di genere (se nella Carta, come è stato, si sancirà “l’uguaglianza dei doveri”) – le 21 Madri Costituenti daranno un apporto fondamentale. Va sottolineato qui che il termine “uguaglianza”, come quello di “dignità sociale” (che deve essere “pari” tra uomo e donna) sono un portato dell’Articolo 3 della Costituzione a cui una Madre Costituente, che era stata Partigiana combattente, darà una spinta importante – e decisiva – per la sua approvazione, con l’appoggio convinto delle altre 20 Costituenti, indipendentemente dalle diverse convinzioni politiche di cui ognuna era portatrice.

Dunque, in quel testo fondante della Repubblica (“La Legge delle Leggi”), entra un termine, “uguaglianza”, che il fascismo aveva espunto, non solo dai Vocabolari della Lingua Italiana. Un’uguaglianza che fosse non solo “formale” (ovvero frutto di belle parole), ma “sostanziale”. Dunque, per dirla con uno slogan la Costituzione ci fa: “Tutti diversi, ma tutti uguali”. Ecco allora un connotato del carattere antifascista della nostra Carta costituzionale. Se poi ne vogliamo trovare altri, basta leggere (con attenzione) le parole di qualche Articolo. Qui ne cito tre, come mero esempio: la “pari dignità sociale”, del primo comma dell’Articolo 3; il “diritto d’asilo” in terra italiana, sancito dall’Articolo 10 e il ripudio della guerra di cui all’Articolo successivo. Parole che sostanziano alcuni Principi, non solo sconosciuti ma avversati dal fascismo e dunque principi antifascisti. (*)

Potrei finirla qui. Ma mi preme inserire ancora qualche riga poiché – a mio giudizio – la difesa della nostra Costituzione antifascista presuppone la conoscenza anche delle pecche applicative del suo dettato. E quando parliamo di donne e Costituzione, le pecche sono diverse ed è dunque bene conoscerle per avere presente cosa possiamo e dobbiamo fare perché non si ripropongano, nelle eventuali modifiche della Carta, sempre possibili, per espresso volere dei e delle Costituenti. Dunque, procediamo con ordine.

Dal 1948, ci sono voluti 12 anni perché la Repubblica eliminasse – nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro – le Tabelle remunerative differenziate tra uomo e donna.

E’ solo nel 1971, che una Legge (la N.1204) ha sancito la tutela delle lavoratrici madri. E’ del 1975, la nuova Legge sul “Diritto di Famiglia”, che affranca la donna dalla potestà (di fatto proprietà) totale del coniuge e, per restare all’interno della questione della potestà, trasforma quella “patria” sui figli in “potestà genitoriale”. In questo caso, non solo un cambio di termini, ma la certificazione, anche giuridica, della comune responsabilità dei coniugi verso la tutela e la crescita dei figli (ecco un esempio di “parità sociale e giuridica” resa concreta). Infine, bisogna arrivare al 1977 perché alle donne sia garantito il diritto di accesso a diverse professioni, come quella di Magistrato, prima appannaggio esclusivo degli uomini.

Un quadro sconsolante delle pecche applicative della Costituzione? Non lo credo. Solo la dimostrazione pratica di quanto è stato lento e difficile, per le donne italiane, il cammino verso l’effettiva – e sostanziale – “parità sociale e giuridica” con gli uomini. E se si guarda il tempo trascorso per rendere, almeno in alcuni campi, effettiva quella parità si capisce quanto ancora ci sia da fare, per le donne del nostro Paese (ma non solo per loro), per arrivare a concretizzare l’affermazione antifascista di quel primo comma dell’Articolo 3 Cost., che recita e sancisce: “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Ma si sa: “anche un lungo viaggio inizia con un piccolo passo”. L’importante è che il “Legislatore” (leggi il Parlamento della Repubblica) abbia intenzione di seriamente intraprendere quel viaggio e dunque di farlo seriamente, quel “piccolo passo”.

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(*) Se di antifascismo della Costituzione si parla (e si scrive) non si può dimenticare quanto sancisce la XII Disposizione Transitoria e Finale che della Costituzione è parte integrante: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.”

Per l’attuazione di questa Disposizione costituzionale – e ancora per restare nell’ambito dell’antifascismo del nostro Corpus giuridico nazionale – vanno ricordate due specifiche Leggi di contrasto al fascismo “sotto qualsiasi forma”: la cosiddetta “Legge Scelba”, la N. 645 del 20 Giugno 1952 e quella cosiddetta “Mancino”, la N. 205, del 20 Giugno 1993, quest’ultima nata per contrastare anche gli episodi di odio, violenza discriminazione e razzismo, spesso (ma non sempre) “di chiara marca fascista”, come si dice.

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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