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Memoria nucleare: gli uomini che fecero la Bomba

Stefano Massini ci racconta il "Manhattan Project"

“Il pilota di Hiroshima, un duro alla maniera di John Wayne / Ray Ban scuri, il lavoro era guerra, / ma negli occhi quel bimbo sulla terra. //” (I Nomadi. “Il Pilota di Hiroshima”, Singolo, inserito anche nell’Album “Ci penserà poi il Computer”, 1985)

La strofa della canzone dei Nomadi di Augusto Daolio, “Il Pilota di Hiroshima” che avete letto, si riferisce, molto probabilmente, al pilota militare americano Claude Eatherly che, insieme a Paul Tibbets Jr. (definito poi “il fattorino della morte”) era stato scelto per pilotare il B29 USAF – Superfortress 44-86292 (da Tibbets denominato “Enola Gay”) che, il 6 Agosto del 1945, alle ore 8,15, sganciò la prima bomba H della Storia sulla città giapponese di Hiroshima. Il bombardamento atomico fu reiterato dagli americani il 9 Agosto successivo, alle 11,02, sempre in Giappone, sulla città di Nagasaki. Quella volta l’aereo che avrebbe sganciato la bomba fu soprannominato “Fat Man”, ovvero “Grassone” e a condurlo era il pilota molitare Charles Sweeney, morto nel 2004 (*)

Tibbets Jr – nato nel 1915 e deceduto nel 2007, poi divenuto Generale – e  Claude  Eatherly avevano partecipato al cosiddetto “Progetto Alberta”, preparato dall’Aviazione Militare statunitense. Il Progetto faceva parte (come un “District”) del più articolato “Progetto Manhattan” (“Manhattan Project”) partito ufficialmente il 13 Agosto del 1942 e che, nei tre anni successivi, portò – nei Laboratori della segretissima Cittadella scientifica di Los Alamos, nel Nuovo Messico – alla realizzazione della fissione nucleare e al successivo assemblaggio della cosiddetta bomba atomica, cioè la bomba all’idrogeno, convenzionalmente definita anche “Bomba H”. (**)

Come quel Progetto vide la luce e soprattutto quali furono i protagonisti di quella Ricerca scientifica (poi divenuta portatrice di morte) ce lo racconta lo scrittore e drammaturgo fiorentino Stefano Massini, il quale – noto per diversi altri lavori teatrali tra i quali la “Lehman Trilogy”, sulla nascita e il tracollo dell’omonima Banca privata d’Affari; il testo intitolato “Il Sangue e la Neve”, sulla vita e sulla morte di Anna Politkovskaja e quello intitolato “Bunker Kiev” e dedicato alla guerra in Ucraina – stavolta, con il suo nuovo Dramma teatrale, intitolato “Progetto Manhattan”- del quale esiste anche un’edizione in Volume edita, quest’anno dalla Einaudi, – si cimenta con la genesi dell’idea scientifica che porterà alla nascita e al successivo impiego, diremmo così “on the road”, della Bomba H.

Meglio è scrivere, però, che il Dramma di Massini riguarda, in particolare, i quattro Scienziati ebrei, tre ungheresi e uno americano (di padre tedesco), che – mentre Hitler sterminava i loro fratelli nei Lager – lavorarono alla bomba all’idrogeno che, nelle loro intenzioni, avrebbe posto fine alla guerra e conquistato la pace. E così accadde al costo, però, di centinaia di migliaia di vite di inermi cittadini del Sol Levante. Dopo quelle due giornate di morte del 1945 (va ricordato che la guerra, scoppiata nel Settembre del 1939, era finita ufficialmente tra l’8 ed il 9 Maggio del 1945) la pace fu dunque conquistata, anche se le armi nucleari la manterranno sempre in un equilibrio precario per molti anni a venire, dopo la fine del Secondo conflitto mondiale.

Strutturato in quattro parti, fitte di echi biblici (Libro dei Patriarchi, Libro dei Re, Libro dei Profeti e Libro dei Sacerdoti) e 27 Capitoli, il “Manhattan Project” di Stefano Massini ci porta fra gli ebrei espatriati oltre oceano, con i loro riti e costumi che affondano nella cultura yiddish, con le loro idee, le loro ossessioni, i tic linguistici e lo humour che li caratterizza. Il Dramma inizia in un seminterrato in cui il cosiddetto “Clan degli Ungheresi”, di cui facevano parte gli Scienziati Leo Szilard, Jeno Wigner e Paul Erdos, tutti coordinati da Robert Oppenheimer (il protagonista principale del Dramma di Massini), intuì potenzialità e rischi di un uso militare della reazione a catena, ma arrivò comunque a progettare la Bomba H, che era stata un’intuizione primigenia di alcune delle più brillanti menti scientifiche dell’epoca, come quelle di  Enrico Fermi e di Albert Einstein, fuggite anch’esse dall’Europa a causa delle persecuzioni razziali nazifasciste.

Ma cominciamo dall’inizio di questa storia e per farlo, c’è bisogno di scodellare una citazione biblica. Dice l’Ecclesiaste: “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. […].”

Perché lo ricordo, in relazione al Dramma di Massini? Perché per Robert Oppenheimer il cammino verso il “Progetto Manhattan” iniziò quando era appena un bimbetto, geniale ma assai estroverso (leggi pestifero). E iniziò con il suo incontro-scontro con le Sacre Scritture. Si racconta, infatti, che il futuro Scienziato si divertisse assai a rappresentare a suo modo i racconti dei Patriarchi. Il ragazzino, con la sua incosciente irriverenza per i Profeti, avrebbe potuto aggiungere, alle parole dell’Ecclesiaste, la frase: “C’è un tempo per scherzare e uno per ridere”: Si limitò, invece, a fare dei disegni, diremmo così arditi, in questo modo incorrendo nelle ire del Rabbino e del padre Julius.

Alcuni esempi: accanto al Profeta Elia il piccolo Robert, un giorno, aveva disegnato una valigia rossa poiché pensava che, se uno deve intraprendere un viaggio (anche quello verso l’al di là) ha per forza bisogno delle sue cose. E ancora, perché il Profeta Geremia per urlare il suo dolore, di fronte alle rovine della città di Gerusalemme, non poteva utilizzare il megafono con cui lui lo aveva ritratto? E ancora, perché non rendere più appetitoso il piatto di lenticchie del Profetai Esau, aggiungendovi funghi, zucchine e patate? Eresie intollerabili per il Rabbino e per Papà Oppenheimer. Ma il piccolo Robert, a sei anni di età, così manifestava il suo bisogno di “correggere” la realtà che incontrava e da adulto, diventato un Fisico geniale, applicò quel metodo, diciamo così “correttivo”, anche alle cose scientifiche, forse alla ricerca di una logica ad oltranza, in grado di proteggerlo dai suoi mostri interiori. E fu probabilmente per questo suo fare scientifico che si guadagnò il compito di coordinare il “Progetto Manhattan” che sarebbe entrato nella Storia, soprattutto per la caterva di morti che avrebbe procurato il suo prodotto finale.

Per gli altri tre Scienziati ebrei di cui sopra, anche loro protagonisti del lavoro di Massini, non fu difficile farsi coinvolgere nel Progetto della Bomba H. I tre – fuggiti da Budapest e dall’Ungheria dei progrom antisemiti, della dittatura simil-nazista dell’Ammiraglio Miklos Horthy e delle Croci Frecciate di Ferenc Szalasi – pensarono, quando fu loro proposto di partecipare al Progetto della bomba all’idrogeno – che quello fosse il modo migliore per contrastare la ferocia hitleriana che stava annientando in modo scientifico il loro popolo … Ma anche il modo per battere, sul tempo, gli Scienziati nazisti che lavoravano da anni alla realizzazione di quella stessa idea scientifica, rivelatasi mortifera, e che erano arrivati a tanto così dal costruirla quella bomba distruttrice di cose e di vite (e cosa sarebbe successo se ci fossero riusciti?).

Tutti e tre quegli Scienziati erano arrivati esuli a New York e parlavano una lingua strana che mischiava l’ungherese all’yiddish e sentendola, i newyorkesi pensavano che quei tre strani ebrei parlassero come Bela Lukosi, l’attore rumeno che, sullo schermo, interpretava, con successo, il transilvano Conte Dracula e magari non sapevano che anche quel Garbo, scelto come pseudonimo d’arte dall’altra Star del Cinema di nome Greta Lovise Gustafson, era il nome di un antico Re Ungaro.

Comunque, nonostante le incomprensioni linguistiche, i tre novelli “Dottor Stranamore”, si gettarono nell’impresa, ché la Scienza parlava una lingua per loro assai comprensibile e quei cinque mesi che avevano avuto di tempo per sfidare non solo Hitler, ma anche l’utopia scintifica, rappresentavano una gara alla quale valeva la pena di partecipare, certi di vincerla. Dunque, si gettarono a capo fitto nel lavoro e “as time goes by”, ovvero “mentre il tempo, passa”(va) – per parafrasare la famosa canzone del Film del 1942 “Casablanca” diretto da Michael Curtiz – alla fine arrivarono a sbrogliare, con successo, la matassa atomica.

Ai tre Scienziati si unì, più prosaicamente, il potente finanziere Alexander Sachs, l’ebreo lituano che da Wall Street seppe tessere la rete di un’imponente raccolta fondi a nove zeri, grazie alla quale prese vita il connubio fra la Scienza e la prima vera arma di distruzione di massa: la bomba all’’idrogeno.

Di tutto questo parlano l’ultimo lavoro teatrale di Stefano Massini e il libro che ce lo presenta. Anche stavolta Massini usa la penna nel modo geniale con il quale è solito trattare fatti e accadimenti importanti della Storia dell’umanità. Dunque, un libro da leggere e uno Spettacolo da gustare, quando arriverà nei Teatri della nostra città.

Nota finale in celluloide: quando si parla e si scrive della Bomba H, se si è amanti del Cinema, non si può non citare il Film del 1964 intitolato “Il Dottor Stranamore. Ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”, diretto da Stanley Kubrick e interpretato, tra gli altri, da uno strepitoso Peter Sellers. Nel Film, il Generale Jack D. Ripper, un Ufficiale psicopatico americano che fa parte dell’Alto Comando Strategico dell’Aereonautica, dà ordine a una squadriglia di aeroplani, attrezzati per il trasporto di bombe atomiche, di volare per un’azione contro l’Unione Sovietica. Subito dopo si chiude nella base, e quindi tutti, compreso il Presidente degli Stati Uniti, sono impossibilitati ad intervenire. Sia gli alti Ufficiali americani, sia i massimi esponenti sovietici, tentano di fermare la minaccia di una guerra nucleare, ma …

(*) Dopo il lancio delle Bombe H, nelle due città giapponesi colpite, si contarono più di 210mila morti e di 150mila feriti, ma molti uomini, donne e bambini continueranno a morire, per molti anni dopo quel 1945, a causa dei postumi dell’esposizione alla luce del “fungo” assassino generato da quelle due bambe H. A causa di quell’esperienza drammatica, la vita di Claude Eatherly, uno dei piloti dell’”Enola Gay”, fu ridotta a brandelli e si trascinò tra Ospedali psichiatrici e celle di prigioni militari, per colpa del rimorso che Eatherly sentiva drammaticamente per essere stato il motore di quella strage di vite. Fu lui, infatti, a pronunciare la frase: “Il cielo è sereno su Hiroshima”, il segnale che la bomba H poteva essere sganciata sulla città giapponese. Per i sensi di colpa che lo divoravano, Eatherly – che sarà definito “l’ultima vittima di Hiroshima”- cadde in depressione e si spense a Huston (Texas) il 1° Luglio del 1978.
(**) Il Laboratorio di Los Alamos venne costruito, dal nulla, nel deserto del Nuovo Messico, nel 1942. Il luogo fu suggerito al Generale Groves, responsabile del “Progetto Manhattan”, dal Fisico Robert Oppenheimer che, non senza difficoltà, riuscì ad imporlo. Il Laboratorio sarebbe dovuto sorgere attorno alla Los Alamos Ranch School, tra le Montagne Jemenez, a 2.376 metri d’altezza. Il sito del Laboratorio fu definito dal Fisico italiano Emilio Segre, “Un paesaggio meraviglioso e selvaggio”, mentre il fisico Leo Szilard, uno degli uomini che fecero la Bomba, lo definì come un luogo in cui “Tutti quelli che ci andranno diventeranno pazzi”.

Ricordando Harry Belafonte. Si è spenta la “Voce dei Caraibi” (ma anche dei Diritti)

Dunque, Harry Belafonte, la “Voce dei Caraibi”, il cantante-attore giamaicano, nato ad Harlem (New York) che, negli anni ’50 del ‘900, ha fatto conoscere all’America e all’Europa la musica caraibica (leggi il calypso) se n’è andato. E’ morto a Manhattan dove viveva, all’età di 96 anni. Belafonte non amava però solo la musica o il fare cinema, amava anche – e soprattutto si batteva per – i diritti. Era un uomo giusto, amico di Nelson Mandela e di Martin Luther King e nemico giurato di Donald Trump. L’UNICEF lo aveva nominato, nel 1987, suo Ambasciatore. Arruolatosi in Marina, dopo Pearl Harbor, alla fine della guerra riprese a cantare e recitare, sebbene per un nero come lui sfondare fosse cosa complicata, al tempo della segregazione razziale e delle lotte per i diritti dei neri americani (ricordiamo Rosa Parks). Ma lui ce la fece e la sua Matilda restò in classifica, nella Hit Parade USA, per ben 31 settimane consecutive. E la sua The Banana Boat Song – canzone che raccontava la fatica dei lavoratori portuali del turno di notte che, dopo avere caricato la nave bananiera e volendo tornarsene a casa (morti di fatica) aspettano il contabile e gli cantano: «Come, mister tallyman, tally me banana./ Daylight come and we wanna go home – Vieni signor contabile, fai il conteggio delle mie banane. / La luce del giorno arriva e noi vogliamo andare a casa». –  contenuta nel 33 giri intitolato “Calypso” (1965) – ha venduto milioni di copie.

Quella sua voce, calda e suadente, si è dunque spenta per sempre, ma le sue canzoni restano e sono ancora attuali. Così come resta la traccia della sua personale battaglia per i diritti di tutti.

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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